La sentenza in esame offre una riflessione sui presupposti della risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore.
Il giudice, infatti, è chiamato a valutare la gravità dell'inadempimento non solo avendo a riguardo al mancato assolvimento delle obbligazioni di pagamento del canone e delle somme dovute a titolo di spese accessorie, circostanze peraltro pacifiche, documentate, non contestate, ma anche in base al contenuto dello stesso contratto di locazione che, nel caso di specie, contiene sia una clausola solve et repete sia una clausola risolutiva espressa.
Vediamole nel dettaglio.
Nell'àmbito dei contratti a prestazioni corrispettive, il principio della corrispettività costituisce la regola generale: una parte può rifiutare la propria prestazione se l'altra parte non adempie la sua (il principio dell'inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 c.c.).
Questo principio viene stabilito certamente nell'interesse delle parti che possono, perciò, anche rinunciarvi e non necessariamente far valere detto principio in caso di un inadempimento avverso.
Invece, una delle parti può anche salvaguardare i propri interessi inserendo nel contratto una particolare protezione ai fini dell'adempimento della prestazione ex adverso dedotta, mediante la clausola solve et repetein deroga al principio di corrispettività.
Quindi, approvando tale clausola, l'obbligato rinuncia al diritto di opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione da lui dovuta, salva la facoltà di proporle solo dopo aver eseguito la propria prestazione e di ripetere eventualmente quanto risultasse non dovuto.
Detta clausola viene definita, giustappunto, dal codice civile all'art. 1462 come una “clausola limitativa della proponibilità di eccezioni” ed è regolata nella sezione dedicata alla risoluzione per inadempimento, come l'exceptio inadimpleti contractus.
Il Tribunale veronese precisa chiaramente in motivazione che la clausola in oggetto deve essere intesa proprio come una rinuncia concordata fra le parti all'exceptio inadimpleti contractus legittimando la parte adempiente ad ottenere una pronuncia di condanna - senza esame (e con riserva) delle eccezioni del convenuto - in tutti i casi in cui l'esistenza e persistenza del credito sia pacifica e il convenuto adduca il mancato o inesatto adempimento dell'altra parte.
Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, viene apoditticamente affermato che: “La disciplina del solve et repete (art. 1462 c.c.), se ha indubbie conseguenze nel campo del processo, ha, però, un contenuto fondamentale di diritto sostanziale, come è reso manifesto non solo dalla collocazione della norma nel codice civile, ma soprattutto dagli interessi che essa tutela (assicurare al creditore il soddisfacimento della sua pretesa, senza il ritardo imposto dall'esame delle eccezioni del debitore). Il preventivo adempimento non può essere perciò considerato come un presupposto processuale, la cui mancanza impedisca l'instaurazione di un regolare rapporto processuale e non possa essere rimossa nel corso del processo stesso. La clausola limitativa di cui all'art. 1462 c.c., pertanto, è destinata ad operare solo sul piano dell'adempimento, cosicché non può rinvenirsi alcun ostacolo all'esame dell'eccezione o della domanda riconvenzionale, quando, sia pure in corso di giudizio (nella specie nel corso dell'opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal debitore), sia avvenuto il soddisfacimento della prestazione” (Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 1995, n. 2227)
Secondariamente, il Tribunale scaligero menziona la presenza nel contratto di una clausola risolutiva espressa, in forza della quale le parti possono convenire che un certo inadempimento possa assurgere a motivo risolutivo del contratto, sempreché la parte interessata dichiari che intende avvalersi di essa.
Precisamente, l'art. 1456 c.c. dispone che: “I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all'altra che intende avvalersi della clausola risolutiva”; in termini generali, quindi, la clausola risolutiva espressa è un patto accessorio al contratto principale mediante il quale le parti assumono un determinato inadempimento a condizione risolutiva del contratto.
Per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti devono avere previsto la risoluzione del rapporto per effetto dell'inadempimento di uno o più obbligazioni determinate, costituendo invece una clausola di stile quella che si richiama genericamente all'inadempimento di tutte le obbligazioni contenute nel contratto (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2015, n. 19230; Cass. civ., sez. III, 6 aprile 2001, n. 5147).
Orbene, il giudice di prime cure ha puntualizzato, non senza prestare il fianco a critica, che nonostante la parte attrice non abbia manifestato l'intenzione di valersi proprio della clausola risolutiva espressa per la richiesta risoluzione del contratto, essa può in ogni caso assurgere a parametro per valutare la gravità dell'inadempimento della parte, in questo caso conduttrice, interpretando l'interesse manifestato dalle parti nel contenuto del contratto.
Il Tribunale prosegue così nel ribadire due fondamentali principi di diritto.
Il primo sancisce che la rinuncia ad avvalersi della clausola risolutiva espressa non deve essere una ragione impeditiva al riconoscimento della gravità del mancato adempimento dell'obbligazione richiesta, stante l'importanza originaria che le parti intendono conferire al contenuto di quella particolare obbligazione, inserendola per l'appunto nella clausola medesima (v., ex multis, Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2015, n.18320).
Sempre a detta della Suprema Corte, in una pronuncia più recente anche se afferente ad una situazione in parte differente, è stato affermato che: “nei contratti con prestazioni corrispettive, laddove ciascuna parte è tenuta alla sua prestazione solo in quanto l'altra adempia contemporaneamente la propria, tranne che, o per pattuizione espressa o per la natura del contratto, non sussiste l'esigenza di un diverso regolamento temporale per l'adempimento delle due prestazioni, in caso di denuncia di inadempienze reciproche (come avvenuto nella specie), è necessario comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonchè della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla interpretazione del testo negoziale e sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.” (Cass. civ., sez. II, 13 settembre 2018, n. 22372; conformi Cass. civ., sez. II, 30 maggio 2017, n. 13627; Cass. Civ., sez. III, 1° giugno 2004, n. 10477).
Il secondo principio di diritto consolidato, invece, afferisce ai contratti di durata per i quali, per la valutazione dell'adempimento da parte del giudicante e in presenza di una domanda di parte sul punto (ad esempio, il pagamento dei canoni a scadere sino al rilascio dell'immobile locato), ai fini della pronuncia risolutiva deve ritenersi rilevante anche l'inadempimento protrattosi nel corso del giudizio (Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 2012, n. 18500).
Quindi, con una coerente ed analitica esposizione delle argomentazioni rilevanti per individuare e includere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione oggi in esame, il Tribunale di Verona ha così operato una valutazione comparativa delle reciproche inadempienze, in relazione alla successione logica oltre che cronologica degli accadimenti.
Da ultimo, appurato che la parte conduttrice convenuta si è resa inadempiente in termini contrattuali, per quanto concerne gli importi addebitati a titolo di godimento di una porzione dell'immobile locato, in motivazione si legge che, pur essendo frutto di una intesa fra le parti, non essendo detto accordo trasfuso in un contratto scritto e registrato, esso è da intendersi nullo in violazione della norma imperativa prevista dall'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 secondo il quale: “I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti non sono registrati”, con divieto della parte locatrice di trattenere le somme percepite a tale titolo per due ragioni fondamentali.
La prima è l'inapplicabilità dell'art. 2034 c.c. in tema di obbligazione naturali in quanto, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità: “il pagamento effettuato in esecuzione di una pattuizione contrattuale successivamente dichiarata nulla è ripetibile, perché non può qualificarsi come adempimento di un'obbligazione naturale in quanto non è possibile rinvenire il presupposto della spontaneità né quello dell'esecuzione di un dovere morale o sociale” (Cass. civ., sez. I, 27 giugno 2017, n. 15954); la seconda, più pragmatica, è che la parte locatrice non ha comunque proposto nel giudizio la relativa domanda né una richiesta di pagamento di una indennità di occupazione o altra diversa ma comunque riguardante l'utilizzo del cespite.
Queste ultime considerazioni hanno determinato il Tribunale ad accogliere, sia pure parzialmente, la domanda riconvenzionale formulata dalla parte convenuta, condannando parte attrice alla restituzione delle somme versate e non dovute.