Valido l’accertamento basato su quanto dichiarato dal sostituto di imposta
19 Giugno 2015
Massima
È da considerare corretto l'accertamento della maggiore IVA nei confronti di un contribuente che ha dichiarato di essere un dipendente ma il suo sostituto di imposta, nel caso in esame l'azienda che gli ha corrisposto i compensi, dichiara invece di essersi avvalso di prestazione di lavoro autonomo.
Il caso
Un contribuente aveva ricevuto un avviso di accertamento concernente l'anno d'imposta 1999, col quale l'Agenzia delle Entrate recuperava l'imposta sul valore aggiunto e gli irrogava le conseguenti sanzioni; tale avviso è stato impugnato davanti alla CTP dal contribuente il quale ha dedotto di aver aperto la partita IVA nel 2006, mentre nel 1999 aveva svolto soltanto lavoro dipendente, non già attività di procacciatore d'affari. Avverso tale avviso di accertamento il contribuente ha proposto appello davanti alla Commissione tributaria provinciale. La Commissione tributaria provinciale ha respinto il ricorso proposto; il contribuente ha impugnato la sentenza davanti alla CTR che lo ha rigettato, facendo leva, a fondamento della pretesa del fisco, sulle dichiarazioni del sostituto d'imposta e rimarcando che il contribuente non aveva fornito idonea prova contraria, mediante esibizione dei CUD dell'epoca, delle sue dichiarazioni dei redditi, dei cedolini paga. Avverso la sentenza sfavorevole il contribuente si è appellato, in ultima istanza, davanti alla Corte di Cassazione; la motivazione principale del ricorso si basava sul presupposto che i giudici del merito avevano tenuto conto di quanto dichiarato dall'amministratore di una SRL che sosteneva di avergli erogato dei compensi in qualità di prestazioni di lavoro autonomo.
La questione
È da rilevare che la figura del procacciatore di affari non è disciplinata da alcuna norma del c.c. o di altre leggi speciali, anche se la relativa attività presenta, sotto il profilo pratico una rimarchevole analogia con quella dell'agente commerciale. Ma è proprio questa circostanza che, per così dire, complica le cose, rendendo il rapporto suscettibile di impreviste insidie per l'impresa che ha conferito un incarico di tal tipo. Mentre la figura del procacciatore di affari non è disciplinata da alcuna norma, l'attività dell'agente commerciale è espressamente regolata da disposizioni del Codice civile (dall'art. 1742 all'art. 1753) da alcune leggi speciali e da accordi economici collettivi. Per differenziare le due figure è sufficiente da un lato, individuare quali sono gli elementi di distinzione tra le due figure e, dall'altro, evidenziare che la professione di agente è una attività protetta. Sotto il primo profilo gli elementi tipici che contraddistinguono il contratto di agenzia sono la stabilità del rapporto e l'esclusiva sulla zona contrattuale, mentre l'attività del procacciatore di affari è sostanzialmente occasionale, non è vincolata ad una zona predeterminata, e non è suscettibile di esclusiva. Sotto il secondo profilo è da tener ben presente che l'attività di agente di commercio è una attività protetta in quanto il relativo esercizio è subordinato alla iscrizione ai ruoli camerali. Peraltro colui che esercita l'attività di agente o rappresentante di commercio senza essere iscritto nell'apposito ruolo, nonché la ditta che stipula un contratto di agenzia con persone non iscritte, è soggetto ad una sanzione amministrativa.
Le soluzioni giuridiche
I Giudici di legittimità osservano che la prova della pretesa erariale si è basata non già, come sostiene il contribuente col primo motivo, «esclusivamente su una annotazione di (.....)», bensì sulle «dichiarazioni dei sostituti d'imposta per gli anni 1998, 1999, 2000». Il giudice d'appello, inoltre, non ha negato in astratto e, dunque, in diritto, l'idoneità probatoria della scrittura dell'imprenditore esibita dal contribuente ricorrente, ma l'ha fatto in concreto, escludendone attendibilità e rilevanza, non constandogli la qualità di amministratore all'epoca dei fatti, e, dunque, la fonte di conoscenza delle circostanze riportate nella scrittura. Nessuna contraddittorietà per conseguenza si rileva nelle argomentazioni della sentenza, ma una valutazione dei mezzi di prova offerti, rimessa in via esclusiva al giudice di merito, salvo lo scrutinio riguardo alla congruità della relativa motivazione. È irrilevante, osservano i giudici della Corte di Cassazione, la censura del contribuente alla sentenza dei giudici del merito, là dove punta su elementi quali la mancata emissione di fatture e l'omesso versamento dell'IVA ed il mancato pagamento dei contributi Enasarco (l'affermata assenza di organizzazione autonoma), si risolve in una valutazione alternativa del materiale probatorio, spettando, invece, al giudice di merito d'individuare i fatti da porre a fondamento del processo logico presuntivo e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge. Per la Corte di Cassazione è infondata la motivazione del ricorso, col quale il contribuente si è lamentato della nullità della sentenza per violazione del principio della domanda ex art. 112 c.p.c., nella parte in cui la CTR non avrebbe esaminato la questione della conformità a costituzione del divieto di prova testimoniale nel processo tributario. I giudici di legittimità , in conclusione, respingono il ricorso del contribuente e confermano la sentenza della CTR. Osservazioni
La statuizione della sentenza di per sé non si pone in contrasto col principio di diritto, in base al quale nel processo tributario, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale posto dall'art. 7, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, va riconosciuto non soltanto all'Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente, con il medesimo valore probatorio, dandosi così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell'art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l'effettività del diritto di difesa. |