Le questioni trattate nella sentenza in esame hanno una valenza di carattere meramente amministrativo, poiché il nucleo della materia del contendere riguardava l'ordine di demolizione contenuto in un'ordinanza comunale e riferito ad interventi, effettuati su di una proprietà privata, che mutavano, o presumibilmente avrebbero nel futuro mutato, la destinazione d'uso del lastrico solare in superficie residenziale. La sentenza, tuttavia, offre lo spunto per alcune riflessioni sugli effetti che tali interventi possono avere in àmbito condominiale, poiché anche se la fattispecie - come rilevato - ha operato solo per il profilo amministrativo vi possono essere sempre ricadute sul condominio, anche considerando che la problematica del mutamento della destinazione d'uso, con riferimento alle parti comuni, ha trovato regolamentazione nell'art. 1117-ter c.c.
Quando si parla di mutamento o cambio della destinazione d'uso di un immobile o di parte di esso, ci si riferisce ad una situazione che interessa il profilo urbanistico e catastale, indicando l'espressione che il bene viene utilizzato con finalità diverse da quelle allo stesso impresse originariamente. A tal fine basta fare riferimento all'art. 23-ter di cui al d.P.R. n. 380/2001 - ivi aggiunto dall'art. 17, lett. n) del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, nella l. 11 novembre 2014, n. 164), che ha introdotto la fattispecie legislativa di “mutamento d'uso urbanisticamente rilevante” che, fatte salve le diverse previsioni da parte delle leggi regionali, ha per oggetto ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, ma tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale, come derivante dalla documentazione amministrativa che attesta lo stato legittimo degli immobili: più precisamente il titolo abilitativo (art. 9 bis d.P.R. n. 380/2001).
Va, peraltro, evidenziato che il Testo unico dell'edilizia aveva già strettamente collegato la liceità di determinati interventi edilizi al mantenimento dell'originaria destinazione d'uso, come nel caso della definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, diquelli necessari per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici (art. 3, lett. b), che sono semplicemente tali a condizione che non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d'uso ed un incremento del carico urbanistico.
La variazione della destinazione d'uso si può conseguire senza la realizzazione di opere (Cass. civ., sez. II, 26 maggio 2006, n. 12654) oppure, come nel caso in esame, tramite l'esecuzione di lavori che indichino, con alto tasso di possibilità, che la destinazione dell'immobile subisca un differente utilizzo. Nel caso portato all'esame del Consiglio di Stato, era stato ritenuto evidente che l'entità e la modalità esecutiva degli interventi avevano trasformato il lastrico solare in un quid novi rispetto alla sua funzione naturale di copertura dell'edificio: ovvero una calpestabilità limitata all'attività di manutenzione della sua superficie o delle strutture ed impianti ivi collocati.
Con particolare riferimento al mutamento della destinazione d'uso delle parti esclusive, la sola norma di riferimento è l'art. 1122 c.c. che, sancendo i limiti per l'esecuzione di opere su parti di proprietà o uso individuale - danno alle parti comuni, pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio - non contempla espressamente la modifica de qua. L'assenza di uno specifico divieto in questo senso, tuttavia, non esime il giudice dal verificare se il mutamento della destinazione abbia comportato la violazione dei limiti contenuti nella norma richiamata, con la conseguente inibizione della nuova destinazione (Cass. civ., sez. II, 27 ottobre 2011, n. 22428).
Le disposizioni di rango amministrativo, che disciplinano il rispetto delle destinazioni d'uso sotto il profilo edilizio/urbanistico, si incontrano ma non si scontrano con le disposizioni civilistiche, che sono il denominatore comune per differenti fattispecie normative.
Infatti, l'art. 1102 c.c., nel consentire che ciascun partecipante si può servire della cosa comune pone come primo limite il rispetto della destinazione che non può essere alterata, divenendo altrimenti illecito l'uso del bene. Il criterio per determinare tale alterazione - secondo la giurisprudenza - si fonda su elementi economici, quali gli interessi collettivi appagabili con l'uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa. In particolare, in mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria circa l'uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione ex art. 1102 citato, può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini e, cioè, dall'uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (Cass. civ., sez. II, 28 agosto 2020, n. 18038).
Vi è, poi, l'art. 1120 c.c. il quale, pur non considerando il mantenimento della destinazione d'uso del bene comune elemento indispensabile per la legittimità dell'innovazione (ultimo comma), con riferimento alla installazione di impianti centralizzati per la ricezione radio-tv e similari, per escludere gli stessi dal novero delle innovazioni da assumere con un quorum agevolato di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., prende in considerazione la modifica che sia in grado di alterare la destinazione della cosa comune.
La vera novità introdotta dalla l. n. 220/2012 di riforma del condominio, infine, consiste nell'aver previsto una fattispecie specifica in tema di destinazione d'uso. Con l'art. 1117-ter c.c., infatti, si prevede che, quando si prospetti un'esigenza di interesse collettivo, i condomini, con la maggioranza dei voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio ed i quattro quinti del valore dell'edificio, possono modificare la destinazione d'uso delle parti comuni, ma sempre con il limite del pregiudizio alla stabilita o alla sicurezza dell'edificio, nonché nel rispetto del decoro architettonico. Un tema, questo, piuttosto delicato perché nel passato si era sostenuto che per tale atto era necessaria l'unanimità dei consensi, dal momento che il bene comune, con il mutamento della sua destinazione, perdeva la sua originaria funzione per trasformarsi, quanto a finalità, in un quid novi che sottraeva ai condomini la possibilità di utilizzarlo per quel preciso scopo per il quale il bene stesso era stato concepito.
L'espressione “esigenza d'interesse condominiale” è palesemente generica comportando, inevitabilmente, un accertamento da parte del giudice in merito alla sussistenza di un presupposto che conferisce validità alla delibera assembleare adottata con la maggioranza indicata dall'art. 1117-ter c.c. In questo caso, infatti, l'autorità giudiziaria, senza sovrapporsi al potere discrezionale dell'assemblea (Cass. civ., sez. VI/II, 25 febbraio 2020, n. 2561; Cass. civ., sez. II, 13 maggio 2022, n. 15320) e senza sconfinare nell'eccesso di potere, si limita ad un riscontro di legittimità della decisione rispetto all'osservanza di una norma di legge.