Il computo della pena ai fini della concessione della sospensione del procedimento con messa alla prova

Letizia Galati
23 Settembre 2016

Ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile l'istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti ...
1.

La questione oggetto del contrasto giurisprudenziale in atto attiene alle modalità del calcolo della pena ai fini della concessione della sospensione del procedimento con messa alla prova, segnatamente alla interpretazione delle norme contenute negli articoli 168-bis c.p. e art. 550 comma 2 c.p.p., in merito al calcolo delle circostanze aggravanti.

L'art. 168-bis c.p., introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, stabilisce che nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale definitiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati nel comma 2 dell'art. 550 del codice di procedura penale, l'imputato può chiedere la sospensione del procedimento penale con messa alla prova.

La norma indica i c.d. requisiti oggettivi (sostanziali) richiesti dal legislatore per poter accedere al nuovo rito alternativo della sospensione del procedimento con messa alla prova. Il giudice, infatti, deve operare innanzitutto una valutazione preliminare sull'ammissibilità della richiesta formulata dall'indagato/imputato o dal suo difensore e verificare se il reato (o uno dei reati per cui si procede) è punito con una pena edittale superiore ai limiti massimi indicati nell'art. 168-bis c.p.

Il superamento dei limiti massimi comporterà, irrimediabilmente l'emissione, da parte del giudicante, di una ordinanza di inammissibilità (assoluta) dell'istanza, che non potrà più essere riproposta.

I limiti forniti dal legislatore per accedere all'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova sono, dunque, due:

a) il primo è un criterio quantitativo, che consente di beneficiare del rito per tutti i reati puniti con sola pena pecuniaria o con pena edittale massima di quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria;

b) il secondo è un criterio qualitativo ratione materia, che estende la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento ex art. 168-bis c.p., anche a reati puniti con pena superiore a quattro anni, purché indicati nell'elenco dell'art. 550, comma 2, c.p.p. (violenza/minaccia ad un pubblico ufficiale, art. 336 c.p.; resistenza ad un pubblico ufficiale, art. 337 c.p.; oltraggio a magistrato in udienza aggravato ex art. 343, comma 3, c.p.; violazione di sigilli aggravata ex art. 349 comma 2 c.p.; rissa aggravata ex art. 588, comma 2, c.p.; furto aggravato ex art. 625 c.p.; ricettazione ex art. 648 c.p.).

Nel quadro così delineato però è sorto un contrasto in giurisprudenza in merito alle modalità del calcolo della pena ai fini della concessione della sospensione del procedimento con messa alla prova, con riferimento alle circostanze aggravanti. La questione, in particolare, attiene alle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una specie di pena diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale.

Tra i primi orientamenti della giurisprudenza si segnala Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2014 (dep.1 febbraio 2015), n. 6453, secondo cui ai fini della individuazione dei reati attratti dalla disciplina della probation di cui all'art. 168-bis c.p., in ragione del mero riferimento alla pena edittale, deve guardarsi unicamente alla pena “edittale massima” prevista per la fattispecie base, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale.

Altro Collegio della medesima Sezione, invece, ha ritenuto di non condividere l'orientamento sopra riportato, in quanto asistematico rispetto agli altri istituti che, pur esprimendosi nel senso di tener conto della pena stabilita dalla legge per il reato per il quale si procede, riconducono ad unità il sistema con norme volte a stabilire i criteri di determinazione della pena, quali quelle previste dagli artt. 4, 278, 379 e 550 c.p.p. Si tratta della sentenza n. 36687 emessa dalla VI Sez. penale della Corte di cassazione, in data 30 giugno 2015 (depositata in data 30.9.2015).

La sentenza 36687/2015. La Corte di cassazione è stata chiamata a decidere in merito al ricorso proposto dal difensore di un soggetto imputato del delitto di lesioni aggravate commesse al fine di eseguire il delitto di resistenza aggravata, avverso l'ordinanza con la quale il tribunale di Rimini ha rigettato la richiesta di messa alla prova poiché i reati contestati all'imputato sono esclusi quoad poenam da quelli per i quali ilsuddetto beneficio è ammesso, ai sensi dell'art. 168-bis c.p.In altri termini, il tribunale ha rigettato l'istanza di probation in quanto il reato di lesioni commesse al fine di eseguire l'altro reato di resistenza configura l'aggravante “ad effetto speciale” di cui all'art. 585, comma 1,c.p. e art. 576, comma 1, n. 1. c.p.

Ne deriva che la pena base per il delitto di lesioni (reclusione da tre mesi a tre anni) per la sussistenza della suddetta aggravante ad effetto speciale è aumentata da un terzo alla metà (quattro anni e sei mesi di reclusione), superando il limite sanzionatorio indicato dall'art. 168-bis c.p.

In contrasto con l'orientamento già espresso da altro Collegio della medesima Sezione (v. supra) nella decisione in commento la Corte rigetta il ricorso del difensore, condividendo l'ordinanza resa dal giudice di primo grado, con una motivazione che tuttavia, per taluni aspetti, appare travalicare il dato normativo.

Il mero riferimento alla pena edittale di cui all'art. 168-bis – ad avviso della Corte – appare sistematico rispetto ad altri istituti che pur esprimendosi nel senso di tenere conto ”della pena stabilita dalla legge per il reato per il quale si procede”, ricondurrebbero il sistema ad unità attraverso il ricorso al criterio generale dettato dagli artt. 4, 278, 379 e 550 c.p.p., secondo il quale non si tiene conto delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

A sostegno della propria decisione la Corte richiama anche il cd. criterio qualitativo attuato con l'espresso richiamo all'art. 550, comma 2, c.p.p.

Il richiamo alla suddetta norma, sostiene il decidente – rappresenta una precisa scelta del legislatore di indicare nominativamente tutti quei reati che, pur superando, a causa delle aggravanti speciali o ad effetto speciale, il limite edittale di pena previsto dall'art. 168 bis c.p., sono comunque ammessi ad accedere al nuovo istituto. Per tutti gli altri casi, in altri termini, opererebbe il meccanismo previsto dall'art. 550, comma 1, c.p.p., che richiama espressamente l'art. 4 c.p.p.

Anzi – sostiene la Corte – tali criteri non possono che trovare applicazione anche nell'ipotesi prevista dall'art. 168-bis c.p., altrimenti il criterio quantitativo, oltre ad essere asistematico rispetto alle ipotesi dianzi indicate, si porrebbe in palese contrasto con il criterio qualitativo attuato con l'espresso richiamo all'art. 550, comma 2, c.p.p.

Il sistema, in tal modo, avrebbe una sua completezza e coerenza, rispettando la logica complessiva della legge di rendere applicabile la messa alla prova per tutti quei delitti per i quali si procede a citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica.

Lo stato dell'arte della giurisprudenza della Corte di Cassazione. Diverso collegio della medesima sezione della Corte – come premesso – è tuttavia giunto a conclusioni del tutto opposte ed ha stabilito che ai fini dell'individuazione dei reati attratti dalla disciplina della probation, in ragione del mero riferimento edittale, deve guardarsi unicamente alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2014-dep. 13 febbraio 2015 n. 6483,). Muovendo dalla imprescindibile considerazione della necessità di ancorare il limite oggettivo di applicazione dell'istituto della probation alla sua finalità deflattiva, la sentenza individua gli elementi ritenuti decisivi:

a) il tenore letterale della norma, che si riferisce esclusivamente alla pena edittale e non fa alcun riferimento alla possibile incidenza delle circostanze aggravanti;

b) laddove il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti lo ha espressamente previsto (artt. 4 c.p.p. e art. 157 c.p. e art. 278 c.p.p.);

c) i lavori preparatori afferenti la l. 67/2014. Sotto questo specifico aspetto, sia nel dossier che ebbe ad accompagnare l'approvazione del testo al Senato, sia in quello che precedette l'approvazione definitiva alla Camera viene data spiegazione comune al silenzio del dato normativo sul punto, distinguendo la soluzione normativa in disamina da quelle già presenti nell'ordinamento sopra indicate. In particolare, il testo definitivo (attuale) dell'art. 168-bis c.p. era stato approvato dalla Camera ed inviato al Senato. In Commissione, al Senato, venne trattato il disegno di legge n. 111 A.S. che recava un esplicito riferimento, quale limite edittale massimo per accedere alla probation, alle aggravanti ad affetto speciale ed a quelle che portano ad una pena di specie diversa. Tale riferimento, però, non è stato riportato nel testo finale approvato dal Senato, tanto è vero che il testo definitivo della norma è privo di tale esplicita indicazione. Si è trattato, dunque, di una scelta deliberata con un preciso ed in equivoco significato. Ultimo argomento evidenziato dalla Corte è il raffronto comparativo con l'art. 550, comma 2, c.p.p., norma, quest'ultima, che, a differenza del primo comma, non contiene alcun richiamo all'art. 4 c.p.p. per determinare la pena.

È molto interessante, sul punto, anche il passaggio nel quale la Corte ritiene che il riferimento nominativo ai reati indicati nell'art. 550 comma 2 c.p.p. sia frutto di una precisa scelta del legislatore di non limitare i reati ammessi alla messa alla prova ai soli di competenza del giudice monocratico, ma anche a quelli di competenza collegiale puniti con pena edittale inferiore nel massimo a quattro anni.

Analoghe le conclusioni alle quali è giunta la Sez. IV Penale della Corte di cassazione, con sentenza del 10 luglio 2015, n. 32787 (depositata il 27 luglio 2015), chiamata a giudicare in merito al rigetto da parte del GUP di una istanza di ammissione di un soggetto alla messa alla prova a causa della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 80, lett. a) d.P.R. n. 309/1990, ha statuito che la contestazione di una circostanza aggravante ad effetto speciale non preclude l'applicabilità dell'istituto della messa alla prova qualora il reato contestato sia punito con sanzione edittale non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione.

Anche il questo caso dunque – ad avviso dei magistrati giudicanti – la ratio deflattiva del nuovo rito costituisce la conferma che il dato normativo debba essere interpretato secondo il suo tenore letterale. Tale conclusione – si legge in motivazione – è confermata anche dalla possibilità di richiedere la probation nella fase delle indagini preliminari, così evidenziandosi la struttura dialettica del procedimento in merito alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell'istituto anche rispetto all'ipotesi accusatoria formulata dall'organo inquirente. D'altronde – sostengono ancora una volta gli Ermellini - laddove il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti lo ha espressamente previsto (artt. 4 c.p.p., art. 157 c.p.; art. 278 c.p.p.).

Le conclusioni alle quali sono pervenute le due sentenze appena citate appaiono certamente le più aderenti sia al dato normativo sia alle intenzioni del legislatore, nell'ottica deflattiva e competitiva che caratterizza il nuovo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Resta, d'altronde, forte il dubbio che una diversa lettura dell'art. 168-bis c.p. costituisca una forma di interpretazione in malam partem della norma penale, non consentita dalla legge.

Il permanere del contrasto condurrà senza alcun dubbio al vaglio delle Sezioni unite.

2.

Con ordinanza del 26 febbraio, n. 8014 è stato rimesso al Primo Presidente della Corte suprema di cassazione un ricorso avente ad oggetto la seguente questione ritenuta oggetto di contrasto giurisprudenziale:

Se, nella determinazione del limite edittale fissato dall'art. 168-bis, comma 1, cod. pen., ai fini dell'applicabilità della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, deve tenersi conto delle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

3.

Il Primo Presidente della Corte suprema di cassazione ha assegnato alle Sezioni unite, fissando per la trattazione l'udienza del 28 aprile 2016, un ricorso avente ad oggetto la seguente questione, ritenuta dalla IV Sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale:

Se, nella determinazione del limite edittale fissato dall'art. 168-bis, comma 1, cod. pen., ai fini dell'applicabilità della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, deve tenersi conto delle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

4.

All'udienza del 31 marzo 2016 le Sezioni unite penali hannodeciso che:

L'ordinanza con cui il giudice dell'udienza preliminare rigetta la richiesta dell'imputato di ammissione al procedimento con messa alla prova non è immediatamente impugnabile, in quanto la richiesta può essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, sicché il ricorso immediato e autonomo per cassazione avverso l'ordinanza è inammissibile; nel caso in cui anche la richiesta riproposta sia rigettata, la relativa ordinanza è impugnabile solo congiuntamente alla sentenza.

Ai fini della individuazione dei reati – non ricompresi nel comma 2 dell'art. 550 c.p.p. – per i quali è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova, occorre avere riguardo esclusivamente alla pena edittale massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione delle circostanze aggravanti, ivi comprese quelle per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

5.

Questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite penali nella sentenza 31 marzo - 1 settembre 2016 n. 36272: Ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile l'istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni unite penali concerneva il rilievo delle circostanze aggravanti nei criteri di determinazione della pena per l'applicazione dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, segnatamente l'interpretazione dell'art. 168-bis c.p., introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n. 67, che stabilisce che nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale definitiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati nel comma 2 dell'art. 550 del codice di procedura penale, l'imputato può chiedere la sospensione del procedimento penale con messa alla prova.

Sul punto era sorto un contrasto in giurisprudenza (già pubblicato in questa rivista) in merito alle modalità del calcolo della pena, con particolare riferimento alle “circostanze aggravanti per le quali la legge prevede “una pena di specie diversa da quella ordinaria” e quelle “ad effetto speciale”. Secondo un orientamento, deve guardarsi unicamente alla pena “edittale massima” prevista per la fattispecie base, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale. Altre sentenze, invece, hanno statuito che anche le aggravanti ad effetto speciale e quelle per le quali è prevista una pena di specie diversa da quella ordinaria devono essere computate per verificare la possibilità di concedere il suddetto beneficio.

Con sentenza n. 36272 del 2016 le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno risolto il contrasto ed hanno statuito che il richiamo contenuto nel'art. 168-bis c.p. va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Al di là delle motivazioni indicate in sentenza, che saranno qui di seguito illustrate, la decisione del Supremo consesso della Corte di cassazione appare di particolare interesse in quanto affronta la questione oggetto del contrasto giurisprudenziale pur in presenza di una causa di inammissibilità del ricorso. Nella specie, la questione sottoposta al vaglio delle Sezioni unite concerneva un ricorso per cassazione proposto dall'imputata avverso (la sola) ordinanza di rigetto dell'istanza di messa alla prova. Nel corso della medesima udienza ma per un diverso procedimento, le Sezioni unite (medesimo relatore) decidevano per l'inammissibilità dell'impugnazione per cassazione delle sole ordinanze di rigetto dell'istanza di messa alla prova, in quanto le stesse devono essere impugnate congiuntamente alla sentenza di primo grado, sicché il citato ricorso, alla luce del principio contestualmente affermato dalle Sezioni unite è stato dichiarato inammissibile. Ciononostante, pur in presenza di un ricorso da dichiarare inammissibile, i giudici hanno ritenuto la necessità di affrontare comunque la questione relativa al computo delle circostanze e risolvere il contrasto giurisprudenziale e le relative gravi ricadute pratiche, per assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge.

Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni unite in base alla interpretazione della legge, che appare anche quella più coerente con il sistema, oltre che in base alla voluntas legis e, dunque, alla ratio dell'istituto. La Corte non ritiene che in materia esista un vuoto normativo e che, pertanto, l'interpretazione letterale delle norme già esistenti consente di fornire un criterio univoco.

Chiariscono, innanzitutto, i giudici del Supremo consesso che non può essere trascurato il dato fornito dall'art. 168-bis c.p., che seleziona i reati per i quali può essere concessa la messa alla prova in base ad un criterio quantitativo e qualitativo ma non contiene alcun riferimento alla possibile incidenza di eventuali circostanze aggravanti. Né – si legge in sentenza – può assumere alcun rilievo il rinvio operato dall'art. 168-bis c.p. all'art. 550 c.p.p. (il cui comma 1 rinvia all'art. 4 c.p.p.) o la regola dettata dall'art. 278 c.p.p. per la determinazione della pena in materia di misure cautelari, non esistendo, nel nostro sistema, un criterio normativo unitario generale in base al quale va calcolata la pena per l'applicazione di qualunque istituto processuale. Del resto, la stessa l. 67/2014 in alcuni casi ha richiamato esplicitamente l'art. 278 c.p.p. (art. 1, comma 1, lett. c) e g), in materia di pene detentive non carcerarie) e ciò significa che quando il Legislatore ha voluto dare rilevanza alle circostanze aggravanti lo ha fatto in modo esplicito.

Il criterio di selezione dei reati per i quali è ammessa la messa alla prova è semplicemente quello indicato nell'art. 168-bis c.p., quantitativo (pena edittale sino a 4 anni) e qualitativo (elenco nominativo indicato nell'art. 550, comma 2, c.p.p.); criterio che estende l'istituto anche a reati puniti con pene superiori a 4 anni, quindi con maggiore disvalore sociale, in base ad una scelta legislativa fortemente legata alla natura specialpreventiva del nuovo istituto.

In merito al paventato richiamo operato dall'art. 168-bis c.p. all'art. 550 c.p.p., le Sezioni unite hanno rigettato qualunque interpretazione “correttiva”, precisando che lo stesso va inteso solo ed esclusivamente quale richiamo al comma 2, ossia all'elenco nominativo dei reati per i quali la messa alla prova è ammessa, così come testualmente recita la norma, che non contiene, invece, alcun riferimento al comma 1 e, di conseguenza, all'art. 4 c.p.p. Non è neanche corretto – spiegano i supremi magistrati – fondare il richiamo all'intero art. 550 c.p.p. in base al rilievo che dovrebbe esservi una perfetta coincidenza tra i reati per i quali l'imputato può richiedere la messa alla prova e quelli a citazione diretta. Innanzitutto, se il Legislatore avesse voluto tale equiparazione, lo avrebbe senza dubbio scritto. A ciò si aggiunga che il meccanismo di calcolo della pena previsto nel comma 1 dell'art. 550 c.p.p., condizionato dall'aumento per le aggravanti ex art. 4 c.p.p., creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento per i reati che, ancorché puniti con pena inferiore ai 4 anni, diventerebbero di competenza collegiale ex art. 33-bis c.p.p., quindi non ricompresi nel giudizio a citazione diretta. Del resto, l'art. 464-bis c.p.p., al comma 2, fissa anche il termine dell'udienza preliminare per la formulazione dell'istanza di messa alla prova, confermando che l'ambito dei reati prescelti dal legislatore è più esteso di quello indicato nell'art. 550 c.p.p.

La soluzione fornita dalle Sezioni unite, oltre ad avere scongiurato una volta per tutte qualsiasi forma di interpretazione in malam partem dell'art. 168-bis c.p., non consentita dalla legge, è coerente anche con i lavori parlamentari che hanno condotto all'approvazione definitiva della legge 67/2014. Infatti, il testo originario dell'art. 168-bis, (disegno di legge n. 111 del Sen. Palma) conteneva un esplicito riferimento alle circostanze speciali e ad effetto speciale; riferimento che nella versione definitiva della norma è svanito, svelando una precisa scelta del Legislatore, che ha certamente privilegiato la natura deflattiva e competitiva che caratterizza l'istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova.