La sentenza emessa senza attendere la scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. è di per sé nulla

Sara Caprio
04 Gennaio 2022

Secondo le Sezioni Unite la sentenza emessa o senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attenderne la scadenza, è di per sé nulla, perché in questo modo si impedisce ai difensori di svolgere compiutamente il diritto di difesa.
QUESTIONE CONTROVERSA

Un giudizio avente ad oggetto il trasferimento coattivo di un immobile ai sensi dell'art. 2932 c.c. offre alla Corte di cassazione lo spunto per individuare un contrasto interpretativo, sul tema, squisitamente processuale, relativo alla possibilità o meno di ritenere nulla la sentenza pronunciata prima dello scadere del termine per il deposito delle memorie conclusionali di replica.

Tra i motivi del proposto ricorso per Cassazione figurava proprio la violazione degli artt. 190 e 352 c.p.c. per avere la Corte di appello deciso la causa senza attendere la scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (nel caso di specie la decisione era stata pubblicata due giorni dopo l'intervenuta scadenza del termine per il deposito delle comparse conclusionali e dunque molto prima dello spirare del termine per il deposito delle memorie di replica).

Il Collegio adìto osserva che sul punto non vi è uniformità di indirizzi giurisprudenziali, giacché a fronte di numerose decisioni che sanzionano con la nullità la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini previsti dall'art. 190 c.p.c., risultando per ciò solo impedito ai difensori l'esercizio del diritto di difesa, non mancano altre sentenze secondo cui perché in tale eventualità possa essere dichiarata la nullità occorre la dimostrazione ad opera della parte impugnante che la irrituale conduzione del processo abbia prodotto in concreto una lesione del diritto di difesa.

ORIENTAMENTI CONTRAPPOSTI

Con particolare riferimento ai due orientamenti contrapposti che si sono formati innanzi alla stessa Corte di legittimità occorrono alcune precisazioni.

La tesi dell'automatica nullità della sentenza emessa prima della scadenza dei termini previsti dall'art. 190 c.p.c. muove dall'idea della sacralità del diritto di difesa, in quanto il principio del contradditorio «non è riferibile solo all'atto introduttivo del giudizio, ma deve realizzarsi nella sua piena effettività durante tutto lo svolgimento dei processo», per cui il procedimento e la sentenza che lo conclude devono ritenersi per ciò solo affetti da nullità, «essendosi in tal modo impedito ai difensori delle parti di svolgere nella sua completezza il diritto di difesa».

L'ordinanza di rimessione ricorda anche che, stando ad un indirizzo ancor più rigoroso, quando il Giudice abbia deciso la causa senza neppure assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, la conseguente sentenza «non può che essere nulla, comportando il mancato esercizio del diritto di difesa e la violazione del contraddittorio, principi cardine del giusto processo», non essendo necessario che la parte indichi se e quali argomenti avrebbe potuto svolgere ove le fosse stato concesso il termine per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. Qualora infatti si pretendesse l'assolvimento di tale onere, «si verrebbe impropriamente ad attribuire la funzione di elemento costitutivo della nullità ad un comportamento inerente al modo in cui, mediante il rispetto del noto principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione della decisione, la parte può far valere la nullità stessa, ovvero al veicolo necessario per darle rilievo».

Alla base di questa posizione interpretativa vi è l'idea che la mancata assegnazione dei termini per il deposito degli atti defensionali finali o il mancato rispetto degli stessi dà luogo ad una patente violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, tale da non rendere necessaria l'allegazione a carico delle parti di uno specifico pregiudizio, siccome sussistente in re ipsa per la sola inosservanza dei principi fondamentali di cui agli artt. 24 e 111 Cost.. In altre parole, «la nullità verrebbe a configurarsi per violazione dei richiamati principi soprattutto perché l'illustrazione delle conclusioni, che i difensori fanno nelle comparse conclusionali, e le osservazioni che possono contrapporvi nelle memorie di replica, rappresentano un complemento imprescindibile dell'esercizio del diritto di difesa nel contraddittorio tra le parti».

A tale orientamento si contrappone quello a mente del quale la mancata assegnazione alle parti dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie o la pronuncia della sentenza prima della scadenza dei termini già assegnati, previsti dall'art. 190 c.p.c., non sono di per sé causa di nullità della sentenza stessa. Tale eventualità non è idonea di per sé a cagionare una nullità, «essendo indispensabile, perché possa dirsi violato il principio del contraddittorio, che la irrituale conduzione del processo abbia prodotto in concreto una lesione del diritto di difesa. Perciò, a tal fine, la parte deve dimostrare che l'impossibilità di assolvere all'onere del deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ha impedito alla difesa di svolgere ulteriori e rilevanti aggiunte o specificazioni a sostegno delle proprie domande e/o eccezioni rispetto a quanto già indicato nelle precedenti fasi del giudizio».

Tale indirizzo trova un autorevole precedente nella sentenza n. 3758/2009 resa a Sezioni Unite, a mente della quale lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della sua fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima.

Tale posizione trova eco anche in dottrina, essendovi numerosi autori che, nel contesto di una riflessione sulla disciplina delle nullità processuali, hanno ritenuto che la parte che intenda opporre la nullità dell'atto debba dimostrare il pregiudizio subìto. Per taluni, il fondamento della regola appena esposta è rinvenibile nell'art. 157, comma 2, c.p.c., nella parte in cui è previsto che «soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la mancanza del requisito stesso». Da tale inciso pare possibile desumere che in tanto la nullità è deducibile se ed in quanto abbia cagionato delle conseguenze pratiche sulla posizione della parte (Denti, Nullità degli atti processuali civili, in Noviss. dig. it., XI, Torino 1965, 477; in precedenza, Andrioli, Commento al codice di procedura civile, I, Napoli 1957, 413, nonché Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano 1959, 541). Per altri, il principio del pregiudizio effettivo trova la sua base nell'art. 156, al terzo comma, giacché l'atto che non ha determinato alcun pregiudizio in capo alle parti è, senza alcun dubbio, un atto che ha raggiunto il suo scopo con conseguentemente impossibilità di rilevazione del vizio (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2019, 234).

Prescindendo dal suo fondamento positivo, alla base dell'impostazione appena riportata vi è la necessità di sfuggire dal «formalismo delle garanzie», evitando che possa pervenirsi all'invalidazione del processo laddove esso sia inficiato da vizi meramente formali e forse anche innocui, come accade laddove il mancato rispetto del principio del contraddittorio non abbia concretamente inciso sul diritto di difesa delle parti (così per tutti Chiarloni, Questioni rilevabili d'ufficio, diritto di difesa e «formalismo delle garanzie», in Riv. trim. dir. proc. 1987, 569 ss.).

RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE

Come è evidente, la questione attinente alla possibilità di dare o meno ingresso nel nostro ordinamento al principio del pregiudizio effettivo appare di capitale importanza sia sotto il profilo sistematico sia sotto il profilo pratico, anche a causa dell'applicazione giurisprudenziale sempre più pervasiva del principio. Occorre dunque comprendere se sia possibile predicarne l'esistenza e, laddove si risolva positivamente il dubbio, determinarne i limiti applicativi.

Proprio per tali motivi, la S.C. osserva che la persistenza del contrasto giurisprudenziale sulla questione sin qui delineata imponga la sua rimessione al Primo Presidente ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. affinché valuti l'opportunità di «investirne le Sezioni unite per la risoluzione dell'emerso e perdurante contrasto, prospettandosi essa, in alternativa, quantomeno come questione di massima di particolare importanza».

Sul punto sia consentito svolgere alcune brevissime riflessioni. Invocare ai fini della declaratoria della nullità l'applicazione del c.d. principio del pregiudizio effettivo, significa tutelare non il generale ed astratto interesse delle parti all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma permettere l'eliminazione del pregiudizio concretamente subìto dalle stesse nell'esercizio dei poteri processuali loro spettanti a causa della violazione delle regole del processo. In sostanza, applicando tale principio potrebbe ammettersi che anche un processo svoltosi con forme diverse da quelle prescritte dalla legge possa essere considerato giusto, qualora tali difformità non abbiano effettivamente determinato un danno in capo alle parti.

In tal modo, sul piano delle conseguenze pratiche «la posizione processuale della parte intenzionata a far valere la nullità dell'atto si aggraverebbe non poco», considerando che in molti casi la dimostrazione del pregiudizio può talora essere estremamente difficile o anche propriamente impossibile (così Donzelli, Sul «principio del pregiudizio effettivo», in Riv. dir. proc., 2020, 548).

«Se, infatti, si dovesse accogliere il suddetto principio e soprattutto se lo si dovesse accogliere con quel grado di genericità ed al contempo di assolutezza con cui viene posto in ambito giurisprudenziale, lo stesso concetto di procedimento giurisdizionale verrebbe meno per dissolvenza» (Donzelli, op. ult. cit.).

Occorre indubbiamente considerare che molte delle regole procedimentali sono poste non tanto nell'interesse delle parti quanto nell'interesse generale al buon funzionamento della giustizia, per cui l'applicazione ad esse del principio del pregiudizio effettivo rischia di rendere molte regole processuali facoltative, in quanto sfornite di sanzione in caso d'inosservanza.

Le osservazioni appena svolte rendono evidente la «particolare importanza» della questione: la S.C. è chiamata ad assolvere all'arduo compito di stabilire in primo luogo quale sia il (ed ancora prima se vi sia un) fondamento positivo del principio del pregiudizio effettivo nel nostro ordinamento. Come è stato autorevolmente notato (Oriani, voce Nullità degli atti processuali: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXIII, Roma 1990, 11), «ai fini dell'accoglimento dell'eccezione di nullità la parte, nel cui interesse sono stati stabiliti requisiti formali dell'atto, non deve allegare né provare che la nullità le ha provocato un pregiudizio»; infatti, che «la regola pas de nullité sans grief non risulta infatti né dall'art. 157, comma 2, né dal sistema delle nullità, in quanto la valutazione dell'interesse è fatta una volta per tutte dal legislatore nel momento in cui prescrive, per proteggere una parte, determinati requisiti formali dell'atto; il pregiudizio è in re ipsa, di modo che la parte ottiene la dichiarazione di nullità per il solo fatto che manchino i requisiti formali, senza dover dimostrare alcunché». Secondariamente, e in caso di risposta positiva al primo quesito, essa è chiamata a delimitarne l'ambito di applicazione; in terzo luogo, la Corte è chiamata a stabilire in che cosa effettivamente consista il pregiudizio che la parte interessata ad ottenere l'invalidazione dell'atto processuale deve dedurre e provare in giudizio.

Soluzione

Le S.U. scelgono di optare per la tesi della nullità automatica della sentenza emessa prima della scadenza dei termini assegnati alle parti per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ex art. 190 c.p.c.

Prima di affrontare ex professo la questione, le Sezioni Unite ritengono doverosa una precisazione: osservano infatti che il riferimento temporale da prendere in considerazione non è il giorno del deposito della sentenza, come sembrerebbe leggendo l'ordinanza interlocutoria, ma quello della deliberazione della sentenza. Nel caso di specie, la sentenza era stata depositata in cancelleria dopo la scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., ma era stata deliberata prima della scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Se è vero che solo con la pubblicazione la sentenza acquista rilevanza giuridica, è del pari vero che la deliberazione, atto anteriore alla pubblicazione, pur non essendo un elemento essenziale dell'atto, assume rilevanza e può dar luogo a nullità della sentenza allorché vengano lesi il contraddittorio e il diritto di difesa, poiché, a fronte di una decisione già assunta, l'assegnazione dei termini risulta a «presidio di un'attività difensiva praticamente inutile».

La Suprema Corte, poi, compie un'altra importante puntualizzazione. Precisa infatti che i vizi formali sono rilevanti se cagionano un pregiudizio all'esercizio del diritto di difesa. Ad esempio, il vizio della mancata adozione di un rito diverso rileva come motivo di impugnazione solo se viene indicato lo specifico pregiudizio che ne è derivato alla parte. Infatti, «l'esattezza del rito non è mai suscettibile di essere considerata come fine a sé stessa, donde può essere invocata solo per riparare a una precisa e apprezzabile lesione che, in conseguenza del rito seguito, si sia determinata (per la parte) "sul piano pratico processuale"» (cfr. Cass. civ., sez. un., n. 3758/2009).

Tale affermazione sembrerebbe invero far propendere per il secondo orientamento; sennonché, secondo la Corte, essa non può estendersi ai casi in cui sia dedotta la lesione di diritti processuali essenziali come il diritto al contraddittorio e alla difesa. Pertanto, sulla parte che deduce la nullità della sentenza per lesione dei su citati diritti non grava alcun onere di allegazione come, invece, richiesto dall'orientamento minoritario.

La Corte a sostegno di tale affermazione richiama il fenomeno della rimessione al primo giudice sancito dall'art. 354 c.p.c. in caso di nullità della notificazione dell'atto di citazione. In tale circostanza, il contumace involontario ottiene la declaratoria di nullità della pronuncia e la rimessione al giudice di prime cure provando unicamente la nullità della notifica della citazione, non avendo anche l'onere di allegare quali difese avrebbe potuto far valere. Per la Cassazione «la diversa regola, che vuole necessario ai fini dell'apprezzamento della nullità processuale anche il riferimento a un pregiudizio effettivo "altro" rispetto a quello a tal fine considerato dal legislatore, non è in alcun modo presidiata nell'ordinamento processuale italiano, a differenza di quel che accade (per esempio) nell'esperienza dell'ordinamento francese (art. 114 del Nouveau code de procedure civile)».

Invero, le norme del codice di rito (si pensi ad esempio agli artt. 190, 275, 281 quinquies c.p.c.) che prevedono la concessione di termini per il deposito degli atti conclusivi non sanciscono la nullità della sentenza in caso di mancata concessione o di mancato rispetto dei predetti termini. Ciò nonostante nessuno dubita che alla violazione del diritto della parte al rispetto di questi termini consegua una nullità, perché tali disposizioni normative costituiscono espressione dei principi costituzionali sanciti agli artt. 24 e 111, comma 2, Cost. Ciò che piuttosto si discute è se si tratti di nullità automatica oppure no.

Per risolvere tale annoso dubbio, le Sezioni Unite partono dalla disamina dell'art. 111, comma 2, Cost.; è noto che tale norma, tra l'altro, tuteli il diritto al contraddittorio per tutto l'arco del processo, il quale è insito nel diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost.; pertanto, un processo celebrato in violazione di tale principio dà origine ad una sentenza affetta da nullità. Il contraddittorio è, dunque, il principio cardine del processo giurisdizionale; pertanto, esso deve ritenersi senz'altro prevalente rispetto all'altro, pure di matrice costituzionale, di economia processuale.

Come sancito dalle stesse Sezioni Unite (cfr. Cass. civ., n. 5700/2014; Cass. civ., n. 9558/2014) il principio del giusto processo non si esplicita nella sola sua durata ragionevole; anche se tale principio è divenuto un punto di riferimento costante nell'esegesi delle norme processuali, in nome di tale principio non è possibile eludere norme processuali volte a garantire il diritto di difesa, del contraddittorio, ovvero il diritto ad un giudizio nel quale le parti siano messe in condizione di interloquire compiutamente in tutte le sue varie fasi.

Deve pertanto affermarsi il principio secondo cui la violazione di tali principi regolatori del giusto processo determina la nullità della sentenza anche senza la necessità di una testuale previsione. Una conferma di siffatta tesi è rinvenibile in primo luogo nell'art. 829, n. 9, c.p.c. che qualifica la mancata osservanza del principio del contraddittorio nell'ambito del procedimento arbitrale come causa di nullità del lodo, indipendentemente da qualsiasi preventiva rinuncia; se così è nel procedimento arbitrale sarebbe alquanto singolare ritenere che una simile violazione sia causa di nullità del lodo e non anche della sentenza emessa dal giudice.

Un'ulteriore conferma è poi ravvisabile nell'art. 360-bis, n. 2, c.p.c. secondo il quale la sentenza è impugnabile per cassazione non solo in caso di nullità per inosservanza di forme ex art. 360, n. 4, c.p.c., ma anche quando siano stati violati i principi regolatori del giusto processo, così come accade nel caso in cui la sentenza sia stata deliberata prima che le parti abbiano esercitato compiutamente il loro diritto di difesa.

Le Sezioni Unite, dunque, a soluzione del contrasto evidenziato, hanno affermato che «la parte che proponga l'impugnazione della sentenza d'appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero per replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; la violazione determinata dall'avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto alla possibilità per i difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all'atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo».

Pertanto, nel caso di specie, la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia la causa alla medesima corte di appello, in diversa composizione, per una nuova deliberazione.

Stabilito, quindi, che la Corte ha scelto di aderire all'orientamento maggioritario, occorre effettuare una distinzione laddove la sentenza deliberata anticipatamente sia di primo grado. In tal caso, infatti, la parte non può limitarsi ad impugnare la sentenza denunziandone la nullità, dato che il giudice d'appello, dichiarata la nullità, non potrebbe rimettere la causa al primo giudice, ma dovrebbe deciderla nel merito ex art. 354 c.p.c.; pertanto, è onere dell'appellante impugnare la sentenza anche sulle statuizioni di merito (Cass. civ., n. 4125/2020; Cass. civ., n. 5590/2001). «Alla base della differenza non sta però una sorta di differente onere esplicativo della rilevanza della nullità in capo alla parte lesa (quasi che la nullità non sia in tale ipotesi essa stessa automatica), ma semplicemente il fatto che nel sistema di diritto processuale la nullità della sentenza si converte nell'apposito mezzo di gravame: l'appello o il ricorso per cassazione (art. 161 c.p.c.)».

La Corte conferma, dunque, l'ultradecennale indirizzo giurisprudenziale secondo cui, fuori dai casi tassativamente elencati dagli artt. 353 e 354 c.p.c., l'appello fondato esclusivamente su motivi di rito, senza contestuale gravame contro l'ingiustizia della sentenza di primo grado, «è inammissibile, oltre che per difetto di interesse, per non rispondenza al modello legale o tipo d'impugnazione» (cfr. Cass. civ., 20 agosto 2018, n. 20799). «Con l'aggiuntiva conseguenza», precisa la Corte, «che l'eventuale ricorso avverso la sentenza d'appello, che, nelle condizioni date, avesse mancato di dichiarare la nullità della sentenza di primo grado assunta anteriormente alla scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., sarebbe inammissibile per difetto di interesse, ove la sentenza d'appello fosse giunta, come suo preciso dovere, a decidere la causa nel merito»(cfr. Cass. civ., n. 27777/2008; Cass. civ., n. 18578/2015).

Alla luce di quanto esposto appare ragionevole salutare con favore la decisione emanata dalle Sezioni Unite, essendo volta a tutelare i principi cardine del giusto processo. Ritenere necessaria l'allegazione del c.d. pregiudizio effettivo comporterebbe, infatti, un aggravio per la parte di non poco conto, dovendo tenere in considerazione che in molti casi la dimostrazione del pregiudizio può essere estremamente difficile o anche propriamente impossibile (cfr. Donzelli, Sul «principio del pregiudizio effettivo», in Riv. dir. proc., 2020, 548). A sostegno di quanto stabilito dalla decisione in esame si sottolinea dunque che «ai fini dell'accoglimento dell'eccezione di nullità la parte, nel cui interesse sono stati stabiliti requisiti formali dell'atto, non deve allegare né provare che la nullità le ha provocato un pregiudizio» (cfr. Oriani, voce Nullità degli atti processuali: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXIII, Roma 1990, 11).

Inoltre, propendere per la soluzione contraria significherebbe ammettere che anche un processo svoltosi con forme diverse da quelle prescritte dalla legge può essere considerato giusto, qualora tali difformità non abbiano effettivamente determinato un danno in capo alle parti.

Occorre invece tener conto del dato testuale, ovvero del fatto che se il legislatore ha prescritto, per proteggere una parte, determinati requisiti formali dell'atto, la loro assenza determina un pregiudizio che è in re ipsa. La valutazione dell'interesse è fatta a monte dal legislatore, per cui la parte ottiene la dichiarazione di nullità per il solo fatto che manchino i requisiti formali prescritti, senza la necessità di dover dimostrare altro. Viceversa, si finirebbe per destabilizzare il c.d. affidamento che le parti ripongono nel diktat normativo e per rimettere tutto (ovvero troppo) alla discrezionalità dell'organo giudicante, con il rischio di compromettere l'uguaglianza sostanziale delle decisioni.