La perdita di chance di godere più a lungo del proprio congiunto: alla ricerca del nesso (perduto)
11 Giugno 2014
Massima
Trib. Reggio Emilia, 27 Febbraio 2014 La chance in senso stretto va intesa come danno emergente, ossia come lesione della possibilità di raggiungere il risultato sperato. La domanda per perdita di chance è ontologicamente diversa da quella di risarcimento del danno futuro da mancato raggiungimento del risultato sperato, e la prima nemmeno può essere considerata un minus della seconda, mutando la causa petendi (possibilità di conseguire un risultato nella chance, perdita del risultato nel danno futuro), il petitum (risarcimento commisurato a perdita nella chance, perdita tout court nel danno futuro) e l'onere della prova per la parte (che nella lesione di chances riguarda la perdita di una probabilità non trascurabile di raggiungere il risultato, mentre nel danno futuro riguarda il fatto che, ove fosse stato tenuto il comportamento legittimo, il risultato sarebbe stato raggiunto). Sintesi del fatto
Il caso portato all'attenzione del Tribunale riguarda il decesso di una signora avvenuto – a detta dei famigliari – per effetto della tardiva esecuzione di un intervento chirurgico da parte dei medici della struttura ospedaliera ove la stessa era ricoverata (si trattava dell'impianto di un dispositivo in grado di evitare l'arresto cardiocircolatorio poi di fatto verificatosi). La madre e i fratelli della vittima citano in giudizio l'ASL competente e chiedono, in via principale, il risarcimento del danno “per la morte del proprio congiunto” e, in subordine, il ristoro del pregiudizio patito sub specie di “perdita di chance di sopravvivenza” in relazione alla possibilità di godere più a lungo del proprio caro.
La questione
Il punto nodale intorno al quale si concentra la trama della decisione in esame può essere così sintetizzato: se i congiunti del paziente, vittima di “malpractice”, possano o meno ottenere (e a che titolo) un risarcimento quando non è certo né “più probabile che non” che la condotta errata dei sanitari abbia effettivamente causato l'evento lesivo. Soluzioni giuridiche
Il Tribunale di Bologna risponde all'interrogativo in termini positivi, riconoscendo alla madre ed ai fratelli della paziente un ristoro sub specie di danno da “perdita di chance di poter ancora convivere con i propri cari”. Il Giudice osserva anzitutto che la domanda svolta in via principale, tesa ad ottenere il risarcimento per la “morte del congiunto”, non può essere accolta: i consulenti tecnici hanno chiarito che il ritardo nella esecuzione dell'intervento era addebitabile a colpa dei sanitari, ma hanno anche precisato che il tempestivo impianto del dispositivo in grado di evitare l'arresto cardiocircolatorio non avrebbe né con certezza, né in termini di “più probabile che non” impedito il decesso, e ciò anche in considerazione della “molteplicità delle alterazioni aritmiche” di cui la paziente soffriva. Ad avviso del Tribunale – ed in accordo con l'orientamento ormai consolidato (Cass., n. 21619/2007, richiamata nella stessa motivazione) - non può dunque ritenersi che la condotta omissiva dei medici abbia provocato l'evento morte. Questa prima conclusione appare del tutto condivisibile: se è vero che nell'ambito civilistico l'accertamento della causalità non ubbidisce alla regola dell' “oltre ogni ragionevole dubbio”, ma risponde al criterio del “50 % + 1” (sia pure da intendersi in senso elastico, Cass., 21 luglio 2011, n. 15991), deve coerentemente negarsi che, al di sotto di tale soglia “minima”, sia predicabile l'esistenza del nesso. Alla luce di tale premessa, sarebbe stato naturale attendersi un rigetto delle pretese attoree (su tutti i fronti). Il Tribunale segue, invece, una seconda via ed accoglie la domanda subordinata, valorizzando l'osservazione dei CTU secondo cui (pur restando ferma la mancanza del rapporto eziologico, nei termini di cui sopra) la corretta prestazione medica avrebbe comunque <<significativamente ridotto il rischio di morte>>. Per giustificare la propria decisione, il Giudice richiama, con ampia argomentazione, gli orientamenti formatisi in dottrina e i precedenti della Cassazione. Così, per alcuni, la chance sarebbe un “lucro cessante”, consisterebbe cioè nel mancato conseguimento di un risultato, di un vantaggio che il soggetto avrebbe ottenuto se l'illecito (o l'inadempimento) non si fosse verificato (quantum mihi abest). Secondo un altro indirizzo, cd. “ontologico”, essa si atteggerebbe, invece, come un danno emergente, come perdita di una mera “possibilità” (di raggiungere un dato obiettivo), come vulnus ad un “bene” che fa già parte del patrimonio del soggetto. Secondo il Tribunale, ciascuno dei due orientamenti coglierebbe <<una parte di verità>>, ragion per cui sarebbe <<necessario perseguire una tesi intermedia, che vede come lucro cessante il danno futuro derivante dalla definitiva perdita, a causa del comportamento altrui, del bene ultimo avuto di mira; e vede invece come danno emergente la chance in senso stretto, cioè la lesione della possibilità di raggiungere il risultato sperato>>. Il Giudice sostiene così che <<i due aspetti della perdita del bene futuro e della perdita di chance riguardano due beni giuridici diversi>> e precisa altresì che <<occorre verificare il nesso causale tra il fatto e l'evento della perdita del bene futuro inteso come lucro cessante; o il nesso causale tra il fatto e l'evento della perdita di chance (non semplice illusione od aspirazione velleitaria!) come danno emergente>>. Sulla base di tali rilievi, il Magistrato – tenuta in debito conto la valutazione dei CTU (che si sono espressi in termini di “significativa” riduzione del rischio morte) - risolve positivamente il caso, riconoscendo appunto il risarcimento del danno ai famigliari della vittima. La liquidazione viene effettuata in via equitativa, prendendo come base il valore minimo riconosciuto (per la perdita del congiunto) dalle Tabelle del Tribunale di Milano ed applicando una riduzione di più della metà; ciò muovendo dalla considerazione per cui <<la liquidazione del danno da perdita di chance di aspettativa di vita deve essere ovviamente inferiore>>.
Osservazioni e suggerimenti pratici
Come si è accennato, il Giudice, dato atto degli orientamenti contrapposti in dottrina e in giurisprudenza, afferma di voler seguire una tesi intermedia; non sembra, tuttavia, che egli proponga davvero una “terza via”; pare, piuttosto, che aderisca alla tesi cd. ontologica. E' vero – e forse qui si può cogliere una “variante” rispetto al modello “base” delineato in dottrina – che , ad avviso del Tribunale, nella perdita di chance vi deve essere una <<probabilità non trascurabile di raggiungere il risultato>>, non bastando una <<semplice illusione od aspirazione velleitaria>>. Ma al di là di tale precisazione, l'impostazione condivisa in sentenza muove dal presupposto della esistenza e configurabilità di due beni giuridici diversi, la cui lesione fonda due distinte domande (non sovrapponibili per causa petendi) : in sostanza, laddove sussista il nesso e quindi si possa sostenere che la condotta dell'agente ha privato la vittima di un risultato che quest'ultima avrebbe altrimenti conseguito (secondo il parametro del più probabile che non), si avrà un risarcimento integrale (sub specie di lucro cessante, come perdita di un bene futuro). Laddove, invece, non sia possibile dare la prova del rapporto causale (nei termini appena detti), vi sarà comunque spazio per un ristoro, sotto forma di danno emergente, perché ciò che è stato colpito era un quid già presente nel patrimonio del soggetto, era una “possibilità”, che è sfumata per effetto della azione od omissione del colpevole. A parere di chi scrive, la decisione in esame offre più di uno spunto di riflessione: il Tribunale mostra di conoscere (riportandole in motivazione) le critiche mosse dalla dottrina contro la figura della perdita di chance, ma – almeno per come sembra - non si propone di superarle: ammette la autonoma risarcibilità di tale voce di danno senza spiegare perché siffatte censure (non proprio anodine..) dovrebbero ritenersi irrilevanti o ininfluenti. Il punto allora è: ma può davvero considerarsi come “bene a sé” una “possibilità”, un quid (obiettivamente impalpabile ed inafferrabile) che non rileva mai in via autonoma (non è cedibile, donabile, vendibile..), ma solo se ed in quanto venga ad essere leso? (cfr. M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, Padova, 2001, 1053; A. Pacces, Alla ricerca delle ciance perdute: vizi (e virtù) di una costruzione giurisprudenziale, in Danno e Resp., 2000, 658). La sentenza non si preoccupa di queste obiezioni e, di fatto, finisce con l'accordare un risarcimento pur in - consapevole e dichiarata - assenza del nesso. Il che pare in contrasto con i principi che governano la responsabilità, secondo cui in tanto un soggetto può essere chiamato a ristorare un danno in quanto l'evento lesivo (che ha provocato la “deminutio”) sia riconducibile alla sua azione od omissione. A parere di chi scrive, l'idea stessa secondo cui “chance” e “perdita del risultato finale” sarebbero due entità ontologicamente diverse (nel senso che si è cercato di chiarire supra) è piuttosto opinabile: a ben vedere, anche quella del 51% è una chance, la cui caratteristica consiste nell'essere (sufficientemente) elevata da giustificare (secondo una convenzione che la giurisprudenza stessa ha ritenuto di elaborare e porre a fondamento del sistema) l'esistenza del nesso causale. E quest'ultimo o c'è, oppure non c'è: tertium non datur. In altri termini: al di là delle enunciazioni astratte, il “bene” che viene in rilievo nelle ipotesi in discussione è sempre lo stesso: è il mancato raggiungimento del risultato sperato (nella fattispecie, la sopravvivenza della paziente); ciò che cambia (non è la natura), ma solo la consistenza percentuale della possibilità di conseguirlo. Così, se è “più probabile che non” che la condotta omessa avrebbe evitato la morte, potrà dirsi sussistente il nesso causale e i congiunti avranno titolo per ottenere il risarcimento integrale per la perdita del proprio caro; se, viceversa, vi era solo una possibilità (al di sotto della soglia del 50 + 1 %) di mutare le sorti del malato, allora – se si vuole essere coerenti con i principi - non potrà darsi alcun ristoro; ciò a meno di voler ricorrere a finzioni di sorta. Oppure ancora – e qui la prospettiva è volutamente provocatoria – si cambiano completamente gli scenari e, riscrivendo le regole, si afferma che esiste solo la chance, che cioè ciò che conta non è più il nesso con l'evento (che viene espunto dalle coordinate della responsabilità), ma la mera lesione di un “bene”, di una possibilità (di conseguire un dato risultato), che può essere più o meno elevata ed il cui vulnus dà sempre diritto al risarcimento (tanto o poco che sia).
Conclusioni
La autonoma risarcibilità della perdita di chance, intesa come bene a sé, è controversa tra gli studiosi; e le tensioni immanenti alla dottrina – divisa tra due schieramenti opposti – trovano espressione soprattutto nella giurisprudenza di merito, laddove non mancano decisioni di segno contrario rispetto a quella in commento (Trib. Venezia, 25 luglio 2007). Di recente, per es., Trib. Cremona, 24 ottobre 2013, n. 542 non ha mancato di osservare , in via incidentale, che <<Ma infine, è il concetto stesso di chance come bene esistente economicamente e patrimonialmente autonomo, ad essere discutibile. Quella che viene chiamata chance e viene ritenuta entità a sé stante non è che una mera aspettativa di fatto, perché o, in base alle chance concretamente esistenti, il soggetto leso avrebbe, con giudizio condizionalistico abduttivo ed elevata credibilità logico- razionale, conseguito il bene della vita, il risultato, e allora sarà questo ad essergli risarcito, oppure non lo avrebbe conseguito, e allora non può certo essergli accordato un risarcimento per così dire minore di un'entità che altro non è che la sintesi delle condizioni favorevoli>>. Va detto peraltro che, soprattutto in materia di “malpractice” medica, la Cassazione pare aver ormai tranquillamente sdoganato la risarcibilità della perdita di chance (intesa come bene a sé), senza troppo curarsi delle obiezioni mosse contro di essa, in ciò probabilmente spinta dalla volontà di accordare la maggior protezione possibile alla vittima (diretta o “secondaria”), in ragione della necessità di tutela del bene supremo della salute. Ma se il fine è senz'altro condivisibile, ciò che pare meno giustificato è perseguirlo incondizionatamente, forzando cioè a tal punto le regole da trasformare la responsabilità in qualcosa che non le assomiglia.
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