Il risarcimento del danno da omessa diagnosi di malattia incurabile

Mauro Di Marzio
20 Novembre 2015

L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una «migliore qualità della vita», intesa quale possibilità di programmare il proprio essere persona, e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell'esito.
Massima

L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una «migliore qualità della vita», intesa quale possibilità di programmare il proprio essere persona, e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell'esito.

Il caso

Alla fine del mese di settembre del lontano 1992 una donna si rivolge ad un ginecologo lamentando perdite ematiche. Nell'arco di cinque mesi il medico la sottopone a visita per cinque volte, controllandole l'aspirale, poi rimuovendola, poi effettuando due ecografie e somministrandole farmaci. Nel febbraio dell'anno successivo la donna si sottopone ad ulteriori esami presso un ospedale, dove le viene diagnosticato un carcinoma dell'utero.

Lamentando l'omessa diagnosi del tumore, la donna agisce nei confronti del ginecologo per il risarcimento del danno subito, ma, nel corso del giudizio muore: possiamo supporre a causa della malattia. Il giudizio è dunque proseguito dai suoi eredi, che risultano soccombenti in appello, giacché la corte di merito, avvalendosi di una CTU, affermano che il tumore era particolarmente aggressivo e che, dunque, non sussisteva nesso di causalità tra ritardo diagnostico ed evoluzione della malattia.

Gli eredi della defunta propongono ricorso per cassazione con cui lamentano che la corte d'appello abbia errato nell'escludere la sussistenza del nesso di causalità tra l'errore diagnostico e la morte della donna e, comunque, nell'escludere la possibilità di una più lunga sopravvivenza, negando il risarcimento di, per la verità non meglio precisati, «pregiudizi sofferti dalla paziente».

La Suprema Corte cassa la sentenza, affermando il principio riassunto in massima.

La questione

Ricorre un danno risarcibile in caso di omessa diagnosi di una malattia che, ove pure tempestivamente diagnosticata, non avrebbe potuto essere curata ed avrebbe comunque condotto l'ammalato a morte?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento ha avuto una certa eco in taluni siti Internet attenti ai temi della responsabilità civile e in particolare di quella medica, ove è stata letta come indicativa di un ampliamento (un ennesimo ampliamento) dell'ambito della risarcibilità: in caso di omessa diagnosi di un tumore non curabile, spetta al paziente, se non altro, il risarcimento di un danno parametrato alla — per la verità alquanto evanescente — perdita della chance di conservare una «migliore qualità della vita».

La sentenza si snoda secondo una linea che si può così riassumere:

1) si muove da una ricostruzione dei motivi di ricorso per cassazione che certo non tranquillizza sui reali termini della controversia; la Cassazione afferma infatti che i ricorrenti, ossia gli eredi della donna rimasta vittima della omessa diagnosi, avrebbero lamentato la violazione, oltre che dei pertinenti artt. 40 e 41 c.p., posti a disciplinare il funzionamento del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento, nientepopodimeno che degli artt. 1681,2054,2055,1292 e 1294 c.c.: il che lascia alquanto stupefatti, visto che l'art. 1681 c.c. regola la responsabilità del vettore nel trasporto di persone, l'art. 2054c.c la responsabilità per circolazione dei veicoli, le altre norme la materia della solidarietà passiva, in questo caso senz'altro non richiamata a proposito, dal momento che chiamato a rispondere dell'omessa diagnosi era a quanto pare un solo convenuto, ossia il ginecologo; ora, non v'è modo di sapere se una simile zibaldone di norme albergasse già nel ricorso per cassazione ovvero sia germogliata dalla penna dell'estensore, magari a causa di un disattento taglia-incolla, ma, certo, come che sia, tutto ciò non è particolarmente rassicurante;

2) dopo di che la pronuncia si sofferma su aspetti fondamentali ed in effetti più che arati concernenti la colpa professionale medica; anche qui, però, non si capisce il perché della digressione, dal momento che la corte di merito aveva riconosciuto l'inadempimento del medico per non aver effettuato i necessari approfondimenti diagnostici utili a scoprire tempestivamente l'insorgenza del carcinoma, mentre aveva infine rigettato la domanda non già per insussistenza della colpa, bensì per insussistenza del nesso di causalità; sicché, a quanto sembra, il punto non era affatto investito dal ricorso;

3) la sentenza in commento richiama poi alcuni precedenti in tema di omessa diagnosi di malattia terminale, riguardo alla quale è stato affermato - in particolare - che «l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire di tale intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze» (Cass. civ., sez. III, sent., 18 settembre 2008, n. 23846; in seguito Cass. civ., sez. III, sent., 8 luglio 2009, n. 16014; Cass. civ., sez. III, sent., 27 marzo 2014, n. 7195); non è chiaro però che cosa in concreto questo principio abbia a che fare con la vicenda sottoposta all'esame della Suprema Corte, dal momento che, almeno a leggere la sentenza ed in particolare i motivi del ricorso per cassazione ivi riassunti (sia pure presi con beneficio di inventario per quanto in precedenza osservato), non risulta affatto che gli eredi della donna deceduta avessero lamentato lo scadimento della sua qualità della vita a causa dell'impossibilità di accedere ad interventi palliativi; viceversa essi avevano lamentato, a quanto risulta, che l'omessa diagnosi avesse spiegato un'efficienza causale sul decesso della loro congiunta, nel senso che, alla stregua del consueto giudizio controfattuale, se il carcinoma fosse stato tempestivamente diagnosticato, esso avrebbe potuto essere curato;

4) la decisione in esame, ancora, bacchetta severamente il giudice di merito per aver inteso il danno da perdita di chance quale autonoma voce di danno emergente invece che di lucro cessante, come avrebbe chiarito Cass. civ., sez. III, sent., 12 giugno 2015 n. 12211: solo che questa pronuncia non nomina nemmeno lontanamente la parola chance e si cimenta con il caso del risarcimento del danno ad un bambino che, su un autobus, dovendo fare un bisognino, aveva aperto la porta di accesso al veicolo invece che quella della toilette ed era precipitato giù; ma, al di là di quest'ulteriore errore, il punto non è se la chance (che una nota dottrina ha collocato all'interno del non risarcibile aquiliano: Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale, in Europa e dir. priv., 2008, 315) sia lucro cessante o danno emergente, ma se — come la Suprema Corte ha avuto modo di affermare — costituisca «autonoma voce di danno», sicché «la relativa domanda è domanda diversa rispetto a quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato» (così la nota Cass. civ., sez. III, sent., 4 marzo 2004 n. 4400); e, come si è visto, una domanda in tal senso non sembra vi fosse, la qual cosa era stata dalla corte d'appello finanche evidenziata, sicché la Cassazione pare aver posto le premesse perché, in sede di rinvio, venga risarcito un danno collocato al di fuori della domanda proposta.

Osservazioni

Questo vuol dire che lo scadimento della qualità della vita (non una vaga chance di miglioramento) subito dal paziente per la omessa diagnosi non sia risarcibile? Certo che lo è, a condizione, però, se non altro, che il risarcimento sia stato come minimo chiesto, almeno fin tanto che l'art. 112 c.p.c. non verrà cestinato e sostituito, per esempio, con quel verso di una celebre canzone cantata da Gianni Morandi: «Si può dare di più, perché è dentro di noi, si può osare di più, senza essere eroi». Eccetera eccetera.

A proposito: laddove la pronuncia in commento menziona Cass. civ., Sez. III, sent., 12 giugno 2015 n. 12221, intende con tutta probabilità riferirsi invece a Cass. civ., Sez. III, sent., 12 giugno 2015 n. 12211, che mi è già stato chiesto di commentare per questa rivista (v. M. Di Marzio, Contrordine! La perdita della capacità lavorativa generica si cumula a danno biologico e patrimoniale, in Ri.Da.Re.).

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