Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la Fornero è (ancora una volta) incostituzionale

15 Giugno 2022

Il requisito del carattere “manifesto” dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiesto per disporre la reintegra, è indeterminato, prestandosi ad incertezze...

Il requisito del carattere “manifesto” dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiesto per disporre la reintegra, è indeterminato, prestandosi ad incertezze applicative e potendo condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento: di fatto, tale requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e, per di più, priva di un plausibile fondamento empirico.

Lo ha affermato la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 125, pubblicata il 19 maggio 2022.

Giustificato motivo oggettivo di licenziamento: la “manifesta” insussistenza del fatto viola la Costituzione? La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, comma 7, secondo periodo, l. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), l. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della “manifesta” insussistenza del fatto stesso, posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il rimettente prospetta, in primo luogo, il contrasto con l'art. 3 Cost., in ragione dell'arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, da un lato, e la disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo, dall'altro lato: se, nella prima fattispecie, la reintegrazione è subordinata al ricorrere dell'insussistenza del fatto, nel licenziamento che trae origine da ragioni economiche è richiesta – senza alcun fondamento logico-giuridico – una insussistenza manifesta, che spetta al lavoratore dimostrare, con inversione dell'onere della prova.

La disposizione censurata, inoltre, introdurrebbe una regola illogica e irrazionale, imponendo al lavoratore la dimostrazione di un fatto negativo e dai contorni indefiniti, che rientrerebbe nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro.

Da ultimo, la disposizione censurata, nel prevedere un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi e nell'onerare il lavoratore della prova di fatti estranei alla sua sfera di conoscenza, pregiudicherebbe e renderebbe comunque eccessivamente difficoltoso l'esercizio del suo diritto di agire in giudizio, in violazione dell'art. 24 Cost.: il lavoratore, infatti, non potrebbe prevedere le proprie chance di successo e, dunque, non potrebbe chiedere a ragion veduta di tutelare in sede giurisdizionale i propri diritti.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

Licenziamento per ragioni economiche: le tutele per i lavoratori. La questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente verte sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative. A tale riguardo, lo statuto dei lavoratori appresta, a seconda delle dimensioni dell'impresa, un diversificato apparato di tutele.

Quando sia manifesta l'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reintegratoria, oggi non più facoltativa in seguito all'intervento correttivo della Consulta (Corte Cost., n. 59/2021). All'ordine di reintegrazione si affianca la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria, parametrata all'ultima retribuzione globale di fatto e, comunque, non superiore all'importo di dodici mensilità, per il periodo che intercorre dal licenziamento alla effettiva reintegrazione. Da tale somma occorre detrarre quanto il lavoratore, nel periodo di estromissione, abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum) e quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum). Il datore di lavoro è, poi, obbligato a versare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.

Nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro sin dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Nella determinazione dell'indennità si tiene conto, tra l'altro, dell'anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.

Tutela del lavoratore: eguaglianza e ragionevolezza sono limiti invalicabili per il legislatore. Il giudice delle leggi è costante nell'affermare che il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell'ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.).

L'attuazione di tali principi è demandata alle valutazioni discrezionali del legislatore (cfr., ad es., Corte Cost., n. 59/2021, n. 150/2020 e n. 194/2018), chiamato ad apprestare un equilibrato sistema di tutele. La Consulta ha, tuttavia, ribadito che il legislatore, pur nell'ampio margine di apprezzamento di cui dispone, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (così Corte Cost., n. 59/2021). La diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l'adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, nelle quali la reintegrazione non costituisce l'unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali (Corte Cost., n. 59/2021).

Nell'attuazione dei principi sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost., essenziale è il compito del giudice, chiamato a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge.

Carattere “manifesto” dell'insussistenza del fatto: requisito indeterminato. Nel peculiare sistema delineato dalla riforma Fornero, la reintegrazione, sia per i licenziamenti disciplinari sia per quelli economici, si incardina sulla nozione di insussistenza del fatto. È onere del datore di lavoro dimostrare tali presupposti, alla luce dell'art. 5 della legge n. 604/1966 (Norme sui licenziamenti individuali), che completa e rafforza, sul versante processuale, la protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi.

La Consulta ritiene che la previsione del carattere “manifesto” di una insussistenza del fatto presenta i profili di irragionevolezza intrinseca già posti in risalto nella citata sentenza costituzionale n. 59/2021, che ha preso in esame il carattere meramente facoltativo della reintegrazione.

Il requisito del carattere manifesto dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è, anzitutto, indeterminato. Nella prassi, infatti, è problematico individuare il discrimine tra l'evidenza conclamata del vizio e l'insussistenza pura e semplice del fatto. Il criterio prescelto dal legislatore si presta ad incertezze applicative (cfr. Cass. Civ., n. 14021/2016) e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento.

Di fatto, il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico. Non solo il riferimento alla manifesta insussistenza non racchiude alcun criterio idoneo a chiarirne il senso; esso entra anche in tensione con un assetto normativo che conferisce rilievo al fatto e si prefigge in tal modo di valorizzare elementi oggettivi, in una prospettiva di immediato e agevole riscontro.

Manifesta insussistenza del fatto: disciplina intrinsecamente irragionevole. Ed ancora, il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave, solo perché l'insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.

Inoltre, il criterio della manifesta insussistenza risulta eccentrico nell'apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell'accertamento.

Infine, nel far leva su un requisito indeterminato e per di più svincolato dal disvalore dell'illecito, la disposizione censurata si riflette sul processo e ne complica taluni passaggi, con un aggravio irragionevole e sproporzionato. Oltre all'accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza.

A ben vedere, un sistema così congegnato vanifica l'obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità – dichiarata dalla riforma Fornero – di una equa redistribuzione delle tutele dell'impiego. L'irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata risiede, pertanto, anche in uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti.

La disciplina censurata è, quindi, incostituzionale limitatamente alla parola “manifesta”.

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