Inaffidabilità dei coefficienti di capitalizzazione per il risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa
29 Giugno 2017
Massima
I coefficienti di capitalizzazione di cui al r.d. n. 1403/1922 non sono utilizzabili ai fini della quantificazione del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno, in quanto non aderenti alla realtà socio economica attuale e, quindi, inidonei ad assicurare l'integrale ristoro del pregiudizio. Inoltre, nel caso in cui il danneggiato sia un libero professionista agli esordi, la quota di reddito perduto non può essere ancorata al reddito percepito nell'anno del sinistro, stante il fisiologico incremento reddituale nel corso della vita lavorativa per effetto di una crescente acquisizione di clientela. Il caso
Tizio, che ha intrapreso da pochi mesi la professione di avvocato, viene investito da Caio mentre si trova alla guida del suo ciclomotore e agisce in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni, incluso quello da perdita della capacità di lavoro e di guadagno. Il tribunale riconosce la piena responsabilità di Caio nella causazione del sinistro e liquida in favore di Tizio una somma determinata, per quanto concerne la voce di danno in questione, moltiplicando l'imponibile fiscalmente dichiarato dal danneggiato per l'esercizio della professione di avvocato nell'anno del sinistro per il coefficiente di capitalizzazione tratto dalla tabella allegata al r.d. n. 1403/1922. Tizio impugna la quantificazione del danno come sopra illustrata, ma la Corte rigetta l'appello; decide allora di ricorrere in Cassazione. La questione
Nella sentenza in commento la Terza Sezione Civile si occupa di due distinte questioni, entrambe rilevanti ai fini della quantificazione del danno c.d. “da perdita della capacità di lavoro e di guadagno”, con ciò intendendosi il danno conseguente alla menomazione della capacità lavorativa specifica che si verifica nei casi di grave invalidità permanente. In tali casi, il giudice può procedere all'accertamento presuntivo della perdita patrimoniale e liquidarla con criteri equitativi. A tal fine, il metodo più corretto è quello della capitalizzazione, che consiste nel moltiplicare il reddito (futuro) perduto dal danneggiato per un coefficiente che consenta di tener conto del c.d. "montante di anticipazione", cioè del vantaggio realizzato dal creditore nel percepire oggi una somma che egli avrebbe concretamente perduto solo in futuro (cfr. ex multis, Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2012, n. 4252). Fin qui, nulla quaestio; ma qual è il coefficiente di capitalizzazione da utilizzarsi ai fini della liquidazione del danno da perdita della capacità di lavoro e di guadagno? E qual è il “reddito perduto” cui applicare il coefficiente di capitalizzazione, specialmente nel caso in cui il danneggiato sia libero professionista? Le questioni giuridiche
I) Se la formula generalmente applicata per calcolare il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno può essere espressa come segue: D = R x C x P – S (dove R = Reddito annuale; C = Coefficiente di capitalizzazione ex r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403; P = Percentuale d'invalidità permanente della riduzione di capacità lavorativa specifica; S = Scarto tra vita fisica e vita lavorativa), potremmo dire che, nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è soffermata sui fattori R (reddito annuo) e C (coefficiente di capitalizzazione). Per quanto riguarda il coefficiente di capitalizzazione, tradizionalmente si è fatto uso di quello applicato nelle tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali approvate con r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403, che però fa riferimento alla durata media della vita agli inizi del ‘900 (sicuramente molto più breve di oggi); considera l'intera vita del vitaliziato (anziché la sola vita lavorativa) e, infine, applica, ai fini del “montante di anticipazione”, il saggio degli interessi legali corrente negli anni Venti (intorno al 4,5%, mentre oggi non arriva all'1%). Ebbene, poiché il coefficiente di capitalizzazione è direttamente proporzionale alla durata della vita e inversamente proporzionale al saggio degli interessi legali, è del tutto evidente che l'applicazione del coefficiente elaborato nel 1922 (quando la vita era più breve e il saggio degli interessi legali più alto) non consenta di ottenere, ai giorni nostri, l'integrale risarcimento previsto dall'art. 1223 c.c.: tant'è che, nel tentativo di “attualizzare” quel coefficiente, in giurisprudenza si è ritenuto legittimo, ad esempio, non tener conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa, al fine di compensare l'allungamento di circa 25 anni della vita fisica dal 1922 a oggi (cfr. Cass. civ., sez. III, 9 maggio 2017 n. 11209; Trib. Parma, sent., 23 ottobre 2007; vedi anche M.DI MARZIO, Novità dalla Cassazione in tema di liquidazione del danno patrimoniale futuro mediante capitalizzazione, in Ridare.it). La sentenza in commento, sotto questo aspetto, conferma l'orientamento più radicale della Terza Sezione Civile, affermando apertis verbis che i coefficienti di capitalizzazione approvati con il r.d. n. 1403 del 1922 non possono essere adottati neppure in via equitativa ex art. 1226 c.c., dovendosi applicare, invece, coefficienti di maggiore affidamento aggiornati e scientificamente corretti «quali ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati dalla dottrina per la specifica materia del risarcimento del danno aquiliano» (un esempio potrebbe trovarsi nel decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 22 novembre 2016, recante “Approvazione delle tabelle dei nuovi coefficienti di capitalizzazione delle rendite di inabilità e di quelle a favore dei superstiti, nonché istruzioni per l'uso delle medesime”). Dunque, i coefficienti del 1922 sono così obsoleti da non poter essere tenuti in vita neppure tentando di attualizzarli. II) Tornando alla formula di calcolo del danno da perdita della capacità lavorativa sopra riportata (D=R x C x P – S), con la sentenza n. 10499 la III Sezione civile si occupa anche del fattore R, cioè del reddito annuo da tenere in considerazione ai fini della liquidazione, con particolare riferimento al caso specifico dell'avvocato reso inabile al lavoro agli esordi della professione. Generalmente, il criterio utilizzato in giurisprudenza è quello del reddito percepito dal danneggiato al momento del sinistro, o, al limite, al momento successivo in cui il danno permanente ha avuto inizio (coincidente di regola con quello della cessazione dell'invalidità temporanea). Nel caso di specie, i giudici di merito avevano fatto riferimento al reddito del danneggiato al momento del sinistro; scelta ritenuta fallace dal Supremo Collegio che, con una decisione di cui non constano precedenti in termini, ha messo in evidenza come «la quota di reddito perduto non può essere ancorata a quello percepito nell'anno del sinistro, in ragione del fatto (pacifico) che il danneggiato aveva soltanto da pochi mesi intrapreso la professione di avvocato, notoriamente caratterizzata, secondo l'id quod plerumque accidit e pur con variabili incidenze legate a contingenze economiche generali e particolari, dal progressivo incremento reddituale nel corso della vita lavorativa, per effetto di una crescente acquisizione di clientela». Conseguentemente, per poter liquidare il danno futuro da incapacità di lavoro in maniera conforme alla regola dell'integralità ex art. 1223 c.c., nel caso di avvocato esordiente la quota di reddito perduta dal soggetto leso andrà individuata in ragione delle peculiarità dell'attività lavorativa svolta, «cioè a dire considerando (con apprezzamento prognostico che tenga altresì conto delle possibili variabili legate a contingenze economiche generali e particolari) la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativo (ad esempio, i cc.dd. studi di settore) o altrimenti stimata in via equitativa». Osservazioni
La sentenza in commento merita il plauso di chi scrive in relazione a entrambe le questioni sopra accennate. In particolare, si condivide appieno la scelta di abbandonare definitivamente il coefficiente di capitalizzazione sotteso alle tariffe del 1922 - che finora è stato tenuto in vita solo mediante acrobatiche operazioni di “attualizzazione” rimesse alla discrezionalità dei giudici e comunque prive dei necessari caratteri di oggettività e certezza - a vantaggio di coefficienti di capitalizzazione più affidabili e aggiornati, che nel nostro ordinamento già esistono. Parimenti apprezzabile pare la scelta di non liquidare il danno con riferimento al reddito percepito al momento del sinistro, bensì alla retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza (scelta che pare applicabile, in via estensiva, a tutte le libere professioni e non solo a quella dell'avvocato). Infatti, se da un lato il reddito da lavoro dipendente, nell'ordinario corso delle cose, è soggetto a variazioni incrementali piuttosto relative (talché quello percepito al momento del sinistro può ben essere preso come base per il calcolo del danno futuro da incapacità di lavoro), dall'altro lato il reddito del libero professionista è soggetto a un fisiologico e consistente incremento (e guai se così non fosse!); e se è vero che non si può stabilire a priori quanto brillante sarebbe stata la carriera dello sfortunato avvocato reso inabile all'inizio del suo percorso, è assolutamente ragionevole ritenere che il principio dell'integralità del risarcimento venga rispettato facendo riferimento al reddito medio della categoria nel corso dell'intera vita lavorativa. |