La tassazione dei beni di antiquariato e delle opere d’arte in generale
15 Novembre 2024
Massima Ai fini della qualificazione dei redditi come redditi di impresa per le società commerciali, il riferimento all'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, deve intendersi come esercizio dell'attività in via abituale, cioè non meramente occasionale, che non deve essere necessariamente continuativa, sicché è da considerarsi imprenditore anche colui che svolge un solo affare di non trascurabile rilevanza economica, a seguito dello svolgimento di un'attività che abbia richiesto una pluralità di operazioni. Il caso Con sentenza del 10 giugno 2024, n.291, la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Piemonte si è occupata del caso di alcune persone fisiche che hanno ereditato alcuni beni di antiquariato e per tre anni hanno proceduto a cederli a terzi a titolo oneroso, utilizzando anche il canale di vendita online. In particolare, l'Agenzia delle Entrate ha contestato ai suddetti contribuenti l'esercizio di attività di impresa ex art. 55 TUIR consistente nella cessione di beni di antiquariato. La vicenda traeva origine dall'attività di commercio di articoli di antiquariato esercitata da una persona fisica che, in previsione della cessazione dell'attività, aveva escluso dalla sua attività commerciale numerosi beni, in quel momento scarsamente appetibili, preferendo donarli ai propri familiari quantomeno al fine di conservarne il valore. Detti beni sono stati oggetto di cessione a terzi da parte dei famigliari ricorrenti, che, in qualità di privati non esercenti attività commerciale, non hanno assoggettato le cessioni ad imposizione. L'Ufficio, per parte sua, ha qualificato tali cessioni come avvenute nell'ambito di un'attività commerciale non dichiarata e, conseguentemente, previa attribuzione ex officio di una partita IVA riferita a quell'attività, le ha assoggettate ad imposizione ai fini, sia delle imposte dirette, che di quelle indirette. I giudici piemontesi hanno accolto le doglianze erariali, accogliendo l'appello dell'Agenzia delle Entrate che era risultata soccombente in primo grado. La questione giuridica La Corte di Giustizia del Piemonte prende atto che il TUIR non prevede una normativa specifica sulla tassazione delle compravendite di opere d'arte effettuate dai privati. Precedentemente, l'articolo 76 del d.p.r. n. 597/1973 considerava tassate “senza possibilità di prova contraria (…) l'acquisto e la vendita di oggetti d'arte, di antiquariato e in genere da collezione, se il periodo di tempo intercorrente tra l'acquisto e la vendita non è superiore a due anni” prevedendo che “le plusvalenze conseguite mediante operazioni poste in essere con fini speculativi e non rientranti fra i redditi d'impresa concorrono alla formazione del reddito complessivo per il periodo d'imposta in cui le operazioni si sono concluse”. In altre parole, veniva previsto tassativamente che non vi era alcuna tassazione se l'opera d'arte veniva venduta trascorsi due anni dall'acquisto. Pertanto, allo stato attuale, è necessario distinguere le seguenti tre figure: — va definito come mercante di opere d'arte colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio, anche in maniera non organizzata imprenditorialmente , col fine ultimo di trarre un profitto dall'incremento del valore delle medesime opere; — come speculatore occasionale, si definisce chi acquista occasionalmente opere d'arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile; — collezionista è, infine, chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l'opera, senza l'intento di rivenderla generando una plusvalenza. L'interesse del collezionista è quindi rivolto non tanto al valore economico della res quanto a quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l'interesse all'arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre. Con riguardo alla casistica di cui sopra, il sistema fiscale italiano prevede conseguenze differenti: — per il primo (il mercante d'arte) si è in presenza di redditi d'impresa ex artt. 55 ss. TUIR e di passività ai fini IVA come previsto dall'art. 4 del d.p.r. n. 633/1972; — lo speculatore occasionale potrà generare i redditi diversi di cui all'art. 67 comma 1, lett. i), TUIR non trovando però assoggettamento ai fini IVA per mancanza del requisito dell'abitualità; — il collezionista invece non sarà soggetto ad alcuna imposizione. La soluzione giuridica Come è stato precedentemente riportato, alle persone fisiche è stato contestato di avere esercitato un'attività di impresa. Con riferimento alla qualificazione del soggetto come imprenditore, va rilevato che la legislazione fiscale e quella civilistica non sono coincidenti: l'art. 2082 del c.c. considera imprenditore chi svolge un'attività economica organizzata in modo professionale, mentre l'art. 55 TUIR non richiede il requisito dell'organizzazione, ma la mera professione abituale delle attività di cui all'art. 2195 c.c., anche non svolta in modo esclusivo. È evidente, conseguentemente, che la nozione civilistica e quella tributaristica di "imprenditore commerciale" divergano per un aspetto essenziale, ossia quello della necessità dell'"organizzazione", essendo tale requisito indispensabile per il diritto civile, non indispensabile per quello tributario, ai fini del quale è sufficiente la "professionalità abituale" dell'attività economica, anche senza l'"esclusività" della stessa. Secondo la Corte di Cassazione (pronuncia dell'8 marzo 2023 n. 6874), in tema di redditi d'impresa, il reddito del mercante d'arte — cioè, il soggetto che, a differenza dello speculatore occasionale e del collezionista, professionalmente e abitualmente esercita il commercio delle opere d'arte, ancorché in maniera non organizzata imprenditorialmente, al fine di trarre un profitto dall'incremento del loro valore — va tassato quale reddito d'impresa ex art. 55 del TUIR, poiché, ai fini delle imposte sui redditi, l'esercizio delle attività di cui all' art. 2195 c.c., se abituale, determina sempre la sussistenza di un'impresa commerciale, indipendentemente dall'assetto organizzativo scelto. Tali considerazioni valgono anche con riferimento all'IVA, in quanto l'art. 4 comma 1, del d.p.r. n. 633 del 1972, in tema di IVA — così come l'analogo art. 55 comma 1, del T.U.I.R. — intende come attività di impresa "l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva", delle attività indicate dall'art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa. L'espressione "esercizio per professione abituale" dell'attività va intesa, più semplicemente, come esercizio dell'attività in via abituale, cioè non meramente occasionale. Occorre, cioè, che l'attività sia svolta con caratteri di stabilità e regolarità e che si protragga per un apprezzabile periodo di tempo, pur se non necessariamente con rigorosa continuità (cfr. sentenza della Corte di Cassazione dell'8 aprile 2016, n. 6853). Tali requisiti non sono, pertanto, ravvisabili nel caso di atti isolati di produzione o commercio, anche se non può escludersi la qualità di imprenditore in colui il quale compia un unico affare, di non trascurabile rilevanza economica, a seguito dello svolgimento di un'attività che abbia richiesto una pluralità di operazioni (cfr. sentenza della Corte di cassazione del 10 maggio 1996, n. 4407). Per dimostrare l'esercizio di un'attività imprenditoriale è stato fatto presente che le cessioni da parte dei contribuenti non sono state affatto occasionali, poiché concretatesi in una pluralità (non esigua) di vendite, rivolte a soggetti diversi (anche attraverso canali di vendita on line) e protrattesi per un lungo periodo di tempo (addirittura tre anni). Inoltre, si è sempre trattato di alienazioni a titolo oneroso, di merci pacificamente di vario genere, avvenute per prezzi tutt'altro che trascurabili (per alcune decine di migliaia di euro, complessivamente) e, quindi, significative di un elevato valore dei beni in questione. A ciò si aggiunga che gli attuali ricorrenti sono persone che non risultano affatto estranee al mondo del commercio dell'antiquariato, essendo entrambi soci di una società esercente pacificamente proprio l'attività di "commercio elettronico di mobili ed oggetti, usati e di antiquariato, commercio elettronico di libri usati e d'antiquariato, commercio all'ingrosso di mobili, oggetti, libri, usati e di antiquariato. Sulla base di tali considerazioni, i giudici piemontesi hanno sancito che risulta ampiamente dimostrato l'esercizio da parte delle persone fisiche di una sistematica e professionale attività di commercio, suscettibile di essere sottoposta all'imposizione di cui qui si tratta, a nulla rilevando (come si è visto) la forma attraverso la quale la stessa è stata esercitata. Osservazioni La sentenza della Corte di Giustizia del Piemonte si allinea ai principi sanciti dalla Corte di cassazione. In particolare, con ordinanza del 16 gennaio 2024, n. 1603, la Suprema Corte si è occupata del caso di un soggetto che era stato qualificato dall'Agenzia delle Entrate come mercante di opere d'arte, in quanto aveva professionalmente e abitualmente esercitato il commercio, anche se in maniera non organizzata imprenditorialmente, col fine ultimo di trarre un profitto dall'incremento del valore delle medesime opere. Al contrario, parte contribuente si era difesa, sostenendo che non aveva mai svolto l'attività di compravendita di opere d'arte, avendo sempre agito quale collezionista privato, e che le vendite erano state solo il frutto della dismissione del suo patrimonio. I giudici di legittimità hanno accolto la tesi erariale, sostenendo che, sia ai fini delle imposte dirette che ai fini IVA, un soggetto viene qualificato come imprenditore commerciale se esercita per professione abituale, ancorché non esclusiva, le attività indicate dall'art. 2195, c.c., anche se non organizzate in forma di impresa; e questo prescinde dal requisito organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell'impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l'attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, anche se non esclusiva (Cfr. sentenza della Corte di Cassazione del 13 dicembre 2022 n. 36502). Al fine della suddetta verifica, la Suprema Corte ha rinvenuto un'attività commerciale in presenza simultaneamente della rilevanza dell'investimento e dell'esclusione dell'utilizzo nella sfera personale dei beni oggetto di compravendita (cfr. sentenza della Corte di cassazione del 20 dicembre 2006 n. 27211.). Inoltre, i giudici di legittimità hanno sancito che l'intento speculativo implica necessariamente il riscontro, in concreto, di una serie di atti “intermedi” tra l'acquisto e la vendita, “preordinati” a incrementare il profitto all'atto della cessione (cfr. sentenza della Corte di cassazione del 20 ottobre 2011, n. 21776). Infine, si ricorda che una recente sentenza della Corte di Cassazione, ha ritenuto che ci fosse l'intento speculativo nella vendita di un'importante opera d'arte, in quanto la relativa vendita è stata intermediata da una famosa casa d'aste e la stessa opera è stata concessa in esposizione (che sarebbe servita a valorizzarla economicamente, pur se ascrivibile ad artista già di grande prestigio e notorietà). Inoltre, è stato dato rilievo all'importo della plusvalenza generata e alla molteplicità di operazioni similari compiute nello stesso anno d'imposta e in periodi antecedenti e successivi (cfr. sentenza Cass. 15 luglio 2024, n. 19363). È evidente che la mancanza di una normativa specifica ha comportato una situazione di incertezza sulla corretta tassazione. Per porvi rimedio, e con lo scopo di escludere da imposizione le cessioni nelle quali risulti assente un “intento speculativo”, compresi i casi di plusvalenze relative a beni acquisiti per successione o donazione, l'art. 5 comma 1 lett. h) della l. n. 111/2023 (legge delega di riforma fiscale) prevede l'introduzione di una specifica disciplina riguardante le plusvalenze conseguite, al di fuori dell'esercizio di attività d'impresa, dai collezionisti di oggetti d'arte, di antiquariato o da collezione. In particolare, tale articolo, rubricato in “Principi e criteri direttivi per la revisione del sistema di imposizione sui redditi delle persone fisiche”, prevede l'introduzione tra i redditi diversi “della disciplina sulle plusvalenze conseguite dai collezionisti, al di fuori dell'esercizio dell'attività d'impresa, di oggetti d'arte, di antiquariato o da collezione, nonché, più in generale, di opere dell'ingegno di carattere creativo appartenenti alle arti figurative escludendo i casi in cui è assente l'intento speculativo compresi quelli delle plusvalenze relative ai beni acquisiti per successione e donazione, nonché esonerando i medesimi da ogni forma dichiarativa di carattere patrimoniale”. Al successivo art. 7, comma 1, lett. e) la stessa legge ha delegato il Governo, in materia di imposta sul valore aggiunto, a “ridurre l'aliquota dell'Iva all'importazione di opere d'arte, recependo la direttiva (UE) 2022/542 del Consiglio, del 5 aprile 2022, ed estendendo l'aliquota ridotta anche alle cessioni di oggetti d'arte, di antiquariato o da collezione”. Infine, si ricorda che Assonime, con la “position papers” n. 5/2024, ha avanzato delle proposte di modifica normativa per restituire certezza a contribuenti e Amministrazione finanziaria. In particolare, sull'eventuale rilevanza reddituale delle plusvalenze realizzate dal collezionista privato tramite la cessione di opere d'arte, viene sottolineato che sarebbe opportuno, in sede di attuazione della delega recata dalla legge n. 111 del 2023, fare nuovamente riferimento a dati oggettivi, come avviene peraltro in altri Paesi europei. A tal fine, si potrebbe prevedere che, al di fuori delle attività che configurano reddito di impresa e come già avviene per la tassazione delle plusvalenze da cessione di immobili (art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR), il tempo decorso dall'acquisto – ad esempio, un holding period compreso tra cinque e sette anni – determini tout court l'irrilevanza fiscale della plusvalenza realizzata per effetto della cessione, presumendosi l'assenza di intento speculativo. Oltre a ciò, sempre per ragioni di semplificazione, si potrebbe prevedere l'irrilevanza fiscale delle plusvalenze realizzate per importi inferiori, per periodo d'imposta, a un determinato ammontare minimo: in tal caso, sarebbe l'esiguità dell'importo ad escludere implicitamente l'esistenza di un intento speculativo. Per analoga assenza di intento speculativo dovrebbe essere esclusa, come da espressa previsione della legge delega, la tassazione della plusvalenza da cessione per i beni pervenuti al cedente a titolo gratuito, per successione o donazione. Come sottolineato da parte della dottrina (Antonio Fiorentino Martino e Paolo Scarioni, in Cessione di opere d'arte al test dell'intento speculativo, Milano, 2 ottobre 2024), l'intento speculativo potrebbe non esserci in caso di permuta di opere, o ancora nel caso in cui la cessione generi una plusvalenza che viene poi reinvestita entro un certo termine per acquistare nuovi oggetti d'arte. Dal punto di vista IVA, Assonime, dopo avere riassunto l'attuale normativa, compresa quella del regime del margine che interessa il settore, auspica che vengono abbassate le aliquote e venga modificato il criterio della territorialità per favore il mercato dell'arte. |