Reati intenzionali violenti: no al requisito dell'azione esecutiva per l'accesso all'indennizzo

26 Ottobre 2022

Il presente contributo si interroga sulla compatibilità della normativa italiana, che subordina l'erogazione dell'indennizzo a favore delle vittime di reati intenzionali violenti all'infruttuoso esperimento dell'azione esecutiva, con la disciplina unionale.
Massima

L'art. 12, comma 1 lett. b) della legge n. 122/2016 deve essere interpretato in conformità alla finalità della Direttiva 2004/80, consistente nel facilitare l'accesso delle vittime di reati intenzionali violenti ad una tutela indennitaria equa ed adeguata. Per il riconoscimento del suddetto indennizzo, pertanto, è sufficiente che la vittima provi – anche a mezzo di presunzioni – le “oggettive difficoltà” a conseguire il risarcimento dal colpevole, non essendo indispensabile il più stringente requisito dell'assoluta impossibilità e, quindi, l'effettivo esperimento dell'azione esecutiva.

Il caso

La questione sottoposta al vaglio del Giudice Torinese prendeva le mosse dalla barbara uccisione di un cittadino italiano da parte di tre soggetti poi condannati dalla Corte d'Appello di Torino con severe pene detentive ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite. I congiunti della vittima, impossibilitati a conseguire detti ristori da parte degli autori del reato poiché tutti in stato di detenzione e nullatenenti, presentavano istanza per accedere alla tutela indennitaria prevista dalla legge n. 122/2016 s.m.i. a favore delle vittime di reati intenzionali violenti.

Il Ministero dell'Interno, in persona del Prefetto, rigettava la domanda richiedendo, in asserita conformità all'art. 13, comma 1, lett. b) l. n. 122/2016, documentazione che dimostrasse l'infruttuoso esperimento dell'azione esecutiva. I congiunti della vittima fornivano ampia prova dell'assoluta incapienza dei rei e pertanto dell'inutilità di un'azione esecutiva dalla quale sarebbe necessariamente ed evidentemente derivata l'impossibilità di ottenere dette somme. Tuttavia, il Ministero perseverava nella propria posizione rigettando l'istanza proposta, così costringendo la moglie ed i figli della vittima ad impugnare il relativo provvedimento, dando corso all'azione civile innanzi al Tribunale di Torino.

La questione

L'art. 12, comma 1, lett. b) e l'art. 13, comma 1, lett b) della legge n. 122/2016 subordinano – testualmente – l'erogazione dell'indennizzo statale a favore delle vittime di reati intenzionali violenti al fatto che, tra le altre condizioni, alla domanda sia allegata documentazione comprovante l'infruttuoso esperimento dell'azione esecutiva nei confronti dell'autore del reato, salvo che quest'ultimo sia rimasto ignoto oppure abbia chiesto ed ottenuto l'ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale o civile in cui è stata accertata la sua responsabilità.

Detta disposizione appariva in contrasto con la ratio e la lettera della Direttiva 2004/80 – in applicazione della quale è stata adottata la normativa nostrana – che, nel dichiarato intento di alleggerire la vittima dalle difficoltà che avesse potuto incontrare nel conseguire una adeguata tutela risarcitoria da parte del proprio offensore, ha imposto agli Stati membri di adottare un sistema riparatorio-indennitario capace di sopperire all'inadeguatezza risarcitoria del reo non sufficientemente capiente ovvero latitante ovvero ignoto.

Il legislatore italiano – già con moltissimi anni di ingiustificato ritardo rispetto alle tempistiche stabilite dalla Direttiva – aveva di fatto trasformato, per il tramite delle norme sopra indicate, “l'oggettiva difficoltà” della norma comunitaria in una “oggettiva impossibilità” in assenza della quale all'interessato non era consentito, come accaduto nel caso di specie, l'accesso all'indennizzo.

Gli attori chiedevano quindi al Tribunale di pronunciarsi sulla compatibilità tra la norma nazionale e la disciplina comunitaria e, in caso di ritenuta risposta negativa, di attribuire all'art. 12, comma 1 lett. b) l. n. 122/2016 un significato coerente e rispettoso della normativa unionale, come anche interpretata dalle più recenti pronunce della CGUE.

Le soluzioni giuridiche

Prima di addentrarsi nel merito della questione il Giudice torinese ha anzitutto confermato – per quanto non risultasse oggetto di specifica contestazione – la propria giurisdizione sul presupposto che la situazione fatta valere in giudizio dagli attori nei confronti della Pubblica Amministrazione fosse da qualificarsi alla stregua di una posizione soggettiva perfetta, non essendo riconosciuta alla P.A. alcuna discrezionalità nell'individuazione dei presupposti per la concessione dell'indennizzo e dei relativi importi erogabili.

Superata la questione preliminare, il Giudice si è mostrato fermo nel ritenere che l'unica interpretazione possibile – e conforme agli obblighi imposti dalla Direttiva – della impugnata condizione di indennizzabilità sia nel senso che la vittima debba dimostrare, anche a mezzo di presunzioni, non l'assoluta impossibilità certificata dal previo esperimento dell'azione esecutiva, ma le oggettive difficoltà nell'ottenere il risarcimento del danno dall'autore del reato.

A sostegno di tale conclusione appare anzitutto dirimente – a detta del Giudice – il dato testuale della Direttiva che ha cristallizzato la necessità di creare un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime l'accesso all'indennizzo [considerando 7] nella consapevolezza che in alcuni casi possa risultare particolarmente impervio il conseguimento del risarcimento da parte del reo [considerando 10] e nella speranza di elidere – quantomeno in parte – tali difficoltà. Nel doveroso perseguimento dell'obiettivo agli Stati membri è stato, pertanto, concesso di integrare le disposizioni della Direttiva unicamente con previsioni più favorevoli ai danneggiati [art. 17], risultando – al contrario – del tutto preclusa la possibilità di prevedere nuove o più restrittive condizioni di ammissibilità al beneficio che finirebbero per vanificare l'effetto utile della normativa comunitaria e renderla del tutto inefficace.

D'altra parte – continua il Giudice nel proprio ragionamento – è stata la stessa CGUE nella sua qualità di unica autorità giudiziaria deputata all'interpretazione delle norme dell'Unione con efficacia vincolante per i Giudici degli Stati membri, a sottolineare, con la sentenza del 20 luglio 2020, causa C-129/2019, che l'operatività del meccanismo indennitario è subordinato alla mera oggettiva difficoltà della vittima e non già – come invece pretenderebbe il dato testuale del sistema italiano – all'impossibilità da dimostrarsi per il tramite di un'azione esecutiva.

In linea con la CGUE, inoltre, anche la Suprema Corte, con la pronuncia n. 26757/2020 – poi ribadita dalla sentenza n. 26302/2021 e dalla decisione n. 14943/2022 – aveva già sottolineato l'opportunità di ripensare il sistema nostrano ed ampliare il novero delle condizioni di ammissione della vittima al beneficio ad «ulteriori e seri ostacoli che possono presentarsi nel conseguimento da parte della stessa vittima al risarcimento ad essa spettante».

In ultimo, non può neanche omettersi di trascurare – ha concluso il Giudice – l'immotivata disparità di trattamento, e la conseguente inaccettabile violazione dell'art. 3 Cost., che la normativa in commento determinerebbe – ove non correttamente interpretata ed applicata – tra le vittime di reati intenzionali violenti e le vittime di altri specifici reati abilitate ad accedere al medesimo fondo di rotazione quali, a titolo esemplificativo, vittime del dovere, di reati di stampo mafioso, di terrorismo, estorsione o usura per i quali non è in alcun modo prevista una condizione assimilabile a quella impugnata.

Applicando detti principi al caso concreto, il Giudice ha pertanto ritenuto che gli elementi offerti dagli attori relativamente alla condizione di pregiudicati, nullafacenti e nullatenenti nella quale versavano gli imputati al momento della commissione dell'omicidio, unitamente allo stato di detenzione al momento di instaurazione del giudizio ed all'assenza di beni immobili ed autoveicoli intestati, fossero tutti elementi sufficienti ad integrare il requisito dell'oggettiva difficoltà, senza che agli istanti potesse essere imposto l'ulteriore onere di instaurare una procedura esecutiva che avrebbero avuto, di fatto, l'unico scopo di confermare uno stato di incapienza già sufficientemente circostanziato e provato.

Il Tribunale di Torino, pertanto, ha definitivamente accertato il diritto degli attori di accedere al Fondo di rotazione e condannato il Ministero al pagamento dell'indennizzo normativamente predeterminato, oltre interessi.

Osservazioni

La sentenza in commento – vera e propria «causa pilota» sul tema ed approdo fondamentale in materia di indennizzo delle vittime di reato intenzionale violento – ha offerto nuovi ed importanti sviluppi ad una tematica che da anni vede le vittime confrontarsi con uno Stato che sembra opporre una strenua resistenza ad un pieno ed effettivo recepimento della Direttiva 2004/80.

Si ricorderà certamente, infatti, che per il mancato – e poi inesatto – adempimento della Direttiva de qua l'Italia è già stata protagonista di due procedure di infrazione – entrambe concluse con la condanna del Paese [Corte Giust. Ce, 29 novembre 2007, causa C-112/07, Commissione c. Italia e Corte Giust. Ue, Grande Sezione, 11 ottobre 2016, causa C-601/14, Commissione Europea c. Repubblica Italiana] – e di una recente battaglia giurisprudenziale in ordine all'applicabilità o meno della Direttiva – e conseguentemente della normativa nazionale – ai casi prettamente «interni» oltre che a quelli connotati dal requisito della transnazionalità.

Conclusasi favorevolmente per le vittime anche quest'ultima vicenda con la pronuncia della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 20 luglio 2020 [causa C-129/2019], proprio tale sentenza e le sopra indicate decisioni di legittimità, avrebbero dovuto costituire un serio monito per il legislatore nazionale ai fini di un definitivo adeguamento della normativa interna a quella sovrannazionale. Fin dall'adozione della legge n. 122/2016 si sottolineava infatti come il recepimento – anche per come modificato, in punto importi, dal D.M. del 22 novembre 2019 – fosse da considerarsi più apparenza che realtà.

In primo luogo – come poi effettivamente riscontrato nel caso in commento – poiché le condizioni oggettive e soggettive di accesso al beneficio erano estremamente restrittive e tali da rendere ardua, se non del tutto vessatoria, la possibilità di ottenere una effettiva tutela indennitaria. Era evidente, infatti, che l'onere di esercitare l'azione esecutiva non potesse in alcun modo ritenersi funzionale a facilitare la finalità riparatoria che la normativa dovrebbe perseguire, soprattutto a fronte di casi connotati dalla transnazionalità nei quali – di fatto – la facilitazione sollecitata a livello comunitario si sarebbe in realtà tradotta nella necessità – per il cittadino straniero – di attivare una procedura esecutiva in un paese diverso da quello di residenza.

Il ragionamento del Giudice torinese appare pertanto ineccepibile. Laddove la vittima dimostri – anche per il tramite di presunzioni chiare precise e concordanti – l'impossidenza del responsabile attraverso, ad esempio, la produzione di certificazioni negative delle visure esperite sui pubblici registri (immobiliari, dei mobili registrati, delle imprese quanto alla eventuale titolarità di aziende), deve darsi per scontata l'assenza sia di beni utilmente pignorabili sia, di conseguenza, la potenziale efficacia di un'azione esecutiva. In tal modo, peraltro, non viene neppure tradito il carattere sussidiario dell'intervento statale poiché, in ogni caso, l'istante rimane onerato – come avvenuto nel caso di specie – di una puntuale dimostrazione dello stato di incapienza del proprio aggressore. Semplicemente (e doverosamente!) l'interpretazione sposata dal Giudice torinese permette di risparmiare alla vittima l'ulteriore mortificazione (economica e morale) di attivare un'azione esecutiva inutile, dispendiosa, temporalmente impegnativa e che avrebbe quale unico scopo quello di costringerla a perpetrare il confronto con una situazione di dolore e sofferenza che l'ordinamento dovrebbe, invece, essere in grado di tacitare – o quantomeno di concorrere a tacitare – nel più breve tempo possibile.

L'Europa, d'altronde, è chiara da decenni: è essenziale che il supporto alla vittima e la riparazione economica del torto subito operino non solo sul piano dell'affermazione formale ma che soprattutto si concretizzino adeguatamente sul piano sostanziale in modo da scongiurare qualsiasi fenomeno di vittimizzazione secondaria.

Proprio per tale motivo la pronuncia del Tribunale di Torino – essenziale e da accogliere con estremo favore nei propri approdi – non è purtroppo in grado, da sola, di porre fine al dilemma del corretto adempimento della Direttiva 2004/80 ad opera del legislatore nazionale poiché sono ancora molteplici le questioni che rimangono aperte – a grave sfavore della vittime – relativamente alla disciplina di cui alla l. 122/2016.

Gli importi indennitari prestabiliti dal legislatore, infatti, continuano ad essere del tutto incapaci di soddisfare i canoni di «equità» ed «adeguatezza» pretesi dall'art. 12 della Direttiva, anche per come rideterminati nel 2019. Basti considerare che nel caso di specie i 50.000,00 euro riconosciuti per la barbara uccisione di un marito e padre sono da ritenersi complessivi e, quindi, da ripartirsi tra tutti gli attori secondo le quote previste dalle disposizioni del libro secondo, titolo II, del codice civile. Considerando le somme normalmente liquidate dai Tribunali in ipotesi risarcitorie del tutto assimilabili, ovvero gli importi erogati a titolo di indennizzo per specifici reati quali l'usura, l'estorsione o quelli di stampo mafioso, appare evidente come le elargizioni previste dalla l. 122/2016 – singolarmente considerate – appaiano drammaticamente irrisorie in rapporto al pregiudizio subito da ciascuno degli istanti e, quindi, in alcun modo capaci di scongiurare i citati fenomeni di vittimizzazione secondaria e, più in generale, di realizzare gli obiettivi imposti dalla Direttiva.

Anche sul punto, d'altronde, la CGUE si è espressa in maniera inequivocabile sottolineando che, pur trattandosi di indennizzo e, quindi, ben potendosi ammettere un sistema che non determini il ristoro integrale dei pregiudizi patiti, l'intervento statale risulta conforme ai canoni di equità ed adeguatezza solo laddove capace di valorizzare le circostanze del caso concreto e di offrire un valido ed effettivo ristoro ai danni effettivamente patiti dalla vittima. Il sistema, pertanto, quand'anche standardizzato come quello nostrano, deve [dovrebbe] comunque essere in grado di consentire una modularità dell'importo, prevedendo – a titolo esemplificativo – la possibilità di aumentare in percentuale la quota prefissata al ricorrere di gravi o determinate circostanze.

Gli indennizzi attualmente elargiti, invece, oltre ad essere del tutto impermeabili alle modalità di verificazione del reato ed alle conseguenze in concreto documentabili sono calibrati – come visto – sul solo evento, a nulla rilevando che le potenziali vittime di un medesimo delitto possano essere più di una – come regolarmente accade, ad esempio, in ipotesi di omicidio – né che i pregiudizi patiti da ciascuno possano essere di differente intensità e varietà. In totale contrasto con i dettami unionali, pertanto, il legislatore italiano persevera nel mantenere un sistema forfettario puro che in talune ipotesi (ad esempio in caso di lesioni gravi) riconosce solo un rimborso delle spese mediche sostenute dalla vittima, senza prevedere alcuna compensazione per i pregiudizi non patrimoniali.

La strada per la piena realizzazione degli obiettivi imposti dalla Direttiva 2004/80 si prospetta quindi ancora lunga ed il rischio del proliferare di contenziosi per l'inadempimento dello Stato ai propri doveri sovrannazionali continua ad essere quantomai attuale. Tuttavia, nell'attesa di un definitivo adempimento dello Stato, la giurisprudenza, ancora una volta, con la pronuncia in commento, si è mostrata capace di farsi portatrice degli interessi delle vittime e di compiere un ulteriore ed essenziale «passo avanti».

La speranza è che le continue sollecitazioni che i Tribunali e le Corti rivolgono evidentemente allo Stato siano presto accolte, così da garantire definitivamente il dignitoso e doveroso trattamento indennitario che da troppi anni le vittime stanno cercando di vedersi riconosciuto con lunghe e faticose battaglie legali.

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