Specificità dei motivi d'appello: la terza sezione passa la palla alle Sezioni Unite

Mauro Di Marzio
17 Maggio 2017

L'ordinanza di rimessione della Sezione Terza pone l'accento sull'importanza della questione relativa alla specificità dei motivi in appello, considerato il ruolo cruciale di tale giudizio per l'effettività della tutela dei diritti soprattutto quanto al giudizio di fatto, vista la limitazione del controllo sulla motivazione introdotta dalla novella del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. e la configurazione del riparto degli oneri probatori in appello.
a

Un tale desidera dotarsi di una barca da diporto del costo di circa € 600.000. Lo strumento giuridico prescelto è il leasing. La banca finanziatrice affida la costruzione del natante ad una società e stipula con il futuro utilizzatore il contratto di locazione finanziaria, in forza del quale egli è tenuto al pagamento dei canoni pattuiti. Realizzata l'imbarcazione, il tale non è contento: lamenta che la barca sia stata consegnata in ritardo e che presenti vizi e difformità particolarmente gravi. Dopo che la società costruttrice ha con successo agito in giudizio per il pagamento del prezzo pattuito nei confronti della banca, quest'ultima chiede ed ottiene un decreto ingiuntivo nei confronti del tale, che fa opposizione e, a quanto par di capire, vince in toto.

La banca allora fa appello, ma l'impugnazione è dichiarata inammissibile perché i motivi di impugnazione non sono specifici e, cioè, non posseggono i requisiti richiesti dall'art. 342 c.p.c. nel testo vigente. La Corte d'appello elenca una corposa serie di questioni che i motivi di impugnazione non hanno toccato: e tuttavia non è agevole formarsi un'opinione sul quesito se tali motivi fossero effettivamente generici oppure no, dal momento che l'ordinanza della Corte di cassazione omette di indicare quali ragioni fossero state addotte dal Tribunale a sostegno della decisione di accoglimento dell'opposizione a decreto ingiuntivo, sicché non v'è modo di rapportare le carenze riscontrate dalla Corte d'appello alla motivazione svolta dal Tribunale.

Questo il contesto in cui si inserisce la questione controversa individuata dalla Corte di cassazione, che ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite: quali siano cioè gli esatti contorni della nozione di specificità dei motivi risultante dal nuovo testo dell'art. 342 c.p.c., il quale, vale rammentare, richiede dalla riforma del 2012 che l'atto d'appello debba «essere motivato» e che «la motivazione» debba contenere:

  1. l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
  2. l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
b

Degli orientamenti contrapposti che si sono formati con riguardo all'interpretazione del nuovo art. 342 c.p.c. si è di recente dato conto su ilProcessoCivile.it nell'articolo dello scorso 17 gennaio Atto d'appello come «progetto alternativo di sentenza»? La Cassazione dice “no”. A dire il vero, era sembrato nell'occasione che la tesi del «progetto alternativo di sentenza» non fosse neppure da prendere troppo sul serio e che, in ogni caso, di essa la SC avesse già ormai fatto convenientemente giustizia. E si era evidenziato che, ciò nondimeno, il problema posto dall'art. 342 (e 434) c.p.c. rimane: sicché occorre effettivamente chiarire con la necessaria precisione che cosa abbia inteso dire il legislatore con la formulazione poc'anzi rammentata.

Secondo l'ordinanza in esame la giurisprudenza della Suprema Corte sugli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo vigente, non sarebbe costante:

  • si è difatti talora escluso che il nuovo testo normativo prescriva l'adozione di una determinata forma o richieda di ricalcare la decisione appellata con diverso contenuto, imponendo viceversa all'appellante soltanto di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, mediante l'indicazione degli specifici capi della sentenza impugnata nonché dei passaggi argomentativi che la sorreggono, nonché di esplicitare le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, così da evidenziare l'idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata (Cass. 5 febbraio 2015, n. 2143);
  • in altre occasioni si è però richiesto all'appellante un grado di specificità ben più accentuato rispetto al passato, imponendo la norma novellata un ben preciso ed articolato onere processuale, compendiabile nella necessità che l'atto di gravame, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, offra una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice (Cass. 7 settembre 2016, n. 17712);
  • si è ancora ritenuto che la specificità disegnata dal nuovo art. 342 c.p.c. esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono: sicché, nell'atto di appello, ossia nell'atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d'ufficio e non sanabile per effetto dell'attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l'atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. 27 settembre 2016, n. 18392).
c

L'ordinanza di rimessione, Cass. n. 6043/2017, pone l'accento sull'importanza della questione, considerato il ruolo cruciale del giudizio di appello per l'effettività della tutela dei diritti soprattutto quanto al giudizio di fatto, vista la limitazione del controllo sulla motivazione introdotta dalla novella del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. e la configurazione del riparto degli oneri probatori in appello (Cass. Sez. U. 23 dicembre 2005, n. 28498; Cass. Sez. U. 8 febbraio 2013, n. 3033), la quale ha offerto il destro per un'interpretazione non infrequente, da parte della giurisprudenza di merito, che ha finito con qualificare quel mezzo di gravame come avente ad oggetto la sentenza di primo grado sic et simpliciter.

Poiché però i requisiti di forma, ivi compresi quelli previsti a pena di inammissibilità dal novellato art. 342 (e 434) c.p.c., devono rispondere, per superare il vaglio di costituzionalità e di proporzionalità convenzionale fissati dalla giurisprudenza della Cedu, la Corte ha infine giudicato opportuno investire di quella le Sezioni Unite, affinché definiscano con chiarezza i contorni dei due requisiti di specificità ora analiticamente descritti dagli artt. 342 e 434 c.p.c., ovvero anche solo, in particolare, dicano se, a quel fine, sia richiesto all'appellante di formulare l'appello con una determinata forma o di ricalcare la gravata decisione ma con un diverso contenuto, ovvero se sia sufficiente - ma almeno necessaria - un'impostazione dell'atto d'appello, per dirla in breve, articolata non solo in una pars destruens, ma anche in una pars construens.

Come si pronunceranno le Sezioni Unite? Suppongo che non rimarrà insensibile al grido di dolore che dall'ordinanza di rimessione si leva, in ossequio all'effettività della tutela dei diritti ed alla collegata messe dei sacri valori di cui sappiamo.

È difatti agevole dire in che direzione batte il cuore del collegio che ha disposto la rimessione, impiegando per ben 10 volte — senza che la scelta possa essere giudicata casuale, date le qualità del collegio e dell'estensore — l'espressione «gravame», riferito all'appello. Per gravame si intende in verità un particolare tipo di impugnazione, che mira al completo riesame della controversia, e che si contrappone ai mezzi di impugnazione, i quali sono rimedi diretti alla denuncia di specifici vizi della sentenza, ed alla loro eliminazione. Il punto di vista della Corte è reso altresì palese dalla presa di posizione nei confronti di un'opinione, giudicata sicuramente errata, che viene attribuita alla giurisprudenza di merito, la quale guarda all'appello non già come giudizio sul merito della controversia, bensì sulla sentenza impugnata, al pari, in buona sostanza, del giudizio di cassazione: varrà tuttavia in proposito precisare che tale opinione non proviene affatto dalla giurisprudenza di merito, ma è mutuata da una ormai autorevole dottrina specialistica (mi riferisco in particolare, tra altri, a Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, e a numerosi suoi scritti successivi sullo stesso tema, tra cui Poli, L'oggetto del giudizio di appello; in Corr. giur., 2006, 1083; Poli, L'oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2006, 1407).

Ecco come stanno le cose secondo me, sebbene disperi che la mia soluzione possa fare breccia nelle Sezioni Unite.

Il dato letterale che emerge dall'art. 342 c.p.c. evidenzia che l'appellante può alternativamente dolersi:

  1. della ricostruzione del fatto;
  2. di violazioni di legge.

L'espressione «ricostruzione del fatto» non compariva in precedenza nel codice di procedura civile. Di «ricostruzione dei fatti» discorre invece più volte il codice di procedura penale (artt. 332, 347, 348, 349, 472 c.p.p.) ed il codice penale (artt. 474, 517-quinquies e 605 c.p.). Alla luce del senso fatto palese dal significato proprio delle parole, di cui all'art. 12 disp. prel c.c., e tenuto conto che non è ragionevole, in mancanza di una precisa giustificazione, assegnare alla medesima locuzione significati diversi nei diversi ambiti della legge, non pare lecito dubitare che la «ricostruzione del fatto» attenga al fatto nella sua oggettività. La «ricostruzione del fatto», nel contesto della sentenza civile assoggettata ad impugnazione, è allora cosa ben diversa dalla indicazione delle «ragioni di fatto», ossia la motivazione in facto, richiamate dall'art. 132 c.p.c.; la «ricostruzione del fatto» non è che una parte della motivazione in fatto: essa consiste nella esposizione degli «enunciati fattuali» o «enunciati giudiziali non qualificativi», ossia dei «fatti ordinari» o «fatti bruti». Fatti, dunque, accaduti nel mondo fenomenico, ai quali si addice semplicemente il predicato di «vero» o «falso».

Al di là della ricostruzione del fatto sta, invece, la sua valutazione.

Laddove il nuovo art. 342 c.p.c. afferma che i motivi di impugnazione debbono esclusivamente attenere alla ricostruzione del fatto ovvero alla violazione di legge, in fin dei conti, esso non contempla, né dall'uno né dall'altro versante, l'impugnazione della sentenza di primo grado sotto il profilo della generica congruità della motivazione. Né può ipotizzarsi il sindacato di congruità della motivazione per il tramite della denuncia del vizio di violazione di legge. Il fatto è che il vizio di violazione di legge, secondo la Suprema Corte, ricorre in caso di motivazione omessa, non di motivazione incongrua, purché la motivazione superi la soglia del «minimo costituzionale» (Cass., Sez.Un., 7 aprile 2014, n. 8053). L'insufficienza della motivazione rientra altresì nella violazione di legge quando si traduca, oltre che nella radicale carenza di essa, nel suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi, ossia nella motivazione apparente, o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé (si veda l'indirizzo giurisprudenziale in tema di proposizione del ricorso per cassazione ex art. 111, 7 comma, Cost., ovvero di impugnazione del lodo arbitrale; v., p. es., con riguardo all'articolo 111 Cost., tra le molte, Cass. 3 novembre 2008, n. 26426; Cass. 29 gennaio 2010, n. 2043; Cass. 17 maggio 2010, n. 12027; con riguardo all'impugnazione del lodo arbitrale, anche in questo caso tra le molte, v. Cass. 15 maggio 2009, n. 11301; Cass. 11 ottobre 2006, n. 21802).

Non sembra che il dato letterale lasci spazio ad interpretazioni tali da sorvolare sulla contrazione dell'ambito dei motivi spendibili con l'appello. A tenore della lettera della norma, in definitiva, sembra doversi escludere che possa essere censurata, indipendentemente dalla prospettazione di una diversa ricostruzione del fatto, la motivazione in fatto plausibile, non irragionevole, ma pur sempre opinabile: motivazione che, come si diceva, non costituisce fattispecie di violazione di legge, bensì per l'appunto — volendo ricorrere alla locuzione impiegata dal vecchio n. 5 dell'art. 360, 1° comma, c.p.c. — di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

Sotto tale aspetto, pare ormai da ritenere che l'appello abbia perso il suo carattere di mezzo di impugnazione a critica libera e si sia trasformato in un rimedio di tipo cassatorio, giacché esso non consente più di dolersi della generica ingiustizia della sentenza perché fondata su una motivazione ritenuta, sul piano della mera opinabilità della tenuta logica, non appagante.

La novità normativa è senz'altro discutibile, ma non è equivoca.

Quanto all'opinabilità della soluzione. Negli anni '70 del secolo scorso più di un autore suggerì l'abolizione del giudizio di appello, che, come si sa, non è dotato di copertura costituzionale: ma all'epoca il grosso delle controversie di rilievo era deciso in primo grado da un giudice collegiale, che non subiva per di più le influenze — non sempre benefiche — del principio di ragionevole durata del processo; oggi il giudice di primo grado è quasi sempre monocratico, ed il rilievo della giurisdizione onoraria è enormemente lievitato. È la stessa relazione illustrativa alla novella del 2012 a dire che le sentenze di primo grado riformate in appello ammontano al 32% di quelle impugnate: dato non propriamente confortante, giacché mostra come una sentenza su tre delle sentenze impugnate sia sbagliata.

Tuttavia, il dato normativo è quello che è. D'altro canto, non c'è dubbio che la novella dell'art. 342 c.p.c. si inserisca in una trama normativa che conferma la lettura data.

La nuova conformazione dell'appello si armonizza con il nuovo testo del citato n. 5 dell'art. 360 c.p.c., che oggi consente di ricorrere per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Vi è cioè continuità tra la formulazione dell'art. 342 c.p.c., che consente di denunciare, oltre a violazioni di legge, successivamente deducibili anche in cassazione, esclusivamente errori nella ricostruzione del fatto, e la formulazione dell'articolo 360, n. 5, c.p.c., che consente l'impugnazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio: in entrambi i casi è la ricostruzione del fatto nella sua oggettività, non la sua valutazione, a venire in considerazione.

D'altronde l'intento del legislatore di limitare e disincentivare l'accesso all'impugnazione in appello è testimoniata da una pluralità di interventi: il c.d. filtro (art. 348 bis-ter c.p.c.); la ulteriore contrazione dell'ammissibilità di nova in appello (art. 345 c.p.c.; art. 702-quater c.p.c.); la sanzione delle sospensive inammissibili (art. 283 c.p.c.); il raddoppio del contributo unificato a carico dell'appellante soccombente (art. 1, 17° co., legge 24 dicembre 2012, n. 228).

Inoltre la trasformazione dell'appello in strumento di impugnazione a critica limitata (come tutti gli altri mezzi di impugnazione, del resto), oltre ad essere perfettamente compatibile con il dettato costituzionale, giacché il legislatore ben potrebbe abolirlo del tutto, non è neppur nuova, ove si consideri che già l'appello contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità può essere proposto soltanto per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia, sicché si presenta quale appello a critica limitata (contra Corte cost. 19 dicembre 2012, n. 304, che tuttavia non appare condivisibile).

La trasformazione del giudizio di appello in strumento di impugnazione a critica limitata — che, unitamente all'aumento dell'imposizione fiscale, è il solo strumento volto a ridurre il carico dei giudici di appello dal versante delle «entrate», poiché il «filtro» di cui all'art. 348 bis-ter si colloca invece dal versante delle «uscite», risolvendosi in un incentivo alla definizione di un maggior numero di procedimenti — manifesta la sua ragion d'essere anche nell'esigenza di recupero della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, «schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo» (Corte cost. 11 aprile 2008, n. 98): ed è ovvio che limitare l'accesso all'appello significa indirettamente sgravare anche, sia pure in parte, la Corte di cassazione.

In definitiva, l'intervento sul giudizio di appello contenuto nell'art. 342 c.p.c., lungi dal ridursi ad una mera presa d'atto del precedente indirizzo giurisprudenziale in tema di specificità dei motivi d'appello, sembra espressione di un progetto organico (che può piacere o no, ma, in generale, non allontana certo, bensì avvicina l'Italia ad altri importanti paesi europei) volto alla compressione del sistema delle impugnazioni.

Ma non sarà questa la soluzione che accoglieranno le Sezioni Unite.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.