In caso di diffamazione mediante Twitter spetta il risarcimento del danno al soggetto leso
03 Luglio 2023
Massima
È infondato affermare che nell'attuale contesto sociale l'utilizzo di un social-network, in particolare Twitter, consentendo di esprimere e condividere brevi ma incisivi messaggi di testo, «imponga una valutazione dei medesimi in modo meno rigoroso quanto al necessario rispetto dei noti limiti che circondano l'esercizio del diritto di critica». Il caso
Un ex Senatore della Repubblica (Tizio) aveva messo in atto una campagna denigratoria su Twitter contro la Consob, con lo scopo di ingenerare nell'opinione pubblica il dubbio che quest'ultima avesse difeso gli interessi di alcuni soggetti vigilati, in collusione con taluni operatori del mercato finanziario colpevoli di gravi illeciti. La Consob ha agito in giudizio per ottenere la condanna di Tizio al risarcimento dei danni da diffamazione. Il Tribunale accoglieva la domanda avanzata dalla Consob diretta ad ottenere la condanna di Tizio al risarcimento dei danni da diffamazione per aver messo in atto una campagna denigratoria mediante comunicati stampa e messaggi su Twitter. Le soluzioni giuridiche
Con l'ordinanza n.13411 la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso proposto da Tizio, ha stabilito che è infondato affermare che nell'attuale contesto sociale l'utilizzo di un social-network, in particolare Twitter, consentendo di esprimere e condividere brevi ma incisivi messaggi di testo, «imponga una valutazione dei medesimi in modo meno rigoroso quanto al necessario rispetto dei noti limiti che circondano l'esercizio del diritto di critica. In particolare, secondo gli Ermellini, «l'uso di una piattaforma come Twitter, o altre equivalenti, implica l'osservanza del limite intrinseco del giudizio che si posta in condivisione, il quale, come ogni giudizio, non può andar disgiunto dal contenuto che lo contraddistingue e dalla forma espressiva, soprattutto perché tradotto in breve messaggio di testo per sua natura assertivo o scarsamente motivato. La Cassazione ha stabilito che “il post su Twitter non esime l'autore dal necessario rispetto della continenza espressiva in quanto non può concretizzare una manifestazione del pensiero irresponsabile solo perché veicolata tramite il mezzo prescelto”. Per la Cassazione è irrilevante il riferimento all'attività politica del ricorrente quale fondamento del diritto di critica poiché, «sebbene consenta il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra i privati, è pur sempre condizionato dal limite della continenza intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse». La giurisprudenza è costante nell'affermare che “l'uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata, […] in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione”. I social non sono equiparati alla stampa ma ai mezzi di pubblicità citati dalla norma penale, in cui rientrano tutti quei sistemi di comunicazione e diffusione - dal fax ai social media – che consentono la trasmissione ad un numero considerevole di soggetti.
Erroneamente si pensa che un post offensivo, che allude ad una persona senza nominarla espressamente, non possa rientrare nella fattispecie di reato. Ebbene, se il soggetto offeso può essere chiaramente identificato sussiste la lesione della reputazione e la condotta lesiva costituisce reato (Cass. 16712/2014). Ad esempio, è stato condannato per diffamazione aggravata l'autore di un post in cui affermava, con linguaggio colorito, che il collega che lo avrebbe sostituito era un raccomandato e aggiungeva altri particolari offensivi sulla moglie. In tal caso la persona offesa non era stata indicata per nome e cognome ma era facilmente individuabile. Secondo la Cassazione, “ai fini dell'integrazione del reato di diffamazione, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dall'indicazione nominativa”. La condotta offensiva, oltre a costituire reato, può dar luogo ad un'azione risarcitoria in ambito civile. Infatti, la persona offesa può costituirsi parte civile nel procedimento penale di diffamazione oppure iniziare una causa civile. In tal caso, dovrà dimostrare di aver subito un pregiudizio alla propria reputazione o all'immagine a causa delle espressioni offensive usate dall'autore del post su Facebook. Si pensi, ad esempio, ad un ristorante screditato sul web che, a causa del post offensivo, riceva delle disdette (danno patrimoniale) o alla giovane donna che deve ricorrere ad uno psicoterapeuta per riprendersi dallo shock del messaggio denigratorio (danno non patrimoniale). Osservazioni
I social rappresentano una piazza virtuale in cui discutere, confrontarsi e scambiare opinioni. Tuttavia, talvolta capita che gli animi si accendano e che volino espressioni colorite. Ebbene, è sbagliato pensare che scrivere su una piattaforma web non comporti alcuna conseguenza, poiché ciascuno è responsabile di quel che dice o scrive. Il reato di diffamazione (art. 595 c.p.) ricorre allorché, consapevolmente, si offenda la reputazione altrui, comunicando con più persone; il reato è aggravato se l'offesa viene arrecata tramite la stampa o con altro mezzo di pubblicità. Quindi, arrecare un'offesa su una pagina Facebook, anche se il profilo è visibile solo agli amici, costituisce diffamazione aggravata. Infatti, se nel profilo si hanno almeno due amici, che possono visionare il post, è integrata la fattispecie di reato. Lo stesso dicasi per frasi contenute in messaggi inviati in gruppi chiusi: se il post è visibile ad almeno due persone, ricorre il reato. Il medesimo discorso vale per i forum o altre piattaforme come Twitter, nel caso qui analizzato. |