Quali prove sono ammissibili in appello perché indispensabili?

Mauro Di Marzio
01 Dicembre 2016

Quando una prova, ed in particolare un documento è indispensabile? La nozione di indispensabilità è rilevante nell'appello disciplinato dall'art. 702 quater c.p.c., concernente il cosiddetto rito sommario di cognizione, nonché nell'appello secondo il rito del lavoro, ai sensi dell'art. 437 c.p.c.. Ebbene, nozione di indispensabilità è stata oggetto di ampio dibattito dottrinale e di divaricate interpretazioni giurisprudenziali, collocate secondo due principali e contrapposte direttrici.
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Un magistrato agisce per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della diffamazione prodottasi, secondo la sua prospettazione, per effetto della pubblicazione di un libro in cui sarebbe stata trascritta una versione manipolata di un'ordinanza di un giudice per le indagini preliminari, ordinanza che, tra altri indagati, riguardava anche lui.

L'attore mantiene una condotta processuale, diciamo così, originale: e, cioè, omette — a quanto pare deliberatamente — in primo grado, nei termini dell'art. 183 c.p.c., di produrre l'ordinanza del Gip, sicché la sua domanda viene respinta. Lo stesso documento è quindi prodotto dinanzi al giudice d'appello, ma la sentenza di primo grado viene confermata: per un verso il giudice dell'impugnazione osserva che l'indispensabilità di cui si riferisce l'art. 345 c.p.c. non consente di superare le preclusioni istruttorie maturate in primo grado; per altro verso ritiene che, in mancanza dell'ordinanza del Gip, e dunque nell'impossibilità di scrutinare l'effettiva sussistenza della manipolazione del provvedimento del giudice penale, la domanda attrice sia carente di prova.

Proposto ricorso per cassazione, sorge il problema del significato di «indispensabilità», giacché, a seconda della latitudine di tale nozione, la decisione del giudice d'appello merita o non merita di rimanere in piedi.

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Viene in questione il testo previgente dell'art. 345 c.p.c., che disciplina il regime dei nova in appello, laddove esso stabiliva (prima delle modifiche introdotte dall'articolo 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito con modificazioni in legge 7 agosto 2012, n. 134) l'inammissibilità di nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenesse «indispensabili ai fini della decisione della causa». L'indispensabilità, quale presupposto dell'ammissione di nuove prove in appello, è stata poi eliminata. Tale formulazione è rimasta in vigore per circa un ventennio senza che la dottrina e la giurisprudenza siano riusciti univocamente a chiarirne il significato. Quando, cioè, una prova, ed in particolare un documento era indispensabile? Ma — occorre dire, ed il punto è evidenziato anche dall'ordinanza in commento — la questione non ha un interesse soltanto retrospettivo, limitato alle controversie regolate ratione temporis dalla vecchia norma: ed infatti la nozione di indispensabilità è tuttora rilevante nell'appello disciplinato dall'art. 702 quaterc.p.c., concernente il cosiddetto rito sommario di cognizione, nonché nell'appello secondo il rito del lavoro, ai sensi dell'art. 437 c.p.c..

Ebbene, nozione di indispensabilità è stata oggetto di ampio dibattito dottrinale e di divaricate interpretazioni giurisprudenziali, collocate secondo due principali e contrapposte direttrici.

È indispensabile il documento dotato di un'influenza causale più incisivo rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia.

Secondo numerose decisioni della Suprema Corte, è indispensabile la prova, in particolare documentale, dotata di una attitudine probatoria particolarmente pregnante. Si tratterebbe, cioè, di prove che, secondo una valutazione ex ante, una volta espletate, non costituirebbero un semplice tassello da considerare ai fini della decisione, ma condurrebbero ineluttabilmente, recta via, ad accogliere le conclusioni della parte che le abbia dedotte.

Insomma, volendo impiegare un linguaggio giornalistico, potremmo dire che prova indispensabile, secondo la prospettata ricostruzione, è la «pistola fumante».

È ricorrente, in tale prospettiva, la massima secondo cui, in tema di giudizio di appello, l'art. 345, comma 3, c.p.c., come modificato dalla l.n. 353/1990 (nel testo applicabile ratione temporis), nell'escludere l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia, impone al giudice del gravame - tenuto conto delle allegazioni delle parti sulle ragioni che le rendano indispensabili e verificatene la fondatezza - di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi (di recente Cass. 31 agosto 2015, n. 17341; Cass. 23 luglio 2014, n. 16745; Cass. 23 agosto 2013, n. 19608).

Ben si comprende che, se questo è il criterio di giudizio, la nozione di indispensabilità rischia di entrare in conflitto con il sistema delle preclusioni che governa il primo grado del giudizio e che impone di effettuare le produzioni documentali entro lo sbarramento previsto dall'art. 183 c.p.c.: in buona sostanza il senso dell'ammissibilità delle prove documentali indispensabili, nella indicata prospettiva, si riassume in ciò, che è meglio avere una decisione sostanzialmente giusta, adottata per così dire causa cognita, a prezzo di sacrificare ove necessario il regime delle preclusioni, che mantenere fermo tale regime anche quando la prova è lampante.

Ed infatti molte decisioni hanno ritenuto ammissibile l'ingresso in secondo grado anche di una prova dalla quale la parte fosse decaduta in prime cure, purchè indispensabile per la decisione della controversia (cfr., in tal senso, Cass. n. 8877/2012; Cass. n. 19608/2013; Cass. n. 3709/2014; Cass. n. 16745/2014; Cass. n. 4376/2015; Cass. n. 11444/2015; Cass. n. 25927/2015).

È indispensabile la nuova prova divenuta utile e necessaria in dipendenza delle valutazioni della decisione appellata a commento delle risultanze istruttorie di primo grado

Detta nozione è stata tuttavia anche posta in relazione all'atteggiarsi della sentenza di primo grado: sarebbe cioè da reputare indispensabile la prova che, avuto riguardo all'esito del giudizio, la parte non aveva modo di rappresentarsi come utile e necessaria. La soluzione, possiamo dire, è scaturita proprio dall'esigenza di realizzare un'accettabile armonizzazione tra la nozione di indispensabilità ed il regime delle preclusioni, in modo da evitare di far rientrare dalla finestra ciò a cui l'ordinamento, attraverso il regime delle preclusioni istruttorie, chiude la porta. È ovvio, infatti, che tanto vale ammettere già in primo grado, anche dopo lo spirare dei termini dell'art. 183 c.p.c., una certa prova documentale, se quella prova dovrà essere ammessa in appello: altrimenti si costringerebbe il giudice di primo grado a fare una sentenza che sa essere destinata ad essere ribaltata in appello.

È stato detto allora, che nel giudizio di appello l'indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario. Ne consegue che, se la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni istruttorie avrebbero consentito alla parte di valersi del mezzo di prova perché funzionale alle sue ragioni, deve escludersi che la prova sia indispensabile, se la decisione si è formata prescindendone, essendo imputabile alla negligenza della parte il non aver introdotto tale prova (Cass. 15 marzo 2016, n. 5013; Cass. 31 marzo 2011, n. 7441; Cass. 17 febbraio 2014, n. 3709; Cass., ord. 12 febbraio 2013, n. 3493).

Insomma, la prova documentale diviene ammissibile in appello perché indispensabile quando il rilievo, nella sentenza di primo grado, della sua mancata deduzione-produzione ha costituito, diciamo così, una sorpresa fatta dal giudice di primo grado alle parti.

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In tale situazione di ritenuto contrasto la terza sezione della Corte di cassazione (Cass. civ., sez. III, ord. 7 novembre 2016, n. 22602), escludendo evidentemente di poter valorizzare elementi tali da rendere preferibile uno dei due orientamenti ed ormai superato l'altro, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, peraltro manifestando espressamente la propria condivisione della seconda delle due soluzioni riassunte (v. § 12).

Vanno in definitive rimessi gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione - su cui sussiste contrasto - relativa alle condizioni di applicazione, rispetto alle prove documentali, del divieto di nuove prove in appello sancito dall'art. 345 c.p.c..

Cosa decideranno le Sezioni Unite?

Per stabilire quale sarà l'esito del giudizio delle Sezioni Unite occorrerebbe la palla di vetro. E, tuttavia, la correttezza dell'opzione interpretativa riassunta per seconda, e che anche l'ordinanza di remissione mostra di condividere, sembra avere più di una freccia al suo arco.

Essa ha difatti ricevuto una evidente conferma, sul piano normativo, anche dai successivi interventi legislativi che hanno ristretto ulteriormente il divieto dei nova in appello, dapprima assoggettando espressamente le prove documentali al divieto generale - già sancito in via interpretativa dalle Sezioni Unite - di deduzione di nuovi mezzi di prova in appello (art. 46, comma 18, della legge 18 giugno 2009, n. 69), dipoi eliminando del tutto la possibilità di ammissione di nuove prove ritenute indispensabili per la decisione. La scelta legislativa da ultimo adottata, a parere della dottrina prevalente, è finalizzata proprio a sottolineare una volta per tutte, attese le menzionate incertezze interpretative cui aveva dato luogo il requisito della indispensabilità, che la struttura dei giudizio di appello, così come conformata dal novellato art. 345 c.p.c. in conformità al regime delle preclusioni introdotto in primo grado con la legge n. 353 del 1990, non può essere in alcun modo intesa come un novum iudicium, bensì esclusivamente come una revisio prioris instantiae, ossia come uno strumento di controllo dell'operato del giudice di prime cure, al fine di rimediare ad eventuali errores in iudicando o in procedendo dal medesimo posti in essere (si veda per queste considerazioni Cass. 24 marzo 2016 n. 5921).

Il senso di questa ricostruzione è chiaro, ed il complessivo dato sistematico è ormai incontrovertibile. Il giudizio civile si svolge a tutto campo solo in primo grado, ove le parti, peraltro, devono rispettare determinate regole — il sistema delle preclusioni — funzionali ad un ordinato svolgimento del processo: in appello non si può rifare il processo daccapo, ma bisogna soltanto affinare, se necessario e nei limiti in cui è necessario, la prima decisione. Peggio per chi non ha prodotto un documento che ben poteva produrre, e che gli avrebbe fatto vincere la causa.

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Si rimanda al commento del Consigliere M. Di Marzio Le Sezioni Unite si pronunciano sulle prove indispensabili in appello.

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