La Cassazione ritorna sul danno alla vita di relazione
10 Giugno 2014
Massima
Cass. civ., sez. III, 22 agosto 2013 , n. 19402
“Il danno biologico, il danno morale ed il danno alla vita di relazione rispondono a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo, che può causare, nella vittima e nei suoi familiari, un danno medicalmente accertato, un dolore interiore e un'alterazione della vita quotidiana, sicché il giudice di merito deve valutare tutti gli aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni, ma anche "vuoti" risarcitori, e,, in particolare, per il danno da lesione del rapporto parentale, deve accertare, con onere della prova a carico dei familiari della persona deceduta, se, a seguito del fatto lesivo, si sia determinato nei superstiti uno sconvolgimento delle normali abitudini tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse.” Sintesi del fatto
A seguito di un tragico incidente stradale perdevano la vita quattro dei cinque occupanti un'autovettura che aveva urtato violentemente contro un autoarticolato fermo sulla corsia di sorpasso in un tratto autostradale, penetrando per quasi tutta la lunghezza del rimorchio. Il giudizio civile, promosso, fra gli altri, dai genitori di Tizio, deceduto nel sinistro, si concludeva con una sentenza di condanna che riconosceva un risarcimento di L. 318.762.553 in favore del padre, L. 284.552.315 per la madre, L. 222.706.392 per il fratello Sempronio, ponendo a carico del defunto conducente un concorso di colpa nella misura del 20%. La Corte d'appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata la percentuale di responsabilità a carico del conducente defunto, riconosceva ai genitori di Tizio, l'ulteriore somma di Euro 10.000 ciascuno, a titolo di danno morale per la sofferenza patita a causa dei danni subiti dall'altro figlio, Sempronio, che era sopravvissuto all'incidente, pur riportando gravi conseguenze personali. Avverso la sentenza della Corte d'appello proponevano ricorso i genitori di Tizio nonché Sempronio, in proprio, lamentando che il giudice di secondo grado sarebbe rimasto fermo alle due figure del danno morale e del danno biologico, trascurando di considerare la distinta categoria del danno esistenziale, che trova il proprio riferimento nell'interesse "correlato alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la famiglia". In motivazione « (…omissis…) il danno biologico, il danno morale ed il, danno alla vita di relazione rispondono - per così dire - a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo. In altre parole, un determinato evento può causare, nella persona stessa della vittima come in quelle dei familiari, un danno alla salute medicalmente accertabile, un dolore interiore ed un'alterazione della vita quotidiana; si tratta, all'evidenza, di situazioni diverse ma pure tra loro collegate. Ciò non significa - come si potrebbe essere portati a pensare ragionando in astratto - che il giudice di merito sia tenuto per ciò solo, in via automatica, alla liquidazione di tutte queste singole poste di danno, con un effetto di sommatoria che rischia di riproporre i problemi di duplicazione che la sentenza delle Sezioni Unite ha inteso superare definitivamente; per il danno biologico, ad esempio, deve essere dimostrata la sussistenza di una lesione rilevante da un punto di vista medico (provando che, in conseguenza della morte di un familiare, anche la persona sopravvissuta ha contratto una qualche malattia legata da nesso di causalità con il lutto subito). Il giudice di merito, invece, dovrà dare conto - in rapporto alla domanda giudiziale davanti a lui proposta ed alla luce delle prove raccolte - di aver tenuto presente i diversi aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni ma anche "vuoti" risarcitori, perché - come ha ricordato la citata sentenza n. 20292 del 2012 (Cass., n. 20292/2012), richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite - ciò che assume portata decisiva è la centralità della persona e "l'integralità del risarcimento del valore uomo". Tale accertamento dovrà essere compiuto alla luce delle regole generali in tema di prova, tenendo presente che il relativo onere è a carico del danneggiato.».
La questione
La questione in esame è la seguente: vi è spazio, nel diritto vivente, per l'autonoma risarcibilità del danno esistenziale (o, detto altrimenti, del danno alla vita di relazione)? Le soluzioni giuridiche
Prima di rispondere affermativamente al quesito, la Suprema Corte, nella sentenza in rassegna, ha tracciato un sintetico excursus dei più significativi passaggi giurisprudenziali sull'argomento. Già a partire dalle note sentenze “gemelle” (Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. 31 maggio 2003, n. 8828), il giudice di legittimità aveva chiarito che il danno non patrimoniale deve ritenersi "comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto" (così Cass., n. 8827/2003); sicché il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita (...) deve senz'altro trovare ristoro nell'ambito della tutela ulteriore apprestata dall'art. 2059 c.c., in caso di lesione di un interesse costituzionalmente protetto". Le Sezioni Unite, con le sentenze di S. Martino, (Cass. S.U., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974, 26975), ai fini che qui interessano, hanno chiarito che, in assenza di reato e al di fuori dei casi determinati dalla legge, "pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)". La giurisprudenza più recente ha compiuto ulteriori passi avanti che, nella fedeltà all'insegnamento delle Sezioni Unite, hanno consentito di fermare l'attenzione su specifici aspetti del complesso problema. Nella sentenza Cass., 13 maggio 2011, n. 10527, ad esempio, la Suprema Corte si è fatta carico di evidenziare che il danno alla vita di relazione non consiste nella "perdita delle abitudini e dei riti propri della vita, ma in fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, in scelte di vita diversa", ovvero, in altre parole, nello "sconvolgimento dell'esistenza obiettivamente accertabile" che non si traduca in patologie medicalmente accertabili. Con la più recente sentenza la sentenza Cass., 20 novembre 2012, n. 20292, la Suprema Corte ha ribadito che "esistenziale è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza, sì, ma autonoma, della lesione medicalmente accertatale". Questa sentenza, in ultima analisi, dando continuità a quella delle Sezioni Unite, ha confermato che il giudice di merito, dopo aver accertato l'esistenza di una "situazione soggettiva protetta a livello costituzionale", è tenuto ad una "rigorosa analisi e ad una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale)"; ciò in quanto il risarcimento non deve essere duplicato, ma deve tenere presenti le diverse possibili lesioni derivanti dal fatto illecito (sull'argomento ritorna anche la più recente sentenza 17 aprile 2013, n. 9231). In linea con l'orientamento giurisprudenziale venutosi sin qui delineando, la sentenza in rassegna pone l'accento sul danno alla vita di relazione, come figura distinta dal danno biologico e dal danno morale e censura la decisione del Giudice di merito, nella parte in cui non ha adeguatamente valutato i profili della lesione del rapporto parentale conseguenti alla morte di Caio. La Corte cassa, pertanto, la sentenza impugnata, demandando al giudice di rinvio il compito di accertare, “con onere della prova a carico dei richiedenti, se in conseguenza del fatto si siano determinati autentici sconvolgimenti nella vita dei familiari superstiti, tali da comportare scelte radicalmente diverse. Soltanto in presenza di una simile eventualità potrà trovare giustificazione il riconoscimento di una ulteriore e diversa posta risarcitoria”.
Osservazioni e suggerimenti pratici
La Corte richiama, più volte, l'attenzione sull'onere della prova a carico dei richiedenti del danno alla vita di relazione derivante dalla morte del congiunto. E', pertanto, necessario che la parte che lamenti un siffatto pregiudizio alleghi e – in caso di contestazione – provi tutti gli elementi utili al riconoscimento di tale posta risarcitoria. A tal fine, occorrerà non solo indicare l'età della vittima, l'eventuale sua convivenza ed il grado di parentela con i congiunti superstiti, ma anche fornire al Giudice tutti quegli elementi – quali, ad esempio, mediante il richiamo di particolari episodi, ovvero di abitudini di vita – significativi della qualità delle relazioni intessute dal defunto con i familiari e le conseguenze, in termini di “sconvolgimento dell'esistenza obiettivamente accertabile” che l'evento luttuoso ha arrecato. Conclusioni
La sentenza in rassegna appare animata dalla preoccupazione di assicurare – mediante una valutazione approfondita di tutte le conseguenze pregiudizievoli dell'illecito (danno biologico, danno morale e danno esistenziale) - la “integralità del risarcimento del valore uomo”. E, tuttavia, se da un lato, non sono ammessi “vuoti risarcitori”, che rischierebbero di frustrare i principi espressi dalle Sezioni Unite, circa la necessità di assicurare l'integrale” riparazione delle conseguenze dell'illecito, “onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”, dall'altro, si devono evitare – ammonisce la Corte - fenomeni di “duplicazione risarcitoria”. Al Giudice di merito è demandato, dunque, il difficilissimo compito di provvedere ad una liquidazione del danno non patrimoniale, che, al contempo, non sia né eccessiva né riduttiva rispetto all'effettività del pregiudizio sofferto. |