La presunzione di validità del canone a scaletta nelle locazioni ad uso commerciale

Fulvio Troncone
15 Novembre 2017

Investita ancora una volta della questione della legittimità del c.d. canone a scaletta nelle locazioni di immobili ad uso commerciale, la Suprema Corte ribadisce e rafforza l'orientamento più recente che sancisce la validità di siffatta modalità di determinazione del canone anche in assenza di specifiche giustificazioni causali...
Massima

Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati a uso abitativo, deve ritenersi legittima la previsione di un canone crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, purché il criterio della sua progressiva variazione in aumento sia obiettivamente prestabilito, al momento della stipula del contratto, e non risulti - dal testo del contratto medesimo o da elementi extratestuali della cui allegazione è onerato chi invoca la nullità della clausola - che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi previsti dall'art. 32 della l. 392/1978, così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, comma 1, della stessa legge.

Il caso

Su richiesta della società locatrice, il Tribunale di Bassano del Grappa convalidava lo sfratto per morosità intimato, al contempo ingiungendo il pagamento dell'importo di complessivi euro 26.587,21, oltre spese di procedura e accessori, alla società conduttrice e, in via solidale, ai soci illimitatamente responsabili. Questi ultimi proponevano opposizione, deducendo l'illegittima maggiorazione dei canoni prevista contrattualmente, con contestuale richiesta di ripetizione degli importi corrisposti in eccedenza, anche tramite compensazione.

Con sentenza depositata in data 2 novembre 2011 e confermata, in grado d'appello, in data 5 maggio 2014, erano rigettate l'opposizione e le domande riconvenzionali proposte dai soci illimitatamente responsabili.

Questi ultimi proponevano ricorso per Cassazione che veniva, tuttavia, integralmente rigettato.

La questione

Si tratta di verificare se e in che termini la clausola apposta al contratto di locazione ad uso non abitativo prevedente la maggiorazione del canone a scaletta sia legittima in considerazione del disposto di cui all'art. 32 della l. n. 392/1978.

Le soluzioni giuridiche

Com'è noto, il principio della libera determinazione del canone per le locazioni ad uso diverso va coordinato con i limiti fissati dall'art. 32 della l. n. 392/1978, letto in combinato disposto con il successivo art. 79, per cui «le parti possono convenire che il canone di locazione sia aggiornato annualmente su richiesta del locatore per eventuali variazioni del potere di acquisto della lira. Le variazioni in aumento del canone, per i contratti stipulati per durata non superiore a quella di cui all'articolo 27, non possono essere superiori al 75 per cento di quelle, accertate dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati».

In linea generale, l'aggiornamento del canone non costituisce un effetto legale naturale del contratto, bensì presuppone la stipula di una specifica clausola di aggiornamento della misura del canone, eventualmente convenuta anche in un accordo successivo all'insorgere del rapporto locativo, non essendo richiesta la contestualità (Cass. civ, sez. III, 19 dicembre 2000, n. 15948).

La legge prevede che, per i contratti la cui durata non sia superiore a quella di cui all'art. 27, le variazioni in aumento del canone non possano essere superiori al 75% di quelle, accertate dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati; mentre, qualora le parti stipulino contratti aventi durata superiore a quella minima di legge, è possibile convenire una clausola di aggiornamento del canone non necessariamente riferita all'indice ISTAT e in misura non ristretta dal limite percentuale del 75%. Si tratta di quest'ultima, di una facoltà che è il portato della modifica normativa del comma 2 dell'art. 32 della l. n. 392/1978, apportata dalla l. n. 14/2009, di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, entrata in vigore il 1° marzo 2009, applicabile ai contratti stipulati a partire da tale data o anche a quelli in corso a tale data, qualora le parti abbiano stipulato una specifica pattuizione al riguardo (Cass. civ, sez. III, 17 gennaio 2012, n. 550).

La disposizione della l. n. 392/78 è stata tradizionalmente interpretata nel senso di vietare ogni variazione in aumento del canone sganciata dal mutamento del potere di acquisto della moneta: infatti, per giurisprudenza ogni pattuizione avente ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell'art. 32 della l. n. 392/1978, ma veri e propri aumenti del canone, costituisce un'ipotesi di nullità del contratto in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto per legge (Cass. civ, sez. III, 23 giugno 2016, n. 13011; Cass. civ, sez. III, 3 maggio 2011, n. 8733). Si tratta di una nullità parziale e relativa ex artt. 1419 c.c. e 79 della l. n. 392/1978, limitata alla differenza maggiorativa ed eccepibile solo dal conduttore.

In questo composito quadro normativo e giurisprudenziale si colloca la pronuncia in rassegna, che affronta un'ipotesi assai frequente nei traffici commerciali costituita dalla previsione di aumenti graduali e differenziati nel tempo del canone.

Nella disamina delle clausole contemplanti il c.d. canone a scaletta si ritrova in giurisprudenza la considerazione preliminare attinente all'eccezionalità della disposizione citata, in quanto derogativa del principio generale di libera determinazione del corrispettivo proprio delle locazioni ad uso diverso e, come tale, non suscettibile di applicazione analogica. Altrimenti detto, poiché non è previsto un meccanismo legale di determinazione corrispondente all'equo canone, vige in ambito di locazioni ad uso diverso il principio della libera determinazione convenzionale del canone; principio per l'appunto eccezionalmente derogato dall'art. 32 della l. n. 392/1978 per le clausole di aggiornamento per variazioni del potere di acquisto della moneta o clausole ISTAT con disposizione insuscettibile di applicazione analogica alle altre clausole contrattuali volte ad incrementare il valore reale del canone per diverse e successive frazioni del medesimo rapporto, da ritenere valide salvo che non rappresentino il concreto mezzo per eludere il limite posto dalla norma sopra indicata (Cass. civ, sez. III, 26 febbraio 1999, n. 1683; Cass. civ, sez. III, 19 agosto 1991, n. 8883; Cass. civ, sez. III, 3 agosto 1987, n. 6695). Secondo Cass. civ, sez. III, 8 marzo 1993, n. 2770, e Cass. civ, sez. III, 9 luglio 1992, n. 8377, la clausola di canone cd. a scaletta deve, invece, considerarsi in via di principio nulla, a meno che le maggiorazioni non siano collegate sinallagmaticamente all'ampliamento della controprestazione.

Dal che discende l'affermazione della Suprema Corte (Cass. civ, sez. III, 1 febbraio 2000, n. 1070) per cui la previsione pattizia di canoni in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto (c.d. canone a scaletta) è legittima solo se ancorata a elementi predeterminati ed idonei ad influire sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere d'acquisto della moneta (come ad esempio: variazione del valore locativo dell'immobile in dipendenza dello sviluppo urbano, della dotazione di maggiori servizi nella zona; della concentrazione di immobili destinati ad uso concorrenziale; ed in generale dei fattori ambientali ritenuti tali da incidere sullo sviluppo commerciale della zona), salvo che risulti che le parti abbiano in realtà surrettiziamente perseguito lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall'art. 32 della l. n. 392/1978 (Cass. civ, sez. III, 29 novembre 2016, n. 21237).

Dal canto suo, la Suprema Corte (Cass. civ, sez. III, 30 settembre 2015, n. 19524) se, per un verso, ribadisce la radicale nullità di ogni variazione del canone estranea al mutato potere di acquisto della moneta, d'altro lato, condiziona l'ammissibilità del c.d. aumento a scaletta alla sua riferibilità ad elementi oggettivi predeterminati ed idonei, come tali, ad influire sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale. Allo stesso modo altre pronunce (Cass. civ, sez. III, 12 marzo 2015, n. 4933 e Cass. civ, sez. VI/III, 17 maggio 2011, n. 10834) hanno ritenuto ammissibile la riduzione del canone per un limitato periodo iniziale (ad esempio nel fatto che la conduttrice avrebbe dovuto eseguire lavori di ristrutturazione per l'adattamento dell'immobile all'attività a cui intendeva destinarlo) sempre che non rappresenti un espediente per derogare al divieto di variazione previsto dalla norma imperativa (conformi anche, sul punto, Cass. civ, sez. III, 5 marzo 2009, n. 5349; Cass. civ, sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4210; Cass. civ, sez. III, 8 maggio 2006, n. 10500; Cass. civ, sez. III, 24 giugno 1997, n. 5632; in particolare Cass. civ, sez. III, 10 giugno 1996, n. 5360 ha ritenuto legittima la clausola in cui era stata concordata una riduzione del canone annuo pattuito per agevolare il conduttore nel primo periodo nella sua attività economica).

È opinione giurisprudenziale che non sono stati imposti limiti all'autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, ivi compreso quello alla corresponsione dell'indennità di avviamento commerciale.

Di fronte a tale impostazione tradizionale, decisamente innovativo è il principio di diritto espresso dalla pronuncia in commento.

Invero, essa si pone nella scia di Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2016 n. 22908 e Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2016 n. 22909, che hanno ampiamente argomentato e sostenuto la legittimità della clausola con cui venga pattuita l'iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo, sia mediante il frazionamento dell'intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione, sia correlando l'entità del canone all'incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei contraenti, sull'equilibrio economico del sinallagma: nello stesso senso, sia pure limitatamente all'indicazione della necessità di ancorare la previsione in disamina alla evidenziazione di elementi predeterminati incidenti sul sinallagma contrattuale (Cass. civ, sez. III, 6 ottobre 2016, n. 20014).

La svolta della Suprema Corte operata con le pronunce “gemelle” nn. 22908/22909, e ribadita da quella in commento, consiste nel ritenere che il riferimento (talora contenuto in talune decisioni della Corte di cassazione) al significato «condizionante» (in senso, per così dire, «sospensivo» del pieno esercizio della libertà contrattuale) dei c.d. elementi predeterminati e idonei ad influire sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta sia da ascrivere a un'incongrua e impropria trasmissione della corretta e lineare ratio interpretativa originariamente fatta propria da Cass. civ., sez. III, 3 agosto 1987, n. 6695 al cui insegnamento si è inteso tornare a riferirsi, come lettura più corretta e coerente del testo legislativo oggetto d'esame.

Nel 2016, la Cassazione ha così voluto assicurare continuità allo stesso insegnamento, attraverso l'affermazione dei seguenti principi di diritto: alla stregua del principio generale della libera determinazione

convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l'iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto; e ciò, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell'intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l'entità del canone all'incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull'equilibrio economico del sinallagma.

Osservazioni

Secondo l'impostazione tradizionale, sotto il profilo processuale, anche nel caso di clausola convenzionale di aumento con la specificazione di elementi predeterminati ed evidenziati nel contratto, l'onere di provare la sua conformità al sistema normativo richiamato incombe a chi se ne giova, e cioè al locatore (Cass. civ, sez. III, 1 febbraio 2000, n. 1070). Per contro, corollario del nuovo orientamento che predica la legittimità di tale previsione pattizia - anche in assenza dell'ancoraggio della clausola ad elementi predeterminati e rilevanti sinallagmaticamente - è quello di gravare il conduttore di fornire la prova dell'elusione fraudolenta della normativa appena richiamata. In tale prospettiva si è affermato che la legittimità di tale clausola deve essere esclusa laddove, dal testo contrattuale o da elementi extratestuali, della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullità della clausola, risulti che le parti abbiano in realtà proseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall'art. 32 della l. n. 392/1978 - nella formulazione originaria ed in quella novellata dall'art. 1, comma 9-sexies, della l. n. 118/1985 - così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, comma 1, della stessa legge (Cass. civ, sez. III, 28 luglio 2014, n. 17061; Cass. civ, sez. VI/III, 23 giugno 2011, n. 13887; Cass. civ, sez. III, 6 ottobre 2005, n. 19475).

Orbene, la soluzione adottata dalla pronuncia in commento, avuto riguardo all'affermazione della piena legittimità della previsione di variazioni del canone di locazione nel corso del rapporto di locazione, è senz'altro condivisibile e rafforza ulteriormente l'orientamento già da qualche tempo affermatosi nell'àmbito della giurisprudenza di legittimità.

Essa è del tutto conforme alla scelta legislativa di voler assicurare la piena libertà contrattuale in punto di determinazione del canone in sede di stipula del contratto di locazione di immobili ad uso diverso. Non v'è allora dubbio che ogni limitazione alla stessa abbia carattere eccezionale, per cui esige una declinazione ermeneutica rigorosa ed è insuscettibile di applicazione analogica.

Invero, gli Ermellini argomentano proprio sulla scorta del dato testuale dell'art. 32 della l. n. 392/78, evidenziando come esso tenga distinti due concetti: l'«aumento», che implica un accrescimento non solo dell'importo nominale, ma anche del valore reale del corrispettivo dovuto dal conduttore e l' «adeguamento», che importa soltanto una variazione della quantità monetaria del canone in funzione della conservazione nel tempo del suo valore effettivo. E sul piano testuale l'art. 32 cit. fa riferimento esclusivo agli «aggiornamenti» e non anche alle maggiorazioni o agli aumenti.

È, quindi, opinione del Supremo Collegio che l'art. 32 in parola si riferisca unicamente all'ipotesi di aggiornamento del canone di locazione al mutato potere d'acquisto della moneta e non anche alla predeterminazione di aumenti del canone in corso di rapporto mediante una determinazione differenziata legata al decorso del tempo, a meno che essa, in via fraudolenta, sia volta ad eludere il limite normativo dianzi delineato.

Al riguardo, osserva rettamente la Corte regolatrice che il canone da corrispondersi va analizzato alla stregua del complessivo programma contrattuale, tenendo conto non certo dell'importo dovuto mensilmente, quanto piuttosto del complessivo quantum a corrispondersi nel corso dell'intera durata del rapporto, di modo che, percepito in tal senso la relativa previsione contrattuale, poco rileva come i contraenti abbiano determinato di distribuire nel tempo la corresponsione di tale intera somma, se, cioè, suddividerla in canoni mensili sempre uguali oppure in somme differenziate nel tempo, senza che, a tal fine, le parti abbiano inteso di preservare il sinallagma del contratto dagli effetti inflattivi.

Sulla scorta di tale complesso ragionamento, la Corte conclude che la predeterminazione di un canone c.d. a scaletta non collide con i limiti imperativi posti dall'art. 32, comma 2, della l. n. 392/1978 alle pattuizioni in tema di aggiornamento ISTAT, trattandosi di clausole preposte a funzioni assolutamente diverse, senza che - e in ciò si ritrova la reale innovazione di tale novello orientamento - l'espressa indicazione dei motivi giustificativi della scelta della maggiorazione periodica del canone costituisca una condizione di validità della pattuizione.

Sotto il profilo processuale, in linea con quanto anticipato sopra, la Corte ribadisce che qualora il conduttore deduca che una clausola del contratto di locazione, formalmente valida, abbia lo scopo di eludere una norma imperativa e, di conseguenza, si ponga in frode alla legge, incombe su quest'ultimo l'onere di provare tale assunto. Ricade, allora, sul conduttore l'onere di provare che il canone a scaletta costituisca una previsione non finalizzata distribuire, nell'arco della durata del rapporto, l'importo complessivamente dovuto dal conduttore secondo una logica di crescente impegno economico, bensì è fraudolentemente volta ad aggirare la regola posta dall'art. 32, comma 2, della l. n. 392/1978.

Guida all'approfondimento

Cuffaro, Le clausole di determinazione del canone nelle locazioni ad uso diverso dall'abitazione, in Corr. giur., 2017, fasc. 3, 315;

Nucera, L'aggiornamento del canone nelle locazioni ad uso diverso dall'abitativo alla luce delle ultime modifiche legislative, in Arch. loc. e cond., 2010, fasc. 3, 243;

Cuffaro, Il nuovo aggiornamento del canone nei contratti ad uso diverso dall'abitativo, in Arch. loc. e cond., 2009, fasc. 3, 221;

De Tilla, È valida solo a certe condizioni la clausola che prevede il canone in misura frazionata e crescente, in Riv. giur. edil., 2007, II, 73;

Giove, Sulla validità della clausola di aumento del canone di locazione, in Nuova giur. civ. comm., 2001, fasc. 1, 43.

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