La legge penale applicabile nei casi in cui tra condotta ed evento entri in vigore una norma penale sfavorevole per l'imputato
22 Ottobre 2018
1.
Il quesito rimesso alle Sezioni unite riguarda un aspetto peculiare della tematica inerente la successione di leggi penali nel tempo, così come peculiare è la vicenda che vi ha dato origine. Il 20 gennaio 2016 Tizio investe Caio che, a causa dei traumi riportati, muore il 28 agosto 2016. Nel frattempo, con legge 41 del 23 marzo 2016, viene introdotto l'art 589-bis c.p. Il giudizio penale incardinatosi dopo la riforma, viene definito con sentenza ex art. 444 c.p.p., in forza della quale Tizio viene condannato alla pena concordata sulla base del (nuovo) art. 589-bis c.p. L'imputato propone ricorso avverso la sentenza lamentando la violazione degli artt. 25 Cost., 7 Convenzione Edu e 2 c.p., osservando che qualora la vittima fosse deceduta «sul colpo anziché dopo alcuni mesi dal sinistro, il reato sarebbe stato punito con una pena sensibilmente meno grave», in forza del quadro normativo vigente prima della riforma (medio tempore) introdotta dalla l. 41/2016. In particolare si sarebbe fatto riferimento all'art. 589 c.p. che, nell'ipotesi base (primo comma), prevedeva(va) la reclusione da sei mesi a cinque anni, aumentata (in forza della circostanza aggravante dell'aver commesso il fatto con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale) da due a sette anni; pena, quest'ultima, costituente la cornice edittale dell'ipotesi “base” di cui al (nuovo) art. 589 bis c.p. Da qui l'interrogativo posto dal ricorrente e fatto proprio dalla Quarta Sezione della Corte di cassazione: «Può dirsi legale l'applicazione (sia pure frutto di un accordo tra le parti) di una pena che, al momento della condotta, si sarebbe collocata all'interno di limiti edittali più favorevoli rispetto a quelli presi a base del patteggiamento ricavati dallo ius superveniens (ossia la nuova e più severa cornice edittale che, al momento dell'evento, era entrata in vigore)?».
Il primo snodo problematico: le ipotesi di ricorribilità per Cassazione nei confronti della sentenza di “patteggiamento”. Per rispondere all'interrogativo in tal modo sollevato, vista la peculiarità della vicenda concretamente esaminata, si è reso necessario vagliare preliminarmente l'esistenza dei presupposti di ricorribilità nei confronti della sentenza di patteggiamento. Al riguardo, la Corte ha ricordato che, sull'argomento, si sono succedute tre differenti impostazioni. Secondo l'orientamento più risalente e maggiormente restrittivo, si riteneva che la sentenza che recepisce l'intesa raggiunta dalle parti sul quantum della pena da applicarsi in concreto fosse ricorribile per cassazione solo per errores in procedendo e per mancato proscioglimento ricorrendone in presupposti ex art. 129 c.p.p. (Cass. pen., Sez. feriale, 14 settembre 1990, n. 2692). Successivamente, oltre a questi presupposti è stato riconosciuto anche quello relativo all'ipotesi in cui la pena sia “illegale”, considerandosi tale quella determinata sulla base di un calcolo non conforme a legge (Cass. pen, Sez. VI, 19 febbraio 2004, n. 18385; Cass. pen., Sez. VI, 30 ottobre 2013, n. 44909; Cass. pen., Sez. feriale, 26 agosto 2014, n. 38566). Da ultimo, considerata anche l'entrata in vigore dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. (che espressamente include tra i motivi di ricorso nei confronti della sentenza di patteggiamento anche la ritenuta illegittimità della pena), si ritiene che la pena sia illegale (e, dunque, sia ricorribile per Cassazione la sentenza che vi dia applicazione eventualmente in forza dell'accordo delle parti) anche quando sia stata determinata sulla base di parametri edittali successivamente modificati da una legge penale più favorevole, o colpiti da declaratoria d'illegittimità costituzionale, pur se la pena concretamente irrogata sia compresa entro limiti edittali nella specie applicabili (Cass. pen., Sez. IV, 13 marzo 2014, n. 27600; Cass. pen., Sez. IV, 21 novembre 2014, n. 49531; Cass. pen., Sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 33040; Cass. pen., Sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107; Cass. pen., Sez. II, 18 novembre 2015, n. 2702). Ed è proprio in considerazione di quest'ultima impostazione che la Corte evidenzia l'interesse del ricorrente a impugnare la sentenza pronunciata (sull'accordo delle parti) applicando la normativa sopravvenuta, che, pur consentendo di determinare la pena concretamente irrogata entro la cornice edittale stabilita da quella precedentemente in vigore, pone l'imputato in una posizione complessiva deteriore. Ciò è quanto si è verificato nel caso specifico: l'aumento di pena conseguente alla tipologia di regole cautelari violate era originariamente racchiuso nell'ambito di una circostanza aggravante, mentre oggi il fatto è contemplato da una fattispecie incriminatrice autonoma.
Quid iuris per la successione di leggi penali nel tempo? La soluzione (maggioritaria): centralità del tempus della consumazione. Chiarito il “contesto” processuale di riferimento, la Corte affronta il nodo problematico sollevato dal ricorrente, concernente l'individuazione della legge penale applicabile nei casi in cui tra la condotta e l'evento s'inserisca l'entrata in vigore di una norma penale sfavorevole per l'imputato. Il criterio dell'evento. Secondo un primo, e prevalente, indirizzo, «[…] la pena applicata non risulta illegale perché è comunque ricompresa nei limiti edittali prevista dalla norma, da ritenere applicabile comunque osservato la correttezza della decisione del giudice di merito che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità, evidenziando che per il trattamento sanzionatorio doveva comunque aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell'evento lesivo. Non vi è quindi ragione di evocare l'art. 2 comma 4, c.p. per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. È cioè rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta. Quindi è al momento della consumazione che bisogna avere riguardo alla normativa applicabile e rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta» (Cass. pen., Sez. IV, 17 aprile 2015, n. 22379; analogamente Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 2006, n. 20334; Cass. pen., Sez. V, 22 giugno 2010, n. 34015; Cass. pen., Sez. V, 19 maggio 2011, n. 29872; Cass. pen., Sez. V, 13 marzo 2014, n. 19008). Il criterio della condotta. La Corte, tuttavia, evidenzia che l'applicazione del c.d. criterio della consumazione è idonea a produrre,almeno in ordine a ipotesi simili a quella oggetto del giudizio, irragionevoli conseguenze e dichiara di condividere un secondo indirizzo, seppur minoritario e risalente, che fa leva sul criterio della condotta Secondo tale impostazione, in presenza di una condotta istantanea – come nel caso di specie – la legge penale da applicarsi dovrebbe essere, se più favorevole al reo in punto di trattamento sanzionatorio, quella vigente al momento in cui il soggetto attivo ha agito e non, invece, quella in vigore al momento in cui si è verificato l'evento (in tal senso: Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1972, n. 8448). La Suprema Corte evidenzia che bisognerebbe aderire a questo criterio almeno in caso di reati colposi a forma libera e a condotta istantanea, ossia quando la condotta si esaurisca interamente sotto il vigore della lex mitior (diverso dal caso in cui, al contrario, la condotta, riconducibile ad un reato permanente, si è protratta, almeno in parte, oltre il momento in cui è stato previsto un trattamento sanzionatorio più grave). Il criterio dell'evento potrebbe portare - nel caso in cui due soggetti che, colposamente, pongono in essere la stessa condotta, ma nell'un caso il decesso della vittima avviene nell'immediato mentre, nell'altro, dopo l'entrata in vigore della norma più sfavorevole - ad un trattamento sanzionatorio ingiustificabilmente più severo a carico del secondo soggetto agente, per il sol fatto che la vittima è rimasta in vita per un certo tempo dopo il sinistro. Con ciò si violerebbe il principio nullum crimen, nulla poena sine (praevia) lege poenali nonché il principio di irretroattività della legge penale meno favorevole al reo, che vale non solo in relazione alla previsione incriminatrice ma anche a quella sanzionatoria, posto che il «soggetto agente non poteva, non solo conoscere, ma neppure prevedere che lo ius superveniens potesse comportare, per il reato commesso, conseguenze più gravi di quelle in vigore nel momento in cui egli si determinò a commettere il reato» (così l'irdinanza in commento, che sottolinea che nel caso di specie non si parla di reato doloso bensì di reato colposo). Infatti, osserva la Corte, non potrebbe «porsi a carico del soggetto attivo l'onere di prevedere che, medio tempore (dopo il compimento della condotta e prima del verificarsi dell'evento), il legislatore decida di colpire il reato con maggior gravità. Diversamente opinando, la minaccia penale verrebbe deprivata della sua funzione di influenza dell'autodeterminazione dei consociati; al tempo stesso, si abdicherebbe a un'essenziale ratio garantistica che ispira e contraddistingue l'intero sistema penale, sotto il profilo dell'individuazione non solo del precetto, ma anche della sanzione da applicarsi ratione temporis». Inoltre, si osserva, il criterio dell'evento (soprattutto per i reati colposi a forma libera ed a condotta istantanea) si pone in contrasto con diversi principi fondamentali dell'ordinamento: con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), giacché viene considerata ingiustificata la disparità di trattamento che ne può conseguire tra due soggetti che abbiano realizzato, nello stesso tempo, una medesima condotta, ma diverso sia il tempus di consumazione; con il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.) che si salda con il principio di colpevolezza, di cui all'art. 27, comma 1, Cost. (Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364, nella quale si afferma che l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a causa della sua inevitabilità, scusa il soggetto agente); e con il principio di adesione dell'ordinamento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117, comma 1, Cost.). A quest'ultimo riguardo si addita l'art. 7 Cedu, che sancisce il diritto del destinatario di accedere alla norma penale e di poter prevedere le conseguenze della sua condotta in caso di inosservanza di precetti penali. Dato atto dell'esistenza del contrasto, la decisione viene rimessa alle Sezioni unite. 2.
Cass. pen., Sez. IV, con ordinanza n. 21286/2018 ha rimesso al Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione un ricorso avente a oggetto la questione ritenuta oggetto di contrasto giurisprudenziale: «se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell'evento». 3.
Il primo Presidente ha rimesso gli atti alle Sezioni unite e fissato per il 19 luglio 2019 l'udienza di trattazione è sulla questione controversa: «se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell'evento». 4.
Il 19 luglio 2018, le Sezioni unite penali della Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: «A fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta». 5.
Il massimo consesso della Suprema Corte adotta, con un vero e proprio revirementrispetto alla linea interpretativa sino a quel momento maggioritaria, il c.d. criterio della condotta, aderendo così alla tesi prospettata dalla Sezione rimettente. L'articolata motivazione, depositata il 24 settembre 2018, apre affrontando una duplice questione di natura processuale logicamente preliminare al merito della causa e concernente, da un lato, la tempestività del ricorso proposto dalla difesa e, dall'altro, la nozione e l'estensione del concetto di pena illegale ex art. 448, comma 2-bis, c.p.p. Quanto alla tempestività del ricorso in Cassazione proposto dal difensore e procuratore speciale dell'imputato, punto focale è la (per nulla scontata) individuazione del dies a quo del termine per l'impugnazione della sentenza di patteggiamento di primo grado. La Corte descrive il contrasto giurisprudenziale sussistente in relazione alla possibilità per il giudice, qualora proceda con applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., di indicare un termine per il deposito della motivazione, aderendo alla tesi per cui tale possibilità sia da escludere; e in effetti, l'art. 544, comma 2 e ss., c.p.p., si riferisce alle sole sentenze dibattimentali ovvero ai provvedimenti la cui disciplina esplicitamente richiami tale disposizione (ciò che avviene, ad esempio, per le sentenze emesse a seguito di rito abbreviato per previsione espressa dell'art. 442, comma 1, c.p.p., che rinvia agli artt. 529 ss. c.p.p. o ancora per la sentenza di non luogo a procedere, ove l'art. 424, comma 4, c.p.p. prevedendo un termine legale non superiore a 30 gg., rimanda all'art. 544 c.p.p.). Nulla di simile è previsto all'art. 448 c.p.p. che, anzi, dispone che «il giudice […] pronuncia immediatamente sentenza». La Suprema Corte indica il dies a quo del termine di 15 giorni per l'impugnazione della sentenza pronunciata in camera di consiglio nell'ultima notifica o comunicazione dell'avviso di deposito del provvedimento, così come previsto dal combinato disposto degli artt. 585, comma 2, lett. a) e 128 c.p.p.: nel caso di specie, proseguono i giudici di legittimità, il ricorso proposto è da considerarsi tempestivo in quanto, in assenza della suddetta notifica o comunicazione – il giudice di primae curae, in effetti, depositò la sentenza entro il termine indicato nel dispositivo e, pertanto, non vi fu alcuna notifica alle parti interessate –, non è possibile individuare il dies a quo né, tantomeno, il dies a quem. In merito, poi, al concetto di pena illegale – attualmente nominata all'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., e indicata dal Legislatore come una delle tre circostanze tassative in cui è prevista la ricorribilità della sentenza di patteggiamento – la Corte sottoscrive, in sostanza, quanto già prospettato dal giudice rimettente. Afferma, infatti – anticipando, almeno in parte, la soluzione al quesito di diritto sostanziale sottoposto alla sua attenzione – che la pena applicata nel caso in esame vìola il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancito all'art. 25, cpv., Cost., in quanto «il procedimento di commisurazione del giudice del patteggiamento si è sviluppato all'interno di una comminatoria edittale in radice – e in toto – illegale perché lesiva di un principio che dà corpo alla tutela di un valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali». Tanto premesso, la pronuncia affronta la controversa questione di diritto sostanziale oggetto di rimessione. Descritta la disciplina antecedente alla l. 23 marzo 2016, n. 41 (entrata in vigore il 25 marzo 2016) e dato conto della non trascurabile differenza di trattamento sanzionatorio prevista per il medesimo fatto dalla nuova disciplina – e in effetti, nonostante la cornice edittale individuata dall'art. 589-bis c.p. coincida con quella prevista dall'ipotesi aggravata del “vecchio” art. 589 cpv., c.p. (da 2 a 7 anni di reclusione), in questo secondo caso l'aggravante ben poteva essere bilanciata con giudizio di equivalenza o, addirittura, subvalenza con eventuali circostanze attenuanti integrate –, la Corte ricostruisce i due orientamenti delineatisi in seno alla giurisprudenza di legittimità relativamente all'individuazione del tempus commissi delicti e, quindi, al momento cui far riferimento per l'individuazione della disciplina applicabile ai reati di evento. L'indirizzo maggioritario – recentemente sostenuto, ex multis, da Cass. pen., Sez. IV, 17 aprile 2015, n. 22379, Sandrucci – individua la norma applicabile in quella vigente al tempo della realizzazione dell'evento lesivo, vale a dire il momento consumativo del reato, escludendo così ab origine la tematica della successione delle leggi penali nel tempo ex art. 2, co. 4, c.p. Decisamente più risalente è il secondo orientamento richiamato dalla Corte – Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1972, n. 8448, Bartesaghi, processo anch'esso vertente su un caso di omicidio colposo per violazione di norme stradali in cui l'azione avvenne prima dell'introduzione di un inasprimento della pena –, che, al contrario, reputa applicabile la disciplina esistente al momento della condotta, se più favorevole, qualora l'azione o l'omissione si sia integralmente esaurita prima della novella normativa. Differentemente da quanto affermato dalla sentenza Sandrucci – che espressamente sovrappone e reputa coincidenti il momento consumativo e il momento commissivo della fattispecie –, il percorso logico della sentenza Bartesaghi muove dalla distinzione tra commissione e consumazione del reato: la prima si realizza con la condotta del soggetto agente, la seconda con l'evento naturalistico (nel caso sub iudice, la morte della persona offesa). I due momenti, pertanto, ben possono non coincidere temporalmente («se vi sono reati nei quali commissione e consumazione coincidono, ve ne sono altri nei quali il momento della consumazione, col realizzarsi dell'evento, si verifica successivamente»). La richiamata pronuncia Bartesaghi considera poi il dato letterale del citato art. 2, comma 4, c.p. che, in effetti, parla di commissione del reato: se il momento commissivo coincide con la condotta, allora correttamente potrà applicarsi la legge vigente al momento della stessa – sempre, lo ribadiamo, se più favorevole – in luogo di quella in vigore quando l'evento si è realizzato. Le Sezioni unite, come più volte anticipato, adottano questa seconda impostazione – il c.d. criterio della condotta – supportandola tuttavia con una motivazione che fa leva su punti almeno in parte diversi. La Corte infatti sostiene che, per quanto il dato letterale della norma permetta di far rientrare nella nozione di commissione del reato di cui all'art. 2, comma 4, c.p. la sola azione od omissione del soggetto agente, l'adesione al criterio della condotta non può farsi discendere esclusivamente dal riferimento al dato letterale, in quanto la locuzione reato commesso è riportata in plurimi istituti del codice penale, ognuno caratterizzato da una ratio ed un contesto normativo proprio: si pensi, a titolo d'esempio, alla recidiva (art. 99 c.p.) o alla sospensione condizionale della pena (art. 163, commi 2 e 3, c.p.) ove, in entrambi i casi, può pacificamente escludersi che il legislatore abbia voluto riferirsi al momento della realizzazione della condotta, ma piuttosto al momento consumativo della fattispecie. La Suprema Corte sposta il focus sul piano dell'interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, sottolineando come l'applicazione della norma più sfavorevole intervenuta dopo la realizzazione della condotta vìoli non solo – e anzitutto – il principio di irretroattività della legge penale nel tempo di cui all'art. 25, comma 2, Cost., ma anche il principio di colpevolezza sancito e garantito all'art. 27, commi 1 e 3, Cost. Quanto al primo dei due principi menzionati, lo stesso, come noto, è volto a garantire la possibilità per il soggetto di prevedere, al momento in cui decide di agire, le conseguenze penalmente rilevanti della sua azione od omissione, comprensive del trattamento sanzionatorio legislativamente delineato. Ciò posto, osserva la Corte, «è dunque la condotta il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la calcolabilità delle conseguenze penali e, con essa, l'autodeterminazione della persona»; è questo il momento in cui l'agente effettua il c.d. calcolo costi-benefici sulla base di quanto normativamente previsto e adegua il proprio comportamento: quel che accade successivamente non è più da lui controllabile né modificabile. Ai fini dell'individuazione della disciplina da applicare è, dunque, il tempo della condotta quello a cui è necessario riferirsi, pena una sostanziale e inaccettabile applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole, individuata in relazione ad un momento nel quale non v'è stato alcun processo decisionale ma piuttosto il mero decorso causale di una scelta effettuata in precedenza. A riprova di quanto affermato, la Suprema Corte riporta le indicazioni offerte dai lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, ove si chiarì il significato del principio di irretroattività, statuendo che «la norma di legge penale deve preesistere non solo all'evento, ma anche all'azione, poiché è in quest'ultima che si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge». Come accennato, le Sezioni unite rilevano, ancora, un manifesto contrasto tra il c.d. criterio dell'evento e l'art. 27 Cost., il cui primo e terzo comma elevano a rango costituzionale il principio di colpevolezza. Come insegna la sempreverde sent. Corte cost. n. 364/1988, perché la pena inflitta possa considerarsi costituzionalmente legittima è necessario – oltre alla riferibilità del reato al soggetto agente, in ossequio al principio personalistico della responsabilità penale – che la stessa possa tendere alla rieducazione del condannato; presupposto indefettibile è dunque la rimproverabilità del soggetto, direttamente connessa alla possibilità di conoscere la norma penale, che necessariamente deve preesistere al momento decisionale coincidente con la realizzazione della condotta. In conclusione la Corte, considerato il dato letterale dell'art. 2, comma 4, c.p. e, in particolare, il necessario ossequio ai principi costituzionali di cui ai summenzionati artt. 25 e 27 Cost., avalla la soluzione già indicata dalla Sezione quarta rimettente e aderisce al c.d. criterio della condotta per determinare il tempus commissi delicti ai fini dell'applicazione della disciplina della successione di leggi penali nel tempo. |