L'accertamento del nesso causale per la morte da esposizione professionale ad amianto nel processo Enel di Chivasso

19 Aprile 2018

Morte professionale da amianto: accertamento dell'esistenza di una effettiva relazione causale tra il mancato approntamento, da parte di ciascun imputato, di idonee misure prevenzionistiche e il verificarsi della patologia e (successivamente) della morte dei quattro lavoratori.
Massima
In base alla disciplina dettata dall'art. 41 c.p. vi è una sostanziale equiparazione, sul piano normativo, tra tutti i fattori causali, preesistenti, concomitanti e successivi; sicché la presenza di un determinato fattore esclude gli altri soltanto quando sia sopravvenuto e da solo sufficiente a determinare l'evento.Tale condizione, secondo l'orientamento accolto dalla giurisprudenza di legittimità, ricorre in presenza di un processo causale del tutto autonomo o di un processo non completamente avulso dall'antecedente ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.Nel caso di specie, essendosi in presenza di fattore causale (l'esposizione a amianto) riferibile ad un medesimo insediamento produttivo, operante in maniera continuativa per diversi decenni, deve escludersi che i periodi di esposizione della sostanza successivi al primo – periodi convenzionalmente frazionati al fine di poterli riferire, secondo le regole della responsabilità penale, ai singoli dirigenti, ma in realtà riconducibili ad un contesto chiaramente unitario – possano essere ricondotti nell'ambito dei menzionati fattori di interruzione del nesso causale.
Il caso
La presente vicenda giudiziaria si inserisce a pieno titolo tra le molte incardinate, in questi anni, avanti alleautorità giurisdizionali di tutta Italia nell'ambito delle c.d. morti professionali da amianto. Anche in questo caso si trattava di stabilire, in buona sostanza, la sussistenza – o meno – di una responsabilità penale a titolo colposo, in capo ad amministratori e dirigenti di impresa, in relazione alla morte di lavoratori occorsa in conseguenza di patologie di natura tumorale (in specie mesotelioma pleurico e carcinoma polmonare) correlate all'inalazione di fibre di amianto aerodisperse negli ambienti di lavoro, presumibilmente riconducibile, in varia misura, al periodo di tempo da essi trascorso alle dipendenze del datore di lavoro in questione. Questo, in sintesi, il fatto: tre ex manager della centrale Enel di Chivasso (To) venivano chiamati a rispondere del reato di omicidio colposo plurimo, aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, in relazione alle morti per mesotelioma pleurico di quattro lavoratori della centrale, intervenute fra il 2003 e il 2006 e ricondotte – secondo la tesi d'accusa – a una pluriennale esposizione a fibre di asbesto verificatasi nel corso delle lavorazioni presso la stessa centrale, posto che, sin dalla costruzione della struttura, era stato fatto un massiccio impiego di materiali contenenti amianto per la coibentazione degli impianti. In particolare, ai fini dell'imputazione elevata a carico degli imputati, i periodi temporali cui ricondurre le esposizioni causalmente rilevanti per l'insorgenza delle malattie – individuati in relazione alla rispettiva durata in carica di ciascuno dei tre – possono farsi risalire, in linea generale, agli anni compresi fra il 1968 e il 1990. La decisione in commento si colloca all'esito di un iter giudiziario decennale in cui, al giudizio di merito conclusosi, nel 2012, con un inatteso esito assolutorio, era seguito l'annullamento pronunciato dalla Corte di Cassazione, nel febbraio 2014, con rinvio alla Corte d'appello di Torino per il riesame delle problematiche sottese al nesso di causalità, da condurre alla luce di una più specifica ed approfondita metanalisi della letteratura scientifica disponibile; nell'ambito del giudizio rescissorio così instauratosi, e conclusosi con la condanna degli imputati, la palla è poi tornata, nell'ottobre 2017, nelle mani della Suprema Corte che, sul ricorso degli imputati, si è definitivamente espressa confermando le condanne.
La questione

Nell'ambito di una vicenda processuale articolata e complessa come quella in esame, i profili di interesse, sotto il profilo giuridico, possono essenzialmente ridursi a due nuclei tematici, che la Suprema Corte ben sintetizza in incipit della motivazione:

  • da un lato l'accertamento dell'esistenza di una effettiva relazione causale tra il mancato approntamento, da parte di ciascun imputato, di idonee misure prevenzionistiche e il verificarsi della patologia e (successivamente) della morte dei quattro lavoratori;
  • dall'altro lato, quanto all'elemento soggettivo, la configurabilità di un giudizio di rimproverabilità a carico dei tre imputati.

Quanto al primo profilo, la stessa Corte di cassazione è stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi e ha fornito soluzioni contrastanti.

In particolare, gli ultimi approdi giurisprudenziali evidenziano una contrapposizione assai netta tra due differenti approcci epistemologici in ordine alla questione – certamente tra le più dibattute – del c.d. effetto acceleratore(invero discusso anche presso la stessa comunità scientifica). Secondo un primo approccio, l'adesione al modello esplicativo dell'effetto acceleratore consentirebbe di attribuire rilievo causale non solo alle esposizioni che hanno "innescato" la patologia ma anche alle condotte che hanno determinato la protrazione dell'esposizione dannosa dopo l'iniziazione del processo patogenetico; ciò si deve alla riscontrata correlazione – sul piano epidemiologico – tra l'aumento della dose di esposizione (per entità o durata) e l'aumento del rischio di insorgenza della patologia tumorale (c.d. modello dosedipendente).

Un diverso approccio, d'altro canto, ritiene che il modello esplicativo dell'effetto acceleratore non sia applicabile al singolo caso posto all'attenzione del giudice penale, poiché si tratterebbe di un mero dato statistico, valido in termini di causalità generale ma privo di qualunque portata esplicativa sul piano della causalità individuale. Secondo questa linea interpretativa, in sintesi, sarebbe impossibile affermare una correlazione processualmente certa, sul piano del nesso causale, tra la condotta dell'imputato e il singolo evento-morte, così come in concreto verificatosi.
Le soluzioni giuridiche
Muovendo dal primo profilo in discussione, relativo all'accertamento del nesso causale tra condotta ed evento, la decisione chiarisce quali sono i presupposti empirici – le leggi scientifiche di copertura – da cui occorre muovere per ogni ulteriore valutazione. Sotto un primo profilo si ribadisce, anzitutto, che il mesotelioma, anche nelle fattispecie qui esaminate, rinviene, con alto grado di probabilità, nell'esposizione ad amianto un proprio antecedente causale e che, d'altro canto, mancano valide ricostruzioni alternative in ordine alla sua origine. Da qui la predicabilità di un rapporto di causa-effetto tra esposizione e patologia. Ciò premesso, sotto un secondo profilo, la Corte riafferma la validità della c.d. teoria multistadio della cancerogenesi: stando a tale modello scientifico, il primo momento rilevante va ricercato nella esposizione iniziale che (a prescindere dall'entità della dose di fibre inalate) innesca la fase della c.d. induzione; durante tale fase si assiste alla progressiva modificazione cellulare, che determina la diffusione della neoplasia, fino a giungere ad uno stadio di irreversibilità del processo cancerogeno così innescato; qui si colloca quindi l'inizio della c.d. latenza, che indica il periodo di tempo compreso tra la fine del periodo di induzione e la manifestazione clinica della patologia.Detto che, al termine della fase di induzione, il processo cancerogeno innescato diviene assolutamente irreversibile, parimenti incontestata, per l'effetto, è la irrilevanza causale delle esposizioni successive al termine del periodo di induzione rispetto al prodursi della patologia tumorale e, quindi, all'evento morte che ne consegua. Ebbene, sul piano dell'accertamento fattuale, i problemi principali derivano dalla impossibilità di stabilire con sufficiente precisione la collocazione temporale (inizio e termine) della fase di induzione (durante la quale, in base alla teoria accolta, ogni ulteriore esposizione all'agente cancerogeno costituisce, in astratto, una concausa dell'evento) e, conseguentemente, la durata della latenza.Ciò significa, in altri termini, che non è possibile stabilire da quale momento in poi, per ciascuno dei lavoratori deceduti a causa del mesotelioma, la patologia sia divenuta irreversibile; il che, di conseguenza, impedisce di giudicare come rilevanti o irrilevanti, sul piano causale, le esposizioni ad amianto patite dalle vittime nel periodo di durata in carica di ciascun manager tratto a giudizio. Questa, in effetti, è l'obiezione principale attorno a cui ruota la difesa degli imputati ma alla quale la Suprema Corte replica fermamente giudicandola non dirimente. Afferma la Corte: presa quale riferimento la incontestabile natura dose-dipendente del mesotelioma in rapporto all'esposizione ad amianto e appurata la predicabilità di un effetto acceleratore (sul piano epidemiologico) tra aumento dell'esposizione e aumento del rischio di ammalarsi, ne deriva – per logica conseguenza – che tutti i periodi di esposizione antecedenti al termine del periodo di induzione della malattia hanno certamente concorso a determinare la patologia neoplastica e, conseguentemente, la morte: essi sono, pertanto, da considerare alla stregua di vere e proprie concause dell'evento verificatosi, ex art. 41 c.p. Il ragionamento muove, peraltro, dalla considerazione che – pur non potendo essere collocati temporalmente con precisione i periodi di induzione e latenza della patologia per ogni singolo lavoratore – i dati scientifici epidemiologici ampiamente condivisi in letteratura collocano il termine della fase di induzione, per la gran parte dei casi osservati,tra il decimo e il quindicesimo anno antecedente alla diagnosi. Posto che, nel presente caso, le esposizioni patite dalle vittime presso la centrale Enel di Chivasso nel periodo di durata in carica degli imputati risalgono a oltre 30 anni prima della diagnosi, esse sarebbero certamente ricomprese nel periodo di induzione e, come tali, certamente rilevanti o per l'insorgenza della patologia o per l'accelerazione del suo decorso e del conseguente evento morte. Sul punto, il Supremo Collegio attesta, dunque, la coerenza e la logicità della decisione della Corte torinese rispetto alle acquisizioni scientifiche disponibili, confermandone la decisione. Quanto, infine, al problema dell'elemento soggettivo del reato e, dunque, della rimproverabilità per colpa delle condotte ascritte agli imputati, la Corte afferma di condividere le argomentazioni dei giudici torinesi quanto alla sussistenza – già all'epoca dei fatti – di una ineludibile regola cautelare di carattere generale (discendente dal disposto dell'art. 2087 c.c.), dal cui rispetto discendeva la doverosa adozione di misure di protezione (impianti di aspirazione, mascherine protettive, formazione specifica dei lavoratori) rispetto all'aerodispersione di fibre di amianto, della cui pericolosità gli imputati non potevano che essere ben consapevoli stante il ruolo da essi rivestito. Si aggiunge che il rispetto di tali accorgimenti, secondo un giudizio probabilistico, avrebbe impedito il prevedibile innesco del mesotelioma e, conseguentemente, la morte dei lavoratori.
Osservazioni
Non si può non osservare, a margine del presente contributo, come gli argomenti spesi dalla Suprema Corte, sotto il profilo dell'elemento oggettivo e del nesso di causalità, segnino un significativo regresso sul piano delle acquisizioni logico-scientifiche nella materia in esame, ponendosi in aperto contrasto con gli approdi giurisprudenziali già affermati in precedenti arresti sul medesimo tema, fra cui quello sul ben noto caso delle Ferrovie Trento (Cass. pen., sez. IV, n. 43786/2010, imp. Cozzini ed altri, Rel. Blaiotta). In tale occasione il Supremo Collegio, pur correttamente ammettendo che una affidabile relazione causale tra condotta ed evento – precisamente quella tra esposizione ad amianto ed evento morte – possa fondarsi su assunti di tipo statistico-probabilistico (in coerenza con l'insegnamento delle Sezioni unite Franzese, richiamato anche nella decisione in commento), ha opportunamente precisato che il menzionato effetto acceleratore determinato dalle esposizioni successive alla prima non costituisce un fenomeno direttamente osservabile, potendosi avanzare, in ordine ad esso, solo delle controverse congetture. Quella relativa alla accelerazione del tempo all'evento-morte, indotta da successive esposizioni (quali quelle ascritte, anche nel caso in commento, agli imputati), costituisce infatti una legge scientifica solo probabilistica, destinata ad inverarsi solo in una determinata percentuale dei casi e non immancabilmente. La menzionata sentenza Cozzini ha avuto così il merito di mettere opportunamente in guardia da una impropria sovrapposizione tra probabilità statistica e probabilità logica, in tema di esposizione ad amianto, sollecitando il giudice del caso concreto a vagliare l'ipotesi ricostruttiva probabilistica sulla base delle acquisizioni fattuali e delle circostanze relative alla fattispecie sottoposta al suo esame, al fine di evitare affermazioni apodittiche in ordine alla sussistenza del nesso di causalità. Nel caso qui in commento, tuttavia, la Corte non sembra aver operato alla stregua dei medesimi parametri, sconfessando le lucide affermazioni con cui aveva precedentemente tracciato, sul piano metodologico, una via sicura e condivisibile per pervenire ad un giudizio affidabile. (Fonte: ilpenalista.it)

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