Contratto di leasing traslativo e risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore: vecchie questioni sempre recenti
15 Marzo 2024
Massima «La risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore di un contratto di leasing traslativo, concluso anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 1 c. 136 e s., L. 124/2017, è sottoposta all'applicazione analogica dell'art. 1526 c.c., sicché il giudice, ove ritenga che le parti abbiano pattuito una clausola penale, prevedendo, per il caso della menzionata risoluzione, il diritto del concedente di trattenere tutte le rate pagate a titolo di corrispettivo del godimento nonostante il mantenimento della proprietà (c.d. clausola di confisca), ha il potere di ridurre detta penale, in modo da contemperare, secondo equità, il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva di trarre dalla regolare esecuzione del contratto, procedendo alla stima del bene secondo il valore di mercato al momento della restituzione (salvo che non sia stato già venduto o altrimenti allocato, considerando, nel qual caso, i valori conseguiti) e poi detrarre tale valore dalle somme dovute dall'utilizzatore al concedente, con diritto del primo all'eventuale residuo». Il caso La società Alfa adiva il Tribunale di Cassino al fine di ottenere un decreto ingiuntivo con cui intimare:
Avverso il decreto la società e i fideiussori proponevano opposizione, la quale dava luogo ad un giudizio ordinario di cognizione, che si concludeva con la revoca del decreto ingiuntivo. La sentenza emessa a conclusione del giudizio veniva impugnata dalla Società Alfa. La Corte d'Appello accoglieva il gravame e, in riforma della sentenza gravata, riconosceva, da un lato, la debenza di somme a titolo di canoni scaduti ed interessi maturati e la debenza di somme a titolo di penale; dall'altro lato, la rideterminazione degli interessi con espunzione di quelli accertati nel corso del rapporto. La sentenza emessa a conclusione del giudizio di appello veniva impugnata, dinanzi alla Corte di Cassazione, dalla Società Beta e dai fideiussori Tizio e Caio. I ricorrenti lamentavano:
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso, dichiarando inammissibile per due ordini di ragioni: la prima si rinviene nel fatto che la clausola penale inserita in un contratto di leasing traslativo è legittima se, in caso di risoluzione, permette al concedente di ricevere non più di quanto egli avrebbe ottenuto dalla regolare esecuzione del contratto. La seconda, invece, risiede nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma di interpretazione autentica della L. 108/1996 attribuisce rilevanza, ai fini della qualificazione del tasso convenzionale come usurario al momento della pattuizione dello stesso e non al momento del pagamento degli interessi; cosicché deve escludersi che il meccanismo dei tassi soglia previsto dalla legge sia applicabile alle pattuizioni di interessi stipulate in data precedente la sua entrata in vigore anche se riferite a rapporti ancora in corso a tale data (Cass. SU 19 ottobre 2017 n. 24675). Le questioni La pronuncia in commento pone tre ordini di questioni.
Le soluzioni giuridiche Con riguardo al contratto di leasing, a partire dalla fine degli anni '80, la giurisprudenza di legittimità ha effettuato una distinzione tra il leasing c.d. di godimento e il leasing c.d. traslativo (Cass. 13 dicembre 1989 n. 5569, 5570, 5571, 5572, 5573, 5574). Il primo (leasing di godimento) corrispondente alla figura tradizionale di leasing finanziario, ha una funzione di finanziamento a scopo di godimento del bene oggetto del contratto. Bene che, essendo strumentale all'esercizio dell'impresa dell'utilizzatore nonché munito di una potenzialità economica corrispondente alla durata del rapporto negoziale, conserva alla scadenza del contratto un esiguo valore economico, tendenzialmente coincidente con il prezzo d'opzione. Per tale ragione, renderebbe l'esercizio di quest'ultima marginale, valorizzando nei canoni versati la funzione di corrispettivo del godimento della cosa. La figura del c.d. leasing traslativo, invece, ricorrente nel caso in cui oggetto del contratto siano beni standardizzati di natura durevole ovvero macchinari ed impianti strumentali non soggetti a rapida obsolescenza, sarebbe connotata da un profilo funzionale del tutto diverso. Essendo tali beni destinati a conservare al termine del rapporto un valore apprezzabile e di gran lunga superiore al prezzo d'opzione, risulterebbe in essa di fatto “necessitato” il trasferimento finale della proprietà della cosa. Trasferimento che caratterizzerebbe in modo determinante la funzione stessa del contratto, portando ad individuare nella misura pattuita per i canoni dovuti dall'utilizzatore anche una quota di prezzo della futura cessione del bene. Alla descritta bipartizione venne attribuita dalla giurisprudenza una rilevanza centrale ai fini della concreta individuazione della disciplina applicabile per il caso di risoluzione del contratto a causa dell'inadempimento dell'utilizzatore, giungendo a soluzioni differenti a seconda della tipologia di figura contrattuale ricorrente. Più precisamente, al leasing di godimento, in quanto contratto di durata, si riteneva applicabile la regola della non estensione dell'effetto risolutorio alle prestazioni già eseguite (e, dunque, ai canoni già pagati) dettata per i contratti ad esecuzione continuata o periodica dall'art. 1458 c. 1 c.c.; diversamente, al leasing traslativo, assimilato per la funzione in esso rinvenuta ad una vendita con riserva di proprietà, si faceva applicazione analogica della norma di cui all'art. 1526 c.c., con conseguente obbligo per il concedente di restituire i canoni già percepiti, salvo il diritto ad un equo compenso, oltre al risarcimento del danno. A seguito dell'entrata in vigore della L. 124/2017 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza) detta distinzione sembrerebbe superata: con l'art. 1 c. 136-140 il legislatore ha introdotto nell'ordinamento una serie di disposizioni in materia di locazione finanziaria, conferendo al contratto in esame una disciplina unitaria. Importanza centrale all'interno del plesso normativo introdotto nel 2017 riveste la regolamentazione della risoluzione del contratto a seguito dell'inadempimento dell'utilizzatore per mancato pagamento dei canoni: si prevede, infatti, che il concedente può pretendere non un equo compenso, ai sensi della previgente disciplina di riferimento di cui all'art. 1526 c.c., bensì di trattenere i canoni pagati, richiedendo il pagamento di quelli scaduti e in scadenza, ferma restando in ogni caso la possibilità di esercitare il diritto di opzione. L'evoluzione normativa ha sollevato un dibattito in seno alla dottrina e alla giurisprudenza circa l'ampiezza del campo applicativo intertemporale della Legge annuale sul mercato e la concorrenza in materia di leasing. Sul punto sono, dunque, state chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite che hanno risolto la questione nel senso che «La L. 124/2017 (art. 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i presupposti della risoluzione per l'inadempimento dell'utilizzatore (previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicché, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell'utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per quest'ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all'art. 1526 c.c. e non quella dettata dall'art. 72-quater L.Fall., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all'analogia legis, né essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione retroattiva della legge n. 124/2017» (Cass. 28 gennaio 2021 n. 2061). Ciò posto, tra i meccanismi di tutela dell'interesse del concedente che si concentrano sul piano finanziario (rimborso del capitale, pagamento degli interessi ed ottenimento dell'utile dell'operazione) appare decisivo il rimedio del risarcimento del danno. Seguendo le indicazioni emergenti dalla larga prassi contrattuale, le stesse Sezioni Unite poc'anzi richiamate hanno individuato lo strumento elettivo di tale intervento nella stipulazione di clausole penali per l'ipotesi dell'inadempimento dell'utilizzatore e, all'interno di tale categoria, delle c.d. clausole di acquisizione delle rate (anche dette «clausole di confisca»), previste espressamente dall'art. 1526 c. 2 c.c. In considerazione dell'evidente analogia tra tali tipi di clausole e la penale, già la Relazione Ministeriale al codice civile, n. 673, osservava che «quando le parti abbiano preventivamente liquidato il danno in misura uguale all'importo delle rate pagate, è riconosciuto al giudice il potere di ridurre l'indennizzo convenzionale a somiglianza di quanto è disposto, per la penale eccessiva, dall'art. 1384 c.c.». Si avverte, infatti, il pericolo che, avvalendosi di simili patti, il concedente possa ottenere dall'inadempimento del contratto più di quanto potrebbe conseguire dalla sua regolare esecuzione. Contro tale pericolo può, pertanto, essere invocato il menzionato potere di riduzione equitativa della clausola di confisca/penale previsto dall'art. 1526 c. 2° c.c., ogni qual volta che la misura del risarcimento determinata in via preventiva sia manifestamente eccessiva in ragione dello scarto tra la previsione negoziale ed il legittimo margine di guadagno ritraibile dall'applicazione della stessa. In tale eventualità andrà preventivamente stimato il valore di mercato del bene al momento della restituzione, qualora lo stesso non sia stato ancora venduto, ovvero dovrà essere assunto a base di calcolo il prezzo o corrispettivo della vendita o della diversa collocazione del cespite. Ferma la irripetibilità dei canoni già riscossi, il giudice dovrà poi detrarre dalle somme dovute al concedente questo valore, attribuendo l'eccedenza all'utilizzatore. Ne consegue, in definitiva, che l'applicazione dell'art. 1526 c.c. non è incompatibile con la previsione contrattuale di una clausola penale sussistendo l'unico limite che la stessa non attribuisca al concedente più di quanto egli avrebbe ottenuto dalla regolare esecuzione del contratto. Quanto all'ultima questione affrontata dall'ordinanza in commento, basti rilevare, come correttamente fa la Corte, che anche in questo caso si registra l'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite (Cass. SU 19 ottobre 2017 n. 24675), le quali hanno negato la rilevanza sia civile che penale della c.d. usura sopravvenuta, ritenendosi vincolate in maniera imprescindibile all'interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815 secondo comma c.c., come modificati dalla L. 108/1996, imposta dall'art. 1 c 1 DL 394/2000 che, peraltro, ha superato il vaglio di legittimità della Corte costituzionale. Invero, a seguito dell'entrata in vigore della L. 108/1996 la giurisprudenza di legittimità (Cass. 2 febbraio 2000 n. 1126), in un primo momento, si era orientata in senso favorevole all'applicabilità della stessa anche ai contratti pendenti, limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso. Il legislatore, tuttavia, ritenendo l'applicazione giurisprudenziale corrente non fedele alla lettera della l. 108/1996, è intervenuto con la norma di interpretazione autentica - avente efficacia retroattiva - di cui all'art. 1 c. 1 DL 394/2000, nella quale è stato chiarito che «Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815 c. 2 c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento». La Relazione governativa di accompagnamento del menzionato decreto-legge ha chiarito che l'intento del legislatore è stato quello di escludere radicalmente, non soltanto la possibilità di applicare la legge n. 108 del 1996 ai contratti conclusi prima della sua entrata in vigore, ma anche l'ammissibilità dell'ipotesi di usura sopravvenuta, concernente i contratti stipulati dopo tale data. Esclusa l'applicabilità della L. 108/1996 ai casi di usura sopravvenuta, dunque, il giudizio di usurarietà investe esclusivamente il momento della pattuizione degli interessi (quindi, il tasso soglia vigente al momento della pattuizione degli stessi). Assume preminenza il profilo volontaristico che conduce all'affermazione della responsabilità dell'agente in base al principio di autoresponsabilità contrattuale. Rilievo alcuno è riservato, invece, al successivo momento della corresponsione degli interessi anche nelle ipotesi in cui i detti interessi siano divenuti ultra legali. Osservazioni Le questioni oggetto di esame non sono nuove nel panorama giurisprudenziale. Sull'argomento, infatti, si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte di cassazione. Ciò nonostante, appare utile svolgere qualche considerazione. Come già evidenziato sul tema del contratto di leasing si pongono due ordini di questioni. Quanto al regime intertemporale della L. n. 124/2017, la soluzione adottata dalla giurisprudenza, ormai consolidata, è condivisibile. Le nuove regole, infatti, non godono di efficacia retroattiva per due principali ragioni: in primo luogo, manca una espressa previsione in tal senso; in secondo luogo, l'intervento nel complesso attuato non si riduce alla semplice interpretazione autentica del diritto anteriore ma introduce una disciplina organica del contratto prima assente, al contempo colmando una lacuna dell'ordinamento. Pertanto, in mancanza degli elementi testuali minimi, anche impliciti, necessari per il riconoscimento della retroattività, la Corte bene conclude nell'affermare l'ordinaria efficacia per il futuro dello ius superveniens. D'altronde, l'assenza di una specifica disciplina transitoria comporta, per i contratti di locazione finanziaria in corso alla data di entrata in vigore delle nuove norme, la necessità di risolvere le relative tematiche mediante il rinvio ai principi generali sulla successione delle leggi nel tempo e, tra questi, al principio del fatto compiuto nella elaborazione offertane dalla giurisprudenza. Nell'applicare tali regole generali, dovranno essere valutate la indubbia natura di contratto di durata del leasing e la sua idoneità ad essere inciso dalla normativa sopravvenuta. Combinando gli uni e gli altri, quindi, ne discende che sarà consentita l'applicazione della nuova legge ai contratti anteriori, ad una duplice condizione: il rapporto de quo dovrà, da un canto, essere sussumibile nella nuova nozione di locazione finanziaria introdotta dall'art. 1 c. 136 L. 124/2017 presentandone i requisiti reputati essenziali; e, dall'altro, nella esecuzione del contratto non dovranno essersi verificati, prima dell'emanazione delle nuove norme, i presupposti, legali o contrattuali, della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, da identificare come il fatto generatore degli effetti giuridici derivanti dal diritto previgente. In altri termini, il fatto compiuto determinante l'applicazione del nuovo diritto ai contratti anteriori sarà rappresentato dall'inadempimento del debitore: ove già manifestatosi prima della data di entrata in vigore, imporrà di sottoporre il rapporto alla disciplina previgente, regolando i diritti delle parti sulla base dell'inquadramento nell'uno o nell'altro dei sottotipi di leasing; qualora successivo, invece, esigerà di fare governo di tale vicenda mediante la nuova disciplina anche per i contratti anteriori. Come illustrato, al caso in commento, essendo i presupposti della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore verificatisi prima della entrata in vigore della l. n. 124/2017, non può che applicarsi la disciplina che, nel distinguere tra sottotipi del leasing, per quello c.d. traslativo rinvia all'art. 1526 c.c. Sul punto, non manca chi ha evidenziato le criticità di detta applicazione analogica. Già prima della ricostruzione inaugurata dalla Corte di Cassazione nel 1989 con la serie di pronunce gemelle richiamate, si era affermato un diverso orientamento che, individuando nella locazione finanziaria una figura contrattuale atipica caratterizzata da una autonoma identità causale non consistente «nell'acquisto della proprietà di un bene con una particolare agevolazione nel pagamento del prezzo, bensì in un finanziamento per l'acquisto della disponibilità immediata di quel bene» verso il rimborso rateale da parte del lessee (utilizzatore) della somma finanziata maggiorata di interessi e remunerazione del capitale (Cass. 6 maggio 1986 n. 3023), aveva rimarcato l'assoluta distinzione ed inconciliabilità fra gli schemi causali del leasing finanziario, da una parte, e della vendita con riserva di proprietà, dall'altra, e conseguentemente escluso l'applicabilità, anche in via analogica, al primo della norma di cui all'art. 1526 c.c. Anche in dottrina sono state mosse molteplici obiezioni all'impostazione giurisprudenziale che distingue tra sottotipi di leasing: più precisamente, è stata sottolineata l'inappropriatezza dell'operata bipartizione, tra leasing di godimento e leasing traslativo, tanto in relazione alla conferenza dei criteri discretivi e qualificatori all'uopo individuati dai giudici, quanto con riferimento alla sua discutibile capacità di rispondere alle concrete esigenze di tutela dei soggetti coinvolti alla luce degli interessi dagli stessi dedotti nell'operazione. Il lessor (concedente) è indifferente al bene oggetto dell'operazione: l'intermediario finanziario non solo non ha scelto la cosa e non ha alcun interesse al suo utilizzo diretto, ma spesso non possiede neanche una struttura organizzativa idonea a garantirne una rapida ricollocazione sul mercato. È, dunque, chiaro come il recupero del bene seguito all'inadempimento dell'utilizzatore, per quanto verificatosi anzitempo con conseguente mantenimento di un apprezzabile valore da parte del medesimo bene, non possa ritenersi comportare di per sé la soddisfazione, totale o parziale, dell'interesse contrattuale facente capo al lessor, il cui interesse è fondamentalmente rivolto all'integrale rientro rispetto al complessivo esborso finanziario sostenuto da tale soggetto e alla remunerazione dell'investimento effettuato, a prescindere, dall'eventuale finale ritorno della cosa nella sfera del concedente in conseguenza del mancato esercizio dell'opzione da parte dell'utilizzatore. Il recupero del bene, dunque, di per sé non potrebbe ritenersi contribuire alla soddisfazione dell'interesse contrattuale del concedente a meno che, attraverso la sua effettiva riallocazione sul mercato, il medesimo non riesca a rientrare in tutto o in parte del finanziamento concesso. Va, tuttavia, rilevato che il principale obiettivo perseguito dai giudici, nell'operare la criticata bipartizione e nel ritenere conseguentemente applicabile alle ipotesi di leasing traslativo l'art. 1526 c.c., risiede nel porre rimedio al pericolo di una indebita locupletazione del concedente; pericolo ritenuto insito nelle ricorrenti clausole di confisca, volte a riconoscere allo stesso concedente, nell'ipotesi di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, il diritto a cumulare la anticipata restituzione del bene con il trattenimento delle rate già riscosse, nonché spesso anche con il pagamento di tutti o parte dei canoni a scadere. Ma se, come appena precisato, il concedente verosimilmente non ha alcun interesse al bene oggetto dell'operazione, il rischio di un indebito ed iniquo arricchimento del lessor rispetto alla sua originaria prospettiva di profitto, derivante dal cumulo dell'anticipata restituzione della cosa con il trattenimento dei canoni percepiti e di quelli a scadere, potrà essere paventato solo per il caso in cui tale soggetto riesca a ricollocare il bene sul mercato recuperando in tal modo totalmente o in parte l'esborso finanziario sostenuto, non potendosi in caso contrario ritenere che dalla sola restituzione della res e del suo valore economico derivi una soddisfazione, anche parziale, dell'interesse contrattuale del concedente. In definitiva, emerge una dissonanza tra la disciplina incentrata su un effetto restitutorio collegato allo scioglimento di un contratto di scambio connotato da una funzione traslativa e una situazione in cui, alla luce degli interessi sottesi al contratto di locazione finanziaria e dei tratti causali caratterizzanti la medesima, risultano diverse esigenze di tutela. Nella vendita con riserva di proprietà, nel caso di inadempimento dell'acquirente, il venditore normalmente soddisfa il suo principale interesse con il rientro nella propria sfera del bene. Diversamente, per il concedente, che a causa dell'inadempimento dell'altra parte ha ottenuto il recupero del bene, l'obbligo di restituzione dei canoni ricevuti mortifica il suo concreto interesse oggettivizzato nell'operazione economica di cui è parte. Le criticità evidenziate hanno trovato spontanea soluzione nella prassi contrattuale. Invero, il rimedio che più appropriatamente soddisfa gli interessi delle parti si rinviene nella corretta quantificazione del danno da risoluzione subito dal concedente a causa dell'inadempimento dell'utilizzatore. Sono sempre più frequenti nei contratti di leasing le clausole negoziali c.d. di confisca che, prendendo le mosse da una giusta considerazione degli interessi sintetizzati nella negoziazione dalle parti, consentono al lessor di conseguire il rimborso di tutto il credito residuo (risultato che sarebbe stato ottenuto se il contratto avesse avuto regolare esecuzione) con deduzione, tuttavia, di quanto eventualmente ricavato a seguito della vendita o della diversa allocazione sul mercato del bene recuperato e, nel caso, con conseguente riduzione ex art. 1384 c.c. della clausola penale che risultasse manifestamente eccessiva.
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