Infezioni nosocomiali: gli elementi determinanti della prova liberatoria per la Struttura Sanitaria
25 Maggio 2016
Massima
Nell'ipotesi di infezione contratta in ambito ospedaliero – c.d. infezione nosocomiale – graverà sul soggetto danneggiato, oltre alla prova dell'esistenza del contratto e dell'aggravamento della patologia ovvero dell'insorgenza di nuove patologie, anche la prova del nesso causale tra il pregiudizio lamentato e l'infezione, secondo un criterio di “probabilità logica”, mentre graverà sulla struttura sanitaria - una volta accertata la sussistenza di tale nesso causale - l'onere di dimostrare di avere diligentemente operato, sia sotto il profilo dell'adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, onde scongiurare l'insorgenza di patologie infettive a carattere batterico, sia sotto il profilo del trattamento terapeutico prescritto e somministrato al paziente dal personale medico, successivamente alla contrazione dell'infezione. Il mancato raggiungimento della prova in ordine agli enunciati profili da parte della struttura sanitaria, ne comporta la responsabilità diretta nella causazione dell'infezione, per non aver messo a disposizione del paziente le attrezzature idonee ad evitare l'insorgenza della complicanza infettiva. Il caso
Nel caso di specie, il paziente conviene in giudizio avanti il Tribunale di Agrigento l'Azienda sanitaria provinciale, al fine di richiederne la condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non subìti a causa di una patologia infettiva da Pseudomonas aeruginosa MRSA, insortagli a seguito di una serie di ricoveri e interventi chirurgici connessi con il trattamento di una frattura del piede sinistro, conseguita ad un infortunio sul lavoro. Secondo la prospettazione dell'attore, infatti, l'infezione contratta durante i ricoveri presso la struttura ospedaliera convenuta avrebbe determinato, nell'immediato, il fallimento degli atti operatori necessari per la cura della frattura, con la conseguente necessità di eseguire ulteriori interventi chirurgici per la risoluzione dei postumi correlati. L'Azienda sanitaria provinciale si costituisce in giudizio, contestando, nel merito, le domande attoree e chiedendone il rigetto. La questione
Nell'ipotesi di patologia infettiva contratta in ambito ospedaliero, una volta provata la natura nosocomiale dell'infezione, quale sarà la prova liberatoria che la struttura sanitaria dovrà, in concreto, fornire per andare esente da responsabilità? Le soluzioni giuridiche
Nella sentenza in commento, il Tribunale di Agrigento si occupa di valutare un caso di infezione da Pseudomonas aeruginosa contratta in ambito ospedaliero. Per giungere ad una decisione in merito alla sussistenza o meno di una responsabilità della struttura ospedaliera, la sentenza in esame parte definendo i principi generali applicabili alla responsabilità professionale sanitaria - quanto ai criteri di riparto dell'onere della prova e di accertamento del nesso di causa - cercando di adattarli al caso concreto. Nella specie, il Tribunale inizia inquadrando la responsabilità della struttura sanitaria nell'alveo del contratto, distinguendo tra responsabilità per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., per i danni patiti dal paziente per l'inadeguatezza organizzativa e strutturale, e responsabilità per fatto di altri, ex art. 1228 c.c., per i danni causati al paziente dai sanitari operanti nella struttura stessa (Cfr. Cass. sent. n. 1620/2012). Da tale inquadramento, la sentenza fa poi discendere il criterio di ripartizione dell'onere probatorio tra le parti, facendo, in particolare, ricadere sul paziente, oltre all'onere di dimostrare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie), anche quello di provare il relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari. Sul punto, è interessante osservare come il Tribunale di Agrigento abbia scelto di seguire l'orientamento giurisprudenziale più rigoroso per il paziente (Cass. sent. n. 4400/2004 e n. 9085/2006), discostandosi dall'orientamento maggioritario (ex multis Cass., Sez. Un., sent. n. 577/2008) che lascia, invece, in capo allo stesso soggetto danneggiato il solo onere di allegare l'inadempimento c.d. qualificato del debitore, da intendersi quale causa (o concausa) astrattamente efficiente a produrre il danno. Quanto al criterio per l'accertamento del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno, la sentenza in esame decide di allinearsi all'orientamento ormai unanime in ambito civile, ribadendo l'applicabilità della “probabilità logica” ovvero del principio del “più probabile che non” (Cass. sent,. n. 14759/2007 e Cass., n. 867/2008). Secondo il Tribunale di Agrigento, anche con specifico riferimento alle ipotesi di infezione nosocomiale, non sarà, dunque, indispensabile dimostrare il rapporto di consequenzialità necessaria tra la condotta dei sanitari e l'evento dannoso, ma sarà sufficiente dimostrare la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica. In questi casi, il nesso causale potrà, pertanto, considerarsi sussistente non solo quando il danno sia conseguenza inevitabile della condotta, bensì anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile, qualora cioè - attraverso un criterio necessariamente probabilistico - si possa ritenere che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di evitare il danno verificatosi. La sussistenza di un nesso fra il comportamento omissivo del medico e il pregiudizio subìto dal paziente dovrà comunque essere provato dal danneggiato, in ossequio ai principi stabiliti dall'art. 2697 c.c.. In tale ottica, secondo il Tribunale, una volta accertato il nesso causale tra il lamentato pregiudizio e l'infezione, spetterà alla struttura sanitaria l'onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti lamentati dal paziente siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile e che, quindi, l'insuccesso della prestazione non sia dipeso da mancanza di diligenza (e, soprattutto, di perizia professionale specifica), dovendo, altrimenti, operare una presunzione semplice di responsabilità, ex art. 1218 c.c.. Trattandosi, nella specie, di un caso di infezione nosocomiale, la prova del corretto adempimento dovrà essere soddisfatta sotto due diversi profili: 1) quello relativo all'adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, onde scongiurare l'insorgenza di patologie infettive a carattere batterico; 2) quello relativo alla prestazione, ad opera del personale medico, del necessario e doveroso trattamento terapeutico successivo all'eventuale contrazione dell'infezione da parte del paziente. Sulla base di queste premesse, nel merito, il Tribunale di Agrigento decide di condannare l'Azienda sanitaria provinciale convenuta al risarcimento (parziale) dei danni subìti dal paziente (si tratta di un'ipotesi di infortunio sul lavoro già indennizzato dall'Inail), in quanto diretta responsabile nella causazione dell'infezione, per non aver rispettato gli obblighi di porre a disposizione del paziente le attrezzature idonee ad evitare l'insorgenza della complicanza infettiva. Sebbene, infatti, la struttura sanitaria sia riuscita a dimostrare di aver somministrato al paziente la corretta terapia antibiotica, sia come profilassi pre-operatoria sia post-operatoria, secondo il Tribunale, nessuna prova è stata dalla stessa fornita né in merito alla preesistenza dell'infezione nella persona del paziente, né in merito all'efficace ed effettiva asepsi della strumentazione chirurgica adoperata ovvero dei diversi ambienti ospedalieri, nel periodo durante il quale il paziente è stato ricoverato ed operato. Nel caso di specie, il Tribunale non ha ritenuto sufficiente la documentazione prodotta dalla convenuta, in relazione al monitoraggio microbiologico ambientale eseguito solo su alcune sale operatorie della struttura sanitaria, in quanto l'infezione ben avrebbe potuto essersi diffusa in altro luogo dell'ospedale. All'esito dell'istruttoria e della Consulenza Tecnica d'Ufficio, invero, pur essendo emersa la riconducibilità eziologica dell'infezione ad un agente patogeno contratto in ambito ospedaliero - secondo il Ctu, l'infezione contratta dal paziente «assume (…) i canoni di una infezione nosocomiale» – non è stato possibile determinare il momento e lo specifico ambiente nell'ambito dell'ospedale, nel quale l'infezione sia insorta. Peraltro, la documentazione relativa alle sale operatorie prese in esame dal monitoraggio microbiologico ambientale, depositata dalla convenuta, è risultata riferita ad un periodo successivo al ricovero durante il quale, presumibilmente, il paziente avrebbe contratto la Pseudomonas Aeruginosa. Ai fini della prova liberatoria, non è risultata sufficiente neppure la documentazione inerente la presenza di uno specifico organismo di gestione e controllo delle infezioni ospedaliere, né di una convenzione, rinnovata annualmente, con l'istituto di Igiene della facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di Palermo, per la consulenza ed il controllo dell'infezioni ospedaliere ed il monitoraggio ambientale delle aree ad alto rischio infettivo, quali le sale operatorie e le terapie intensive, sebbene tale rapporto di collaborazione fosse iniziato precedentemente ai ricoveri dell'attore. Alla luce di quanto emerge dalla sentenza in esame, è possibile dunque affermare che - una volta provata la natura nosocomiale dell'infezione e, quindi, il nesso di causa tra il danno lamentato dal paziente e la condotta dei sanitari – per andare esente da responsabilità, la struttura sanitaria non potrà limitarsi a fornire una prova generica, del tutto decontestualizzata rispetto alla fattispecie oggetto del contenzioso, sia in termini di spazio che di tempo, seppur riferita all'adozione di protocolli ovvero alla creazione di un comitato per la prevenzione delle infezioni. Le semplici verifiche e prove a campione circa la comprovata prassi di disinfezione e sterilizzazione adottata dalla struttura non saranno, di per sé, sufficienti a liberarla dalla presunzione di responsabilità sulla stessa incombente, ex art. 1218 c.c. (in tal senso, anche Trib. Bari, sent., 10 marzo 2010, n. 827, contagio da Pseudomonas aeruginosa). In tema di prova liberatoria, non sono isolate le sentenze di merito che confermano l'importanza di una specifica prova documentale in merito all'organizzazione dell'asepsi, all'igienizzazione ambientale, alla sterilizzazione degli ambienti e alla strumentazione operatoria nonché alla corretta somministrazione di una terapia antibiotica adeguata, nella fase pre-intervento e in quella successiva all'insorgenza della patologia infettiva (ex multis Trib. Milano, sent., 5 settembre 2014, n. 10809; Trib. Milano, sent., 4 febbraio 2016, n. 1584; Trib. Milano, sent., 9 dicembre 2015, n. 13875). Nella specie, si riportano alcuni esempi di prove documentali risultate, in concreto, adeguate per liberare la struttura sanitaria: - i dati relativi alla cadenza delle operazioni di pulizia, di sanificazione e di sterilizzazione delle sale operatorie, dei macchinari e del materiale, tra un intervento e l'altro, a fine giornata e, mensilmente, comprendendo anche le bocchette di aereazione; - la rintracciabilità e la verifica delle sterilizzazioni del materiale chirurgico nelle autoclavi; - la specifica formazione e sensibilizzazione del personale alla tematica della prevenzione delle infezioni; - le verifiche ispettive ed i controlli attuati, con cadenza semestrale, da parte della direzione sanitaria e del servizio qualità all'uopo istituito, con riguardo al rispetto delle procedure in uso presso la struttura; - i dati contenuti nei report relativi alla incidenza di una determinata infezione presso una specifica Unità Operativa della struttura convenuta. La comparazione tra la soglia delle complicanze infettive registrate dalla letteratura in relazione ad un determinato intervento chirurgico e i dati contenuti nei citati report ha consentito di valutare se il tasso di infezioni intervenute all'interno della struttura potesse considerarsi nella norma ovvero superiore e, quindi, sintomatico di una carenza organizzativa in tema di prevenzione; al contrario, la diminuzione delle infezioni registrate, annualmente, comparata con il simultaneo aumento degli interventi chirurgici eseguiti presso la struttura è stata ritenuta, verosimilmente, sintomatica di una continua e progressiva evoluzione positiva delle tecniche di sterilizzazione e sanificazione delle sale operatorie all'interno della stessa struttura (Trib. Milano, sent., 9 dicembre 2015, n. 13875). La specifica prova (documentale e testimoniale) in ordine alle azioni di prevenzione adottate dalla struttura, in alcuni casi, è risultata altresì determinante per ricollegare l'insorgenza della patologia infettiva ad altri fattori, anche soggettivi. Non di rado, infatti, risulta piuttosto difficoltoso accertare se la trasmissione dell'infezione sia avvenuta per un fattore endogeno dello stesso paziente (per esempio, perché il batterio era già presente sulla cute del degente), ovvero per un fattore esogeno (per esempio, per il contatto con gli operatori sanitari o le superfici ambientali). È possibile, peraltro, che alcune infezioni sebbene di origine nosocomiale non siano comunque addebitabili all'ospedale, in quanto non prevenibili, dal momento che le procedure di disinfezione attuate sul paziente e sulla sua superficie corporea, anche se condotte con la dovuta diligenza, non sempre riescono ad eliminare totalmente la presenza di batteri, non potendosi sterilizzare il paziente. A ciò consegue, che non tutte le infezioni intervenute successivamente ad un intervento chirurgico potranno dirsi causate, in via automatica, da un fattore esogeno costituito dalla cattiva cura igienica nell'ambito ospedaliero. Questo rilievo apre un interrogativo su chi debba ricadere l'incertezza in ordine all'eziologia dell'infezione. Sul punto, si sono venuti a creare due orientamenti contrastanti. Un primo orientamento che ritiene sussista una responsabilità oggettiva della struttura. Ne deriva che, qualora la stessa non riesca a provare oltre al corretto adempimento, anche la diversa causa imprevedibile e imprevenibile, sarà ritenuta automaticamente responsabile del contagio infettivo subìto dal paziente. In questo caso, dunque, rimarranno a carico della struttura sanitaria anche quei casi di infezioni non evitabili, pur in presenza di una adeguata condotta da parte dell'ente ospedaliero in termini di prevenzione (Trib. Roma, sent., 25 marzo 2005; Trib. Reggio Emilia, sent., 25 agosto 2015 – in M. Bona, Danno da infezioni ospedaliere, in www.dannoallapersona.it). Un secondo orientamento che ritiene, invece, che l'incertezza sulla causa dell'infezione non possa ricadere sulla struttura sanitaria, ma debba ricadere sul paziente (Cass. sent. n. 4792/2013). Trattandosi, infatti, di responsabilità di carattere contrattuale anche con riguardo alle ipotesi di c.d. infezioni nosocomiali, dovrà applicarsi il principio dell'accertamento dell'adempimento/inadempimento, che prevede a carico della convenuta la prova della corretta esecuzione della prestazione, in termini di adeguato rispetto dei necessari standard di igiene e prevenzione (Cfr. Trib. Milano, sent., 5 settembre 2014, n. 10809). Benché, infatti, in tema di responsabilità civile sanitaria si applichi il criterio probabilistico dell'accertamento del nesso causale e il principio di “prossimità” della prova, tuttavia, non è possibile giungere alla soluzione del post hoc propter hoc, dovendosi comunque esigere un ulteriore elemento probatorio, anche se di natura logico-presuntiva che comprovi il collegamento causale tra l'infezione e la condotta (omissiva) dei sanitari (Cfr. Trib. Milano, sent., 5 settembre 2014, n. 10809; Trib. Milano, 4 febbraio 2016, n. 1584). In concreto, dunque, secondo questo orientamento, la struttura dovrà fornire la prova positiva del corretto adempimento sulla base di quanto era possibile ed esigibile, in quel determinato momento, dalla scienza del settore, al fine di ridurre al minimo il rischio di esposizione ad infezioni nosocomiali dei pazienti; sarà così possibile ricondurre l'evento infettivo al novero delle complicanze imprevedibili ed inevitabili collegate alla presenza della paziente nel nosocomio (Cfr. Trib. Roma, sent., 22 giugno 2015). Osservazioni
Nella sentenza esaminata viene trattata la tematica delle c.d. infezioni nosocomiali, da molti anni, all'attenzione dei diversi organismi competenti, sia a livello europeo sia a livello nazionale e regionale. Sebbene, infatti, a seguito della scoperta degli antibiotici, molte infezioni ospedaliere sembravano scomparse, tuttavia, a causa dell'antibiotico-resistenza e della correlata mancata disponibilità di nuovi vaccini, parallelamente con una maggiore tendenza all'ospedalizzazione, negli ultimi anni, si è assistito ad un incremento del fenomeno delle infezioni correlate con l'assistenza ospedaliera (c.d. I.C.A.), cui sono derivati numerosi effetti negativi non solo sul piano della salute dei paziente, bensì anche sul piano strettamente economico, con pesanti ripercussioni anche sulla sostenibilità della spesa per le cure e per gli eventuali risarcimenti. Per questo, in tema di prevenzione e lotta delle infezioni negli ospedali, a livello comunitario, già a far data dagli anni '70, sono state emanate diverse raccomandazioni da parte del Consiglio Europeo (nn. 72/31, 76/7, 80/15 e 84/20, di recente, ha emanato la «Council Recommendation on patient safety, including the prevention and control of healthcare associated infections»), recepite nel nostro ordinamento con le circolari ministeriali n. 82/1985 e n. 8/1988. Questa attenzione alla tematica ha condotto alla creazione di protocolli standardizzati di prevenzione e sorveglianza, sempre più articolati e costantemente aggiornati, e alla formazione del personale sanitario, oltre alla creazione di comitati specificamente dedicati alla gestione delle infezioni ospedaliere (c.d. C.I.O.), all'interno di ogni struttura sanitaria. In molti casi, grazie al rispetto di pratiche assistenziali e di standard precauzionali efficaci - quali, per esempio, il lavaggio delle mani, l'utilizzo di guanti e mascherine ovvero la pulizia e la disinfezione dell'ambiente, la sterilizzazione delle attrezzature e presidi riutilizzabili e invasivi o, ancora, l'utilizzo adeguato delle terapie antibiotiche - si è riusciti a prevedere ed evitare l'insorgenza di fenomeni infettivi dannosi per il paziente e per gli operatori sanitari (si veda, sul punto, Manuale di formazione per il governo clinico: la sicurezza del paziente degli operatori – gennaio 2012 – Ministero della Salute). Ciò nonostante, come confermato dagli studi scientifici fatti sul fenomeno, non tutte le infezioni correlate con l'assistenza ospedaliera sono prevenibili. In taluni casi, infatti, l'infezione risulta solo temporalmente associabile all'assistenza ospedaliera, tuttavia, non imputabile ad essa, qualora per esempio si tratti di infezione endogena (proveniente cioè da microrganismi presenti nella flora endogena del paziente), spesso favorita da particolari condizioni immunitarie e cliniche del paziente. L'imprevenibilità di alcune infezioni, associata con la difficoltà spesso riscontrata nell'accertarne le reali cause, ha condotto ad un aumento del contenzioso anche in tale ambito. Per queste ragioni, alcuni ordinamenti stranieri hanno scelto di adottare un sistema c.d. no fault, che prescindesse dall'accertamento della colpa e che garantisse il ristoro dei danni conseguenti all'infezione contratta dal paziente su base indennitaria. Si è, infatti, compreso che non potesse essere fatto ricadere sulle stesse strutture sanitarie il peso di tale fenomeno, ma che, d'altro canto, non potessero nemmeno essere fatte ricadere sul paziente le conseguenze dannose di determinati contagi, spesso gravissime. L'idea di introdurre un sistema (misto) no fault, accanto a quello risarcitorio della responsabilità civile, è stata prospettata anche nel nostro ordinamento nei progetti di legge formulati, tra il 2013 e il 2014, in tema di responsabilità sanitaria (proposta n. 1581, Vargiu e altri e proposta n. 1324 - Calabrò e altri). Secondo i proponimenti del Legislatore, in questo modo, attraverso la costituzione di un Fondo (Fondo di solidarietà o Fondo per le vittime dell'alea terapeutica – F.A.T.), si sarebbe potuta garantire una adeguata garanzia indennitaria, nei casi di gravi sinistri derivanti da patologie ad alto rischio, tra cui, appunto, anche le infezioni nosocomiali. Tali proposte prevedevano che il Fondo fosse finanziato con contributi provenienti dai contratti assicurativi sanitari, integrabili, per il fabbisogno eventualmente non coperto, mediante finanziamenti a carico del bilancio dello Stato. Come prevedibile, sul punto, non sono mancati i dubbi e le perplessità in ordine alla sostenibilità di un intervento di questo tipo. Allo stato, in ogni modo, la questione sembrerebbe non rientrare tra le priorità del Legislatore. Nell'attuale testo del D.d.l. n. 2224 - c.d. Gelli - ora al vaglio del Senato, non vi è infatti traccia di tale aspetto. Per il momento, dunque, la questione relativa alle infezioni nosocomiali rimane di stretta competenza dei giudici, con tutte le criticità riscontrate in termini probatori per le parti. |