Agevolazioni “prima casa”: la decadenza non si applica agli accordi di separazione
10 Novembre 2017
Massima
In caso di mancato trasferimento della residenza nell'immobile adibito a prima causa nel termine di 18 mesi dalla data del rogito, la decadenza dai benefici fiscali non opera se, nel frattempo, la quota del marito su detto immobile è stata trasferita alla moglie nell'ambito degli accordi di separazione. Il caso
In fattispecie relativa ad avviso di liquidazione e irrogazione di sanzioni con cui sono state revocate le agevolazioni cd. "prima casa" su immobile acquistato dal contribuente in comunione legale con la moglie, per non avere egli trasferito la propria residenza nel Comune entro il termine decadenziale di 18 mesi dalla data del rogito (22 gennaio 2010), il giudice d'appello ha ritenuto irrilevante — perché riconducibile alla volontà dello stesso contribuente — la sopravvenuta cessione (in data 4 marzo 2011) della propria quota del 50% alla moglie (già residente in detto Comune), in luogo dell'indennità di mantenimento ed in adempimento di una condizione della separazione consensuale omologata dal Tribunale di Roma in data 29 novembre 2010.
Il contribuente impugna la sentenza d'appello per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1, nota II-bis, comma 4, della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in quanto il trasferimento della quota di proprietà, per fatto imprevedibile sopravvenuto, era intervenuto entro il termine decadenziale di 18 mesi ed aveva posto il contribuente nell'impossibilità di trasferirvi la residenza. La questione
La questione è se la decadenza dai benefici c.d. “prima casa” per mancato trasferimento della residenza nel Comune ove è ubicato l'immobile si applica anche nell'ipotesi in cui la quota di detto immobile sia stata ceduta da un coniuge all'altro in adempimento di un accordo di separazione. Le soluzioni giuridiche
L'art. 1, nota, II-bis, comma 1 della tariffa parte I (Atti soggetti a registrazione in termine fisso) allegata a. d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, lett. a): “Ai fini dell'applicazione dell'aliquota del 2 per cento agli atti traslativi a titolo oneroso della proprieta' di case di abitazione non di lusso e agli atti traslativi o consuntivi della nuda proprieta', dell'usufrutto, dell'uso e dell'ambientazione relativi alle stesse, devono ricorrere le seguenti condizioni: a) che l'immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l'acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall'acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l'acquirente svolge la propria attività ovvero, se trasferito all'estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l'attività il soggetto da cui dipende ovvero, nel caso in cui l'acquirente sia cittadino italiano emigrato all'estero, che l'immobile sia acquisito come prima casa sul territorio italiano. La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel comune ove è ubicato l'immobile acquistato deve essere resa, a pena di decadenza, dall'acquirente nell'atto di acquisto”.
Il successivo comma 4 prevede, poi, che “In caso di dichiarazione mendace, o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente articolo prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una sovrattassa pari al 30 per cento delle stesse imposte”.
La Suprema Corte, nel dare risposta al quesito di cui sopra, ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale espressione di un favor fiscale per i negozi regolatori della vita familiare, anche nella fase patologica della crisi coniugale.
In base a tale orientamento, il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui ove l'immobile acquistato sia adibito a destinazione familiare non rileva la diversa residenza di uno dei due coniugi che abbiano acquistato in regime di comunione; per altro verso, l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici cosiddetta "prima casa", bensì una modalità di utilizzazione dello stesso per la migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi in vista della cessazione della loro convivenza.
Dunque, alla stregua di tali principi, non può essere sanzionata la condotta del coniuge che non ottempera all'impegno di trasferire la residenza nel Comune ove si trova la “prima casa”, perché ha, medio tempore, ceduto la propria quota del predetto immobile all'altro coniuge in adempimento degli accordi di separazione.
In questo caso, infatti, il requisito della “residenza”, da intendersi riferito alla “famiglia”, deve ritenersi rispettato in ragione del fatto che l'altro coniuge già risiede nel Comune in cui è ubicata la prima casa. Più in generale, questo orientamento di favore per il contribuente si spiega con la tendenza dell'ordinamento ad agevolare, anche dal punto di vita fiscale, la conclusione di accordi regolatori della crisi matrimoniale.
A tal riguardo non può non essere richiamato l'art. 19 della L. 6 marzo 1987, n. 74, che ha introdotto, l'esenzione dall'imposta di bollo, di registro e da qualsiasi altra forma di tassazione relativa ai provvedimenti di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili, nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della L. 1° dicembre 1970, n. 898.
La genericità della formulazione normativa nonché la querelle relativa all'applicazione della norma esclusivamente ai giudizi di divorzio e non a quelli di separazione ha portato la Corte costituzionale ad intervenire a più riprese (la sentenza 2 aprile 1992, n. 176), fino a che, con la pronuncia 10 maggio 1999, n. 154, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del citato art. 19 nella parte in cui non estendeva l'esenzione da ogni tributo a tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi. In tale ottica si è collocata la stessa Agenzia delle Entrate (Risoluzione n. 151/E del 19 ottobre 2005, confermata dalla Risoluzione n. 372/E del 14 dicembre 2007; Circolare n. 27/E del 21 giugno 2012), mentre, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l'art. 19 è stato per lungo tempo interpretato in senso restrittivo, anche a seguito della citata pronuncia della Corte costituzionale.
Fin dalla sentenza n. 15231 del 3 dicembre 2001, infatti, la Corte, recepita la distinzione tra contenuto necessario ed eventuale degli accordi di separazione, ha chiarito che "le agevolazioni di cui all'art. 19 L. 6 marzo 1987 n. 74, come interpretato e modificato dalla Corte Cost. con sentenza n. 154/1999, operano — quanto agli atti ed accordi finalizzati allo scioglimento della comunione tra i coniugi conseguente alla separazione — limitatamente all'effetto naturale della separazione, costituito dallo scioglimento automatico della comunione legale, e non competono con riferimento ad atti — solo occasionalmente generati dalla separazione — di scioglimento della comunione ordinaria tra gli stessi coniugi, che ben potrebbe persistere nonostante la separazione".
La scelta di tale interpretazione giurisprudenziale, di non ritenere sovrapponibili "gli atti stipulati in occasione della separazione e del divorzio" con gli "atti relativi al procedimento di separazione e divorzio", ex art. 19 in esame, era riferita alla possibile finalità elusiva degli accordi estranei al contenuto essenziale della separazione, che trovavano occasione d'inserimento nel relativo procedimento unicamente per il conseguimento di un indebito risparmio fiscale. Con la recente pronuncia n. 3110 del 17 febbraio 2016, la Suprema Corte ha superato la vetusta e formalistica distinzione tra contenuto essenziale o eventuale degli accordi di separazione ai fini fiscali. In tale maniera determinando, quindi, una applicazione generalizzata dell'esenzione prevista dalla Legge n. 74/1987 anche agli accordi di separazione. È stato, infatti, riconosciuto il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione che, anche attraverso la previsione di trasferimenti mobiliari o immobiliari, siano volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale, destinata a sfociare, di lì a breve, nella cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario o nello scioglimento del matrimonio civile, cioè in un divorzio non solo prefigurato, ma voluto dalle parti, in presenza delle necessarie condizioni di legge. In tale contesto non sembra, infatti, potersi più ragionevolmente negare — quale che sia la forma che i negozi concretamente vengano ad assumere — che detti negozi siano da intendersi quali "atti relativi al procedimento di separazione o divorzio", che, come tali possono usufruire dell'esenzione di cui all'art. 19 della L. n. 74/1987 nel testo conseguente alla pronuncia n. 154/1999 della Corte Costituzionale, salvo che l'Amministrazione contesti e provi la finalità elusiva degli atti medesimi.
Osservazioni
L'orientamento seguito dalla pronuncia in esame non è, però, univoco.
Si deve, infatti, rilevare l'esistenza di un orientamento diverso, secondo cui deve essere revocata l'agevolazione concessa in occasione dell'acquisto dell'abitazione principale laddove la cessione avvenuta entro i cinque anni in favore dell'altro coniuge in esecuzione degli accordi di separazione, non sia stata seguita dall'acquisto entro un anno dall'alienazione di altro immobile da adibire ad abitazione principale (Cass. civ., 3 febbraio 2014, n. 2263).
Inoltre, si segnala altro orientamento, secondo cui la decadenza dall'agevolazione può essere esclusa solo da cause di forza maggiore e non può essere fatta rientrare in questa ipotesi la separazione dei coniugi con conseguente alienazione dell'immobile agevolato all'ex coniuge che non abbia ancora trasferito la propria residenza nel comune in cui si trova l'immobile stesso (Cass. civ., 14 luglio 2014, n. 16082).
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