Responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per consenso informato su intervento diverso da quello effettivamente eseguito

31 Ottobre 2016

Il consenso informato è correttamente raccolto se reso all'esito di un'informazione circa i trattamenti chirurgici effettivamente svolti.
Massimo

Il consenso informato è correttamente raccolto se reso all'esito di un'informazione circa i trattamenti chirurgici effettivamente svolti. Deve pertanto considerarsi violato l'obbligo di informazione laddove i trattamenti siano stati diversi da quelli dichiarati. In tale ipotesi la struttura sanitaria non è colpevole per il comportamento del medico, obbligato personalmente, ed anzi matura un diritto di regresso per intero nei confronti dello stesso.

Il caso

La vicenda portata all'attenzione della Corte di Appello di Milano trae origine dalla domanda di un soggetto che - sottopostosi ad un intervento chirurgico ad un ginocchio presso una struttura ospedaliera - lamenta l'insorgenza di dolori, instabilità articolare e limitazioni della propria forza, imputandole ai trattamenti chirurgici ricevuti. In primo grado la sua domanda si focalizza sul tema dell'insuccesso dell'intervento e su quello della inidoneità della informazione ricevuta, attinente – nella sua prospettazione – ad un intervento diverso da quello effettivamente praticatogli.

Gli esiti della ctu, disposta dal Giudice di prime cure, escludono tuttavia, sia sul piano logico sia su quello tecnico-scientifico, la sussistenza di condotte colpose in capo ai sanitari dell'Istituto convenuto, elidendo a monte la possibilità di parlare di «insuccesso del trattamento chirurgico». In questa visione, dunque, anche il consenso reso viene valutato – in primo grado - in termini di idoneità in quanto non connesso ad atti chirurgici diversi da quelli dichiarati bensì semplicemente correlabile ad un intervento parziale rispetto a quello previsto, e, dunque, sostanzialmente corretto e adeguato alle circostanze.

La Corte meneghina ribalta parzialmente l'impostazione confermando – di fatto – l'inquadramento della situazione clinica svolto in primo grado dal Giudice al filtro della ctu, tuttavia censurandone la portata in relazione al tema della violazione dell'obbligo di raccolta del consenso informato di cui imputa la responsabilità al solo medico che, nelle circostanze, era tenuto a ragguagliare puntualmente e personalmente il paziente.

La questione

La pronuncia all'esame arricchisce di nuovi spunti la riflessione su un tema cardine nell'ambito della responsabilità medica e sanitaria. Il consenso informato è infatti stato reso oggetto di numerose pronunce da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità che ne hanno via via definito il contenuto natura di atto di esercizio del diritto all'autodeterminazione. Corroborata dagli interventi della dottrina, la riflessione giurisprudenziale si profila in termini ancor più decisivi se sol si consideri che, allo stato, manca una regolamentazione autonoma del tema, ad onta della sua obiettiva centralità, costituita dal rappresentarsi come il tratto “maggiormente caratterizzante” la relazione dialettica fra medico-paziente. E tanto a prescindere dalle tecnicalità della cartella clinica rispetto alle quali il tema si atteggia con una sua diversa e separata identità.

Le soluzioni giuridiche

Val la pena ricordare, in quest'ottica, che nel corso degli ultimi anni, l'istituto in parola è stato oggetto di nuove e sempre più minuziose cesellature che, unitamente considerate, consentono di coglierne gli aspetti essenziali.

E così – con riguardo alla sua radice giuridica – lo spunto di maggiore sintesi è reso da Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16543 secondo cui «il diritto al consenso informato è un vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nella Costituzione (artt. 13 e 32Costituzione), nell'art. 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con l. 28 marzo 2001 n.145, nell'art. 3 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 ed ora giuridificata, nell'art.3, l. 21 ottobre 2005, n.219 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati), nell'art.6 della legge 19 febbraio 2004, n.40 (Norme sulla procreazione medicalmente assistita), nell'art. 33, l. 23 dicembre 1978 n.833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale ), oltre che nell'art.30 del Codice deontologico, ma che soprattutto trova fondamento nell' a priori della dignità di ogni essere umano, che ha trovato consacrazione anche a livello internazionale nell'art.1 del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina del 12 gennaio 1998 n.168

Sul piano, invece, della strutturazione dei contenuti dell'istituto si sono via via affermati i principi in base ai quali il consenso deve essere, anzitutto, personale: deve, cioè, provenire dal paziente, ad esclusione, evidentemente, dei casi di incapacità di intendere e volere (Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748 ); deve poi essere specifico e esplicito (Cass. civ. 23 maggio 2001, n. 7027), reale ed effettivo, con ciò significando che non è consentito il consenso presunto (Cass. civ., 27 novembre 2012, n. 20984); ed ancora, nei casi in cui ciò sia possibile, anche attuale; deve essere inoltre pienamente consapevole, ossia "informato", dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico ( Cass. civ., 27 novembre 2012, n. 20984) e dunque connesso alla reale portata del bagaglio di conoscenze specifiche che il paziente dispone nell'immediatezza di una prestazione (Cass. civ., 4 febbraio 2016, n. 2177).

Diversa invece l'impostazione circa la natura della responsabilità del medico connessa alla violazione del suddetto obbligo. Va dato infatti atto che per molto tempo essaè stata letta al setaccio della regola aquiliana e che, invece, ad oggi è pacificamente ricondotta entro il paradigma della responsabilità contrattuale. Sul punto va infatti precisato che la responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo di acquisirlo discende dal solo fatto della sua condotta omissiva, rilevando soltanto che, a causa del deficit di informazione, il paziente non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni (cfr. Cass. n. Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16543 e n. Cass. civ., 12 giugno 2015, n.12205, tra le altre) e che l'inadempimento dell'obbligo di informazione assume autonomo rilievo nel rapporto contrattuale a prescindere dalla correttezza o meno del trattamento sanitario eseguito o dalla prova che il danneggiato avrebbe rifiutato l'intervento se adeguatamente informato (così, da ultimo, Cass. civ., 14 luglio 2015, n. 14642).

La pronuncia meneghina fa tesoro di questi insegnamenti e ricorda che «nella fattispecie, è avvenuto che il paziente ha prestato un consenso generico su modulo prestampato sui rischi dell'intervento originariamente programmato di (omissis), al quale, in corso di esecuzione delle prime fasi dello stesso, è stato sostituito, per le ragioni che abbiamo visto, il diverso intervento praticato di (omissis). Orbene, non vi è prova che della possibilità di esecuzione di detto diverso intervento chirurgico provvisorio (omissis: l'attore) fosse stato informato. Il Ctu ha ipotizzato in proposito un completamento orale delle informazioni necessarie da parte del chirurgo, ma di ciò non vi è assolutamente evidenza processuale».

L'impostazione della Corte è chiara: nel caso di specie non può obiettivamente affermarsi che il consenso per l'intervento effettuato fosse stato reso, in quanto espresso – in termini di censurabile genericità – con riguardo ad un trattamento sensibilmente diverso da quello dichiarato.

E tanto a prescindere dalla fondatezza del merito di fatto confermata secondo le stesse valutazioni del Giudice di primo grado.

Osservazioni

Il tratto peculiare di questa pronuncia è, però, anche un altro.

Dopo aver deciso la condanna degli appellati in solido al risarcimento del danno non patrimoniale temporaneo relativo al periodo della sofferta Inabilità Temporanea e del danno non patrimoniale relativo al patema d'animo subito, il Giudice, in accoglimento della domanda della struttura ospedaliera appellata, riconosce un diritto di regresso per intero nei confronti del medico inadempiente rispetto all'obbligo di rendere il consenso.

La motivazione è la seguente: «Per giurisprudenza ormai costante di legittimità, la struttura sanitaria, pubblica o privata, presso la quale il sanitario ha operato il suo trattamento negligente o imprudente, deve rispondere dell'operato di questi ai sensi dell'art. 1228 c.c, essendosi avvalsa del lavoro del sanitario per eseguire le obbligazioni relative al rapporto contrattuale intercorrente col paziente. Però, nei rapporti interni fra i debitori solidali della obbligazione del risarcimento dei danni, ai sensi dell'art. 2055 c.c., pacificamente applicabile anche agli illeciti contrattuali, il debito si distribuisce in proporzione delle rispettive colpe. Quindi, nella fattispecie, essendo l'obbligazione del consenso informato stata violata dal chirurgo (omissis), che vi era obbligato personalmente, e non essendo configurabile alcun profilo di colpa dell'Istituto, quest'ultimo avrà regresso per intero nei confronti del (omissis) per quanto pagato allo (omissis).

Questa impostazione – a parere di chi scrive – non è del tutto esente da rilievi critici di segno contrario.

Tanto avendo riguardo ad un dato incontrovertibile, ovvero che l'obbligo di rendere un' informazione completa sui trattamenti da effettuare grava sempre ed in primis sulla struttura, la quale – in forza del contratto atipico di spedalità - deve approntare un'organizzazione tale da consentirne l'esplicazione per il tramite del medico di volta in volta chiamato a modulare la propria condotta in base alle necessità del caso.

Nel caso di specie, peraltro, il consenso era stato raccolto mediante la firma su un modulo “prestampato” di cui sarebbe difficile ipotizzare una strutturazione/confezione in proprio da parte del medico stesso.

Tuttavia il Giudice parla di «alcun profilo di colpa dell'Istituto» desumendo il suo orientamento dalla mera circostanza che l'obbligo di resa dell'informazione sui trattamenti fosse stato (in)adempiuto dal medico, ed al contempo trascurando il dato – obiettivo e parimenti incontrovertibile – che ciò è quanto accade ordinariamente e fisiologicamente.

Se, quindi, si elevasse a regola generale il principio applicato al caso di specie si approderebbe sempre all'idea che la condanna in solido della struttura e del medico potrebbe comunque godere di un facile “salvacondotto” nel riconoscimento di un automatico diritto di regresso integrale della struttura stessa.

Il che scardinerebbe alla radice la ratio e la natura dell'istituto in commento.

Sul punto, pare utile segnalare la diversa impostazione che il Tribunale di Milano aveva già espresso in Trib. Milano, 23 febbraio 2009, n. 2423, in Giustizia a Milano, 2009, 3, 18 e che, ad oggi, sembra essere stata seccamente smentita.

Il tema del consenso informato riceve costantemente nuove coloriture dalle Corti di merito e da quella di legittimità. Nel caso di specie la Corte milanese rammenta – in linea con le indicazioni di Piazza Cavour - che la sua configurabilità prescinde dagli esiti (autonomi) delle valutazioni circa l' (in)sussistenza di responsabilità medico-sanitarie, profilandosi quale istituto a sé stante.

Pur tuttavia nel caso di specie la condanna in solido degli appellati pare quantomeno mitigata dall'affermazione del principio di integrale diritto di regresso da parte della struttura nei confronti del medico, sulla scorta di una riconosciuta “assenza di colpa”.

Questa visione legittima il dubbio che in futuro si possa assistere ad una progressiva deresponsabilizzazione della struttura che – invero – è incontestabile prima protagonista del processo di definizione dei meccanismi di erogazione di quella prestazione complessa che è la prestazione sanitaria.

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