Limiti al diritto del paziente di rifiutare le cure: presupposti per l'applicazione del concorso colposo
27 Maggio 2024
Massima A fronte di un rifiuto ingiustificato al trattamento medico, poiché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici, può configurarsi un concorso colposo del paziente creditore a norma dell’art. 1227, comma 2, c.c., qualora emerga che il completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico dapprima compiutamente consentito. Il caso La causa ha ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti a procedura chirurgica in relazione alla quale, attraverso la consulenza tecnica d'ufficio espletata, erano emersi elementi di malpractice medica. Il Tribunale accoglieva la domanda attorea condannando la società e il chirurgo operatore, in solido e in misura paritetica, al risarcimento dei danni accertati in favore della paziente e del coniuge, intervenuto volontariamente in giudizio. Era adìta la Corte di appello, che escludeva solo la personalizzazione del danno ritenuta non provata, mentre confermava per il resto la decisione di prima istanza. In particolare, per il giudice del gravame non poteva avere incidenza, in termini di preteso aggravamento o mancata riduzione del danno, il diniego della paziente a sottoporsi a un'ulteriore intervento chirurgico riparatore, posto il legittimo rifiuto di affidarsi a un medico nei confronti del quale aveva perso la fiducia e alla luce del fatto che la risolutività di tale intervento era affermazione apodittica, non dimostrabile a mezzo dell'inammissibile produzione della consulenza di parte in appello. La decisione di secondo grado veniva impugnata con ricorso per cassazione dal medico: resistevano la paziente e il coniuge con controricorso e contestuale ricorso incidentale; la società aderiva alla pressoché totalità dei motivi di appello principale, proponendo due motivi di ricorso incidentale. Per quanto qui rileva, con il terzo motivo di ricorso principale era prospettata la violazione e falsa applicazione dell'art. 1227, comma 2, c.c., sostenendo che la Corte territoriale avesse errato nel non considerare che l'intervento rifiutato dalla paziente era indicato, in letteratura medica, come completamento del percorso clinico nonché, dal consulente giudiziario, come assolutamente possibile, e avrebbe potuto condurre alla guarigione o, in ogni caso, alla riduzione dei postumi permanenti che tali non potevano valutarsi, in quanto non oggettivamente insuscettibili di regressione, per cui l'ingiustificato rifiuto di sottoporsi al suddetto intervento integrava un concorso colposo della paziente creditrice. La questione Ha il paziente diritto di rifiutare le cure? Che cosa accade in caso di rifiuto ingiustificato? Le soluzioni giuridiche La Corte di legittimità ha ritenuto il terzo motivo in parte inammissibile e, in parte, infondato, confermando la decisione impugnata laddove ha ritenuto non emersa la prova della possibile risolutività dell'ulteriore intervento, alla cui esecuzione la paziente aveva espresso il proprio dissenso. Osservano i Giudici di Piazza Cavour che, «a fronte del decifrabile ragionamento motivazionale della Corte territoriale, in linea con quello del Tribunale», a proposito della mancanza di prova di una possibile efficacia risolutiva del trattamento rifiutato, pur escludendo, erroneamente, che l'ulteriore valutazione potesse fondarsi sulla consulenza di parte prodotta in appello, «la censura non riporta in quali termini (...) sarebbe stata formulata e sostanziata l'allegazione per cui nella letteratura medica l'intervento rifiutato sarebbe stato qualificato come necessario completamento del percorso clinico, né, soprattutto, in quali termini il perito giudiziale ovvero quello di parte avrebbero ritenuto possibile, e con quali margini di rischio e successo, lo stesso intervento». Muovendo da queste considerazioni, la Corte nomofilattica perviene al convincimento che «la censura è sotto questo profilo ancora una volta aspecifica a mente dell'art. 366, n. 6, c.p.c., il paziente (art. 32, comma 2, Cost. ha il diritto di rifiutare il trattamento medico (...) ma se il rifiuto è ingiustificato, perché correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (cfr. Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24522), se ne potranno e dovranno trarre le conseguenze a mente del discusso concorso colposo del creditore dell'obbligazione risarcitoria (art. 1227, comma 2, c.c.), sicché deve emergere che l'affermato completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente, in tesi, compiutamente consentito». Osservazioni L'ordinanza in commento pone l'accento sulla valutazione del comportamento del danneggiato volto a limitare le conseguenze pregiudizievoli dell'altrui condotta illecita o inadempiente. Come sancito in giurisprudenza, «il diritto di rifiutare le cure costituisce un diritto di libertà assoluto, efficace erga omnes, in presenza di una idonea e valida manifestazione di volontà in tal senso» (Cons. St., sez. III, 21 giugno 2017, n. 3058, in Rass. dir. farm. 2017, 5, 1038; v., inoltre, Cons. St. sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, in Rass. dir. farm. 2015, 3, 567, per cui «la concezione soggettiva e dinamica del concreto contenuto del diritto alla salute corrisponda effettivamente all'idea che di sé e della propria dignità, attraverso il perseguimento del proprio benessere, ha il singolo paziente per realizzare pienamente la sua personalità, anzitutto e soprattutto nelle scelte, come quelle di accettare o rifiutare le cure, che possono segnarne il destino»). La Corte di legittimità ha più volte rimarcato come il contenuto concreto del consenso informato sia «la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale» (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Giust. civ. mass. 2007, 10; in senso conforme, Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 11335 e 27 novembre 2013, n. 2347). E così, non spetta al medico «un generale “diritto di curare”, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di “soggezione” su cui il medico potrebbe “ad libitum” intervenire, con il solo limite della propria coscienza» (Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572, in Riv. it. med. leg. 2002, 867, s.m.). Fanno eccezione le ipotesi nelle quali è possibile prescindere dal consenso del paziente, tra cui si segnalano quelle ex artt. 34 e 35 l. n. 833/1978 sul Trattamento Sanitario Obbligatorio, quale «evento straordinario» rivolto alla tutela della persona affetta da disturbi mentali, che può essere disposto «solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso del paziente ad un intervento volontario, e che richiede una specifica procedura, attivata da parte di un medico», che ne verifica e certifica le condizioni necessarie (Cass. civ., sez. III, ord., 11 gennaio 2023, n. 509, in Guida dir. 2023, 3; inoltre, Cass. civ., sez. I, ord. 15 febbraio 2024, n. 4229). Ed ancora, nell'ipotesi di intervento con potenziale rischio emorragico, se il paziente «manifesta un inequivoco dissenso all'esecuzione di trasfusioni di sangue in caso di avveramento di tale rischio, il medico può legittimamente rifiutare l'intervento autorizzato, perché il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; tuttavia, qualora il sanitario opti comunque per l'esecuzione dell'intervento, è tenuto a rispettare il dissenso opposto, diversamente integrandosi la lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente» (Cass. civ, sez. III, 6 settembre 2022, n. 26209, in Giust. civ. mass. 2022). Esistono, comprensibilmente, delicate problematiche per quanto riguarda il consenso informato, in specie di malati gravi o terminali. Nel nostro ordinamento è stata introdotta una legge finalizzata a conferire validità e vincolatività alla volontà espressa anticipatamente sui trattamenti sanitari. Si tratta della l. n. 219/2017, la quale «nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1, comma 1). È sancito il diritto di ogni persona di ricevere informazioni anche sulle «conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi» e, altresì, che è sua facoltà «rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l'eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico» (art. 1, comma 3). Spetta, quindi, ad ogni individuo, capace di agire, «il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, (...) qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso», nonché «il diritto di revocare in qualsiasi momento (...) il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento» (art. 1, comma 5), e il medico deve rispettare tale volontà, andando così esente da responsabilità civile o penale (art. 1, comma 6). La necessità di documentare il rifiuto del paziente è lampante, se solo si considerano le possibili conseguenze, talvolta molto gravi o perfino letali, correlate alla mancata effettuazione degli atti sanitari prospettati dal medico. L'adempimento dell'obbligo informativo ha, sotto questa prospettiva, la finalità di rendere pienamente edotto, anche su tali implicazioni, il paziente al quale, come si è detto, non può essere imposta l'effettuazione né la prosecuzione di un trattamento sanitario se non in casi eccezionali, ma che, opponendo il proprio libero e consapevole rifiuto alla terapia proposta, accetta di rinunciare ai vantaggi specifici ad essa connessi e, al contempo, di esporsi ai potenziali rischi legati alla propria scelta, in termini di aggravamento del quadro clinico o, persino, di epilogo infausto. L'espresso, libero e consapevole rifiuto manifestato dal paziente può avere conseguenze, oltre che sul piano della salute, anche su quello giuridico risarcitorio (da tenere distinta l'ipotesi in cui il paziente non sia stato adeguatamente informato delle ragioni per le quali il trattamento medico sia indicato, né dei potenziali rischi correlati a un suo eventuale rifiuto). Può, difatti, venire in rilievo l'art. 1227 c.c. che, al primo comma, disciplina il concorso del creditore nella produzione del danno, prevedendo una riduzione del risarcimento «secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate», mentre al secondo comma contempla la non risarcibilità delle conseguenze dannose «che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza». La pronuncia in commento si segnala, inoltre, per affrontare il tema della liquidazione del danno alla persona con riferimento ai criteri delle cd. Tabelle milanesi e onere di autosufficienza di cui all'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. (v., in questa rivista, Michele Liguori, Risarcimento del danno al macro leso: le tabelle milanesi costituiscono diritto vivente? ). Riferimenti Luigi Cipolloni, Rossana Cecchi, Il rifiuto della terapia trasfusionale in pazienti testimoni di geova: considerazioni medico-legali su un caso peritale, in Riv. it. med. leg., fasc. 2, 1999, pag. 505 Mariotti Paolo, Caminiti Raffaella, Il punto di approdo della giurisprudenza di legittimità in tema di consenso informato, in IUS Responsabilità Civile, 2 dicembre 2019 Roberto Masoni, Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella l. n. 219/17: l’ultima tappa di un lungo percorso, in Dir. fam., fasc.3, 1 settembre 2018, pag. 1139 Federico Papini, Lucio Marsella, Dottrina e metodologia - Laicità dello stato e rifiuto di trattamenti sanitari per motivi religiosi: un nuovo riconoscimento della cassazione per “medici liberi” di “uomini liberi”, in Riv. it. med. leg., fasc. 4, 1 agosto 2021, pag. 937 Daniele Rodriguez, Il rifiuto delle cure nella prospettiva del codice di deontologia medica: una guida per la pratica clinica?, in Riv. it. med. leg., fasc. 2, 2014, pag. 563 Anna Taruffo, Rifiuto di cure e doveri del medico, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 1, 2008, pag. 437. |