L'ex moglie prolunga la causa di divorzio per impedire il nuovo matrimonio: è risarcibile il danno causato a terzi?

07 Novembre 2022

Costituisce lesione della sfera familiare la condotta dell'ex-moglie che porta avanti una causa di divorzio, qualora l'ex-coniuge non possa contrarre un nuovo matrimonio e dare vita a una nuova famiglia, cagionando un danno anche ai terzi coinvolti?
Massima

La selezione da parte del legislatore, o dell'interprete mediante, l'interpretazione c.d. costituzionalmente orientata delle norme degli interessi dalla cui lesione consegue il danno patrimoniale o non patrimoniale, non può contemplare un asserito diritto ex art. 29 Cost. alla tutela dell'integrità della sua sfera familiare e, segnatamente, il diritto a divenire coniuge di un soggetto con quanto ne consegue in ordine allo status economico.

Difatti, il richiamo giurisprudenziale all'art. 29 Cost., attiene al definitivo pregiudizio ad una posta attiva nel “patrimonio” dei diritti della persona e non a qualcosa che, in tale patrimonio, non è mai esistita.

Il caso

Nella fattispecie in esame, parte attrice lamentava la lesione della sua sfera familiare per averle controparte impedito di contrarre il matrimonio civile con il suo compagno (nel frattempo deceduto), al quale era stata legata da anni di stabile convivenza, culminata con la celebrazione del matrimonio religioso.

In particolare, parte attrice riteneva che la convenuta avesse posto in essere un comportamento illecito, consistito nell'aver trascinato dolosamente, artificiosamente e infondatamente la causa di divorzio con il marito, il quale nel frattempo aveva ricostituito la sua vita affettiva con la suddetta parte attrice.

Secondo la prospettazione attorea, controparte – consapevole che il coniuge fosse oramai malato terminale (era difatti deceduto prima della pronunzia del giudizio in cassazione) - aveva pretestuosamente impugnato la sentenza di divorzio, al solo ed unico scopo di impedirne il passaggio in giudicato, con l'effetto di impedirgli di risposarsi e ricevere in esclusiva tutti i benefici connessi allo status di coniuge.

Ritenendosi lesa da tale condotta, parte attrice adiva dunque al Tribunale di Roma, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali da perdita di chance, consistenti nella perdita delle prerogative ereditarie e pensionistiche (indicati in € 500.000) e dei danni non patrimoniali per lesione all'integrità della sua sfera familiare (indicati in € 1.000.000).

Infine, parte attrice richiedeva il risarcimento dei danni per lesione all'identità personale e alla reputazione, per aver parte convenuta diffuso dichiarazioni lesive dell'onore e della reputazione (danni indicati in € 200.000).

La questione

Si tratta di valutare se il lamentato abuso del processo da parte della convenuta (che dopo aver interposto un appello - giudicato infondato e pretestuoso - alla sentenza di divorzio, aveva proposto anche ricorso per cassazione), possa, o meno, qualificarsi come illecito ex art. 2043 c.c. e, quindi, produttivo di danni non solo nei confronti del coniuge, ma anche di terzi.

Si tratta, inoltre, di valutare se dalla proposizione dei mezzi di impugnazione alla sentenza di divorzio da parte della convenuta, sia conseguita la lesione dell'attrice del suo diritto ex art. 29 Cost. alla tutela e all'integrità della sfera familiare, sotto il profilo della lesione del diritto a divenire la moglie di un soggetto, con quanto ne consegue in ordine allo status economico.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Roma ha rigettato tutte le domande attoree richiamandosi agli insegnamenti delle c.d. Sentenze di San Martino, ossia le SS.UU. 11 novembre 2008, n. 26972 (di contenuto identico ad altre tre sentenze, tutte depositate contestualmente e ampiamente commentate dalla Dottrina più autorevole), che hanno rivisto i presupposti ed il contenuto della nozione di «danno non patrimoniale» di cui all'art. 2059 c.c., oggi interpretato come una categoria ampia ed omnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva e nel quale confluiscono tutte le voci afferenti la dimensione personale dell'individuo.

In forza dei principi espressi dalle Sezioni Unite, il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: a) le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso, (ad es., nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); b) le ipotesi in cui la risarcibilità del danno, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata all'art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione.

Inoltre, sempre in forza dei principi espressi dalle Sezioni Unite, il danno non patrimoniale, anche ove sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce sempre danno conseguenza che deve essere allegato e provato; attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri.

Nello specifico, il Tribunale ha rilevato come le citate SS.UU. abbiano ribadito i punti fermi dell'istituto risarcitorio, consistenti nella necessaria sussistenza di tutti gli elementi previsti dall'art. 2043 c.c. per la configurabilità dell'illecito civile extracontrattuale, ossia: a) la condotta; b) il nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela; c) il danno-conseguenza che ne deriva.

La prima questione affrontata nella sentenza in esame: ossia la valutazione se la descritta condotta processuale della convenuta, potesse - o meno - qualificarsi come condotta illecita.

Ad avviso del Tribunale di Roma, tuttavia, parte convenuta non avrebbe «fatto altro che esercitare un suo diritto proponendo l'appello e poi il ricorso per Cassazione, sebbene il primo sia stato respinto (essendo stato ritenuto non impugnabile per simulazione l'accordo di separazione dei coniugi, presupposto della domanda di divorzio) e, per il secondo, sia stata pronunciata, in conseguenza della sopravvenuta morte di uno dei coniugi in pendenza del giudizio, la cessazione della materia del contendere».

Precisando al riguardo che, la convenuta nel costituirsi in giudizio non si era opposta alla pronuncia di divorzio, «ma aveva avanzato proposte alternative sulle pronunce accessorie, con conseguente emissione della sentenza dichiarativa dello scioglimento del matrimonio e contestuale rimessione della causa sul ruolo, con separata ordinanza, per il prosieguo del giudizio sulle suddette pronunce accessorie».

Secondo il Tribunale, pur essendo «indubbio che la sentenza non definitiva che dichiara lo scioglimento del matrimonio abbia lo scopo di accelerare la definizione della domanda sullo status ove il giudizio (come nella specie) debba poi proseguire ad es. per le questioni economiche, tuttavia non è prevista nel nostro ordinamento l'esclusione della sua impugnabilità ma solo della c.d. “riserva di appello” (per le medesime esigenze acceleratorie appena evidenziate).

Ai sensi dell'art. 4 co. 12 legge n. 898 del 1970, infatti, «Nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all'articolo 10».

Quanto poi al fatto che la sentenza d'appello intervenuta tra i coniugi stigmatizzasse l'impugnazione come pretestuosa e «strumentalmente volta a conseguire quell'effetto dilatorio e, quindi, quel danno al diritto della parte ad una rapida pronuncia sullo status che la norma ha inteso evitare» (con conseguente condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 co. 3 c.p.c. in favore del marito), la sentenza in commento:

- da un lato, ha rilevato che la corte d'appello aveva inteso sanzionare «l'abuso del diritto al processo da parte dell'appellante con corrispettivo danno dell'appellato nel giudizio di divorzio per essere stato leso il suo diritto ad una celere definizione sullo status di “divorziato”»;

- dall'altro lato, però, ha ritenuto che la condotta della convenuta, costituiva pur sempre l'esercizio di un diritto. Con la conseguenza che la stessa non poteva di per sé qualificarsi come «illecita e, quindi, produttiva di danni anche nei confronti dei terzi (qual è l'odierna attrice, che assume in sintesi che dalla proposizione dei mezzi di impugnazione da parte della convenuta sia conseguita la lesione del suo diritto ex art. 29 Cost. alla tutela e all'integrità della sfera familiare)».

Con riguardo poi alla seconda questione affrontata dalla sentenza in esame, circa la «sussistenza dell'“ingiustizia” o della configurabilità della lesione del “diritto”, o meglio della lesione di un interesse protetto», il Tribunale l'ha esclusa ritenendo che la «selezione, da parte del legislatore o dell'interprete mediante l'interpretazione c.d. costituzionalmente orientata delle norme, degli interessi dalla cui lesione consegue il danno patrimoniale o non patrimoniale, non può contemplare un asserito diritto ex art. 29 Cost. alla tutela e all'integrità della sua sfera familiare, segnatamente il diritto a divenire la moglie di un soggetto con quanto ne consegue in ordine allo status economico (e, forse, al riconoscimento sociale, considerato che il matrimonio religioso è stato pacificamente celebrato)».

In particolare, ad avviso del Tribunale i precedenti giurisprudenziali che ancorano all'art. 29 Cost., il diritto al risarcimento riguardano solo il «definitivo pregiudizio a una posta attiva nel “patrimonio” dei diritti della persona, e non a qualcosa che, in tale patrimonio, non è mai esistita». In altre parole, il giudicante ritiene che nel nostro ordinamento non vi sia un «astratto diritto inviolabile alla tutela e all'integrità della propria sfera familiare consistente in, e conseguibile mediante, la contrazione del matrimonio (con i suoi “vantaggi”) con un certo soggetto».

Fermo restando che nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che neppure potesse invocarsi una qualche violazione dell'art. 2 Cost. considerato che parte attrice aveva potuto vivere con il suo compagno una relazione di fatto coronata da un matrimonio religioso, cosicché non poteva «dirsi leso un ipotetico diritto alla piena realizzazione dell'esistenza come esplicazione della propria personalità ex art. 2 Cost.)».

Osservazioni

La particolarità del caso oggetto della sentenza in commento, sul quale non si rinvengono precedenti giurisprudenziali in termini, merita qualche breve osservazione di approfondimento sul tema dell'esistenza del diritto a contrarre matrimonio.

In particolare, il dibattito sull'esistenza, o meno, di un diritto inviolabile al matrimonio ha riguardato soprattutto questioni di regolamentazione ed ingerenza del potere pubblico nell'ambito di tale libertà, per quanto concerne il diritto a contrarre matrimonio delle coppie omosessuali e dei cittadini extracomunitari entrati irregolarmente in Italia. Si rinvia sul punto alle decisioni: C. Cost. n. 138/2010, che sulla vexata quaestio del diritto al matrimonio delle coppie omosessuali ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 3 e 29; e C. Cost. n. 245/2021, la quale si è espressa a favore della configurabilità del diritto a sposarsi - inteso quale diritto inviolabile dell'essere umano in quanto tale - anche per lo straniero “clandestino”, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 116, comma 1, c.c., limitatamente all'inciso «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».

Il caso di specie invece, non ha riguardato una qualche forma di ingerenza da parte delle autorità pubbliche, ma concerneva una questione che coinvolgeva unicamente soggetti privati: parte attrice riteneva che dalla proposizione dei mezzi di impugnazione da parte della convenuta nel giudizio di divorzio, fosse conseguita la lesione del suo personale diritto ex art. 29 Cost. alla tutela e all'integrità della sfera familiare, con conseguente diritto al risarcimento dei danni asseritamente subiti, anche con riferimento al mancato conseguimento di uno status economico.

Tesi che, come si è visto al paragrafo che precede, non ha trovato accoglimento sul presupposto dell'insussistenza di un astratto diritto inviolabile alla tutela e all'integrità della propria sfera familiare consistente, e conseguibile grazie alla contrazione del matrimonio (con i “vantaggi” che ne derivano) con un certo soggetto.

Da ultimo, la domanda risarcitoria da lesione del «diritto all'identità personale, all'onore e alla reputazione», è stata rigettata sulla base della duplice assenza di prova sia della lesività delle condotte asseritamente lesive poste in essere dalla convenuta (ad avviso del Tribunale le dichiarazioni indicate come lesive erano generiche e non contestualizzate neppure temporalmente), che dei danni.

Sul punto si osserva che in caso di lesione dei diritti della personalità, la giurisprudenza consolidata da tempo statuisce che sulla parte che si asserisce lesa, grava l'onere di provare (ex artt. 2043 e 2697 c.c.) i fatti che costituiscono il fondamento della sua azione sotto il profilo della sussistenza di un nesso di causalità – immediata e diretta - tra l'azione (o l'omissione) ed il danno ingiusto conseguito, nonché dell'imputabilità soggettiva dello stesso.

Inoltre, proprio a partire dall'insegnamento delle sopra richiamate sentenze di San Martino (alle quali viene date uniforme applicazione - cfr. tra le più recenti richiamate anche dalla sentenza in commento Cass. civ. n. 8861/2021 e Cass. civ., n. 25420/2017), il danno - anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona - non è mai in re ipsa, ma costituisce danno conseguenza che deve essere sempre allegato e provato, anche eventualmente ricorrendo alla prova presuntiva.

Anzi, proprio con riferimento alla prova presuntiva, la giurisprudenza ritiene che attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (ex multis: Cass. civ. n. 1281/2019 Cass. civ., n. 7594/2018).

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