Responsabilità da infortunio sportivo

Salvatore Ferrara
14 Settembre 2018

Nell'ipotesi di responsabilità da infortunio sportivo sussiste la scriminante del c.d. “rischio consentito” laddove la condotta sia stata posta in essere dall'agente in violazione delle regole del gioco ma senza la volontà di ledere l'incolumità dell'avversario o comunque in modo non sproporzionato rispetto al contesto od abnorme rispetto alle finalità del gioco stesso?
Massima

In materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo, la condotta dell'agente è scriminata soltanto laddove sussista uno stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo. Non sussiste tale nesso funzionale se l'atto sia stato compiuto allo scopo di ledere l'avversario, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco. Sussiste, pertanto, in ogni caso la responsabilità dell'agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell'attività svolta; la responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell'attività, e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell'attività sportiva specificamente svolta, l'atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi, tuttavia il nesso funzionale con l'attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l'attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano.

Il caso

Durante una partita di calcio amichevole Tizio viene colpito da Caio con un intervento in scivolata da dietro, a seguito del quale riporta lesioni personali con esiti invalidanti di tipo permanente.

Il Giudice di prime cure rigetta la domanda di Tizio in quanto infondata. La Corte di Appello di Genova conferma la decisione di primo grado.

Pur accertando che l'azione posta in essere da Caio fosse da ritenersi in violazione delle regole del gioco, la Corte territoriale reputa la condotta dell'agente scriminata in quanto non connotata dalla volontà di ledere l'avversario, e non sproporzionata rispetto al contesto o abnorme rispetto alle finalità del gioco stesso.

La Corte di Cassazione conferma la sentenza della Corte di Appello riportandosi al proprio orientamento in materia di risarcimento danni da infortunio sportivo.

La questione

La questione giuridica affrontata nel caso in esame è la seguente: nell'ipotesi di responsabilità da infortunio sportivo sussiste la scriminante del c.d. “rischio consentito” laddove la condotta sia stata posta in essere dall'agente in violazione delle regole del gioco ma senza la volontà di ledere l'incolumità dell'avversario o comunque in modo non sproporzionato rispetto al contesto od abnorme rispetto alle finalità del gioco stesso?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione, conformandosi al proprio consolidato orientamento, fornisce al quesito risposta positiva sottolineando in linea di massima quale criterio discretivo, circa la sussistenza della scriminante, il nesso funzionale tra azione e gioco.

La Corte, nel richiamare i precedenti in materia, specifica le varie ipotesi che possono verificarsi in ordine alla sussistenza della responsabilità da infortunio sportivo.

Secondo la Suprema Corte sussiste la responsabilità dell'agente:

a) nel caso di atti compiuti con lo specifico scopo di ledere l'incolumità dell'avversario pur in assenza di violazione delle regole del gioco;

b) sebbene in presenza di nesso funzionale con l'attività sportiva, qualora venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero con il contesto ambientale nel quale l'attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano;

Secondo la Cassazione invece la responsabilità non sussiste:

c) se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell'attività;

d) se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell'attività sportiva specificamente svolta, l'atto sia a questa funzionalmente connesso e non presenti le caratteristiche di abnormità di cui all'ipotesi sub b);

Secondo la Corte di Cassazione la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi regolatori della materia con una valutazione in fatto non censurabile in sede di legittimità.

In particolare la Corte di Appello ha accertato che:

  • avuto riguardo al contesto ed alla natura dell'incontro sportivo (partita di calcio amichevole) "l'evento lesivo si è verificato nel corso di una tipica azione di gioco volta a sottrarre all'avversario il controllo della palla e ad impedirgli di andare in porta", e pertanto l'azione era funzionalmente collegata alla finalità del gioco;
  • difettava nella specie la prova che l'agente avesse agito intenzionalmente per arrecare un danno ingiusto all'avversario.

Nella fattispecie in esame, quindi, è stata esclusa la responsabilità dell'agente in quanto il danno non era da ritenersi "non iure datum".

Osservazioni

La sentenza in commento si conforma all'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità da infortunio sportivo.

Si è discusso in dottrina circa l'inquadramento della scriminante da attività sportiva.

Secondo l'orientamento dominante la stessa costituirebbe un'esimente non codificata, fondata sull'analogia in bonam partem - e quindi consentita- ricollegabile alla teoria del “rischio consentito” (“erlaubtes Risiko") elaborata in tema di attività lecite "pericolose". In questi casi, pur in presenza di eventi dannosi prevedibili, l'ordinamento autorizza dette attività sulla base ad un preventivo giudizio di "adeguatezza sociale", che farebbe venire meno l'antigiuridicità del fatto.

Secondo tale prospettiva chi partecipa ad una competizione sportiva - che prevede come normale il contatto fisico tra i contendenti - accetta che questo contatto possa avvenire anche in forme violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono sia dal contatto fisico normale sia da quello che deriva dalla violazione delle regole disciplinari.

La valutazione di adeguatezza sociale del rischio si fonda su ragioni di opportunità e di favore verso lo svolgimento dello sport [nella dottrina francese si rinviene questa espressione: «(...) pour permettre au jeu de vivre»], in quanto lo stesso, tanto nella forma agonistica quanto amatoriale, favorisce la socializzazione degli interessati (Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2001 n. 8740).

Quanto al fondamento normativo della suddetta scriminante la stessa è stata ricondotta da taluni all'art. 50 c.p. ma preferibile appare la tesi di chi àncora la medesima all'esercizio di un diritto (51 c.p.), in quanto il consenso dell'avente diritto potrebbe incontrare i limiti di cui all'art. 5 c.c., secondo il punto di vista della dottrina richiamato nella sentenza in commento.

Ciò posto, la sentenza in commento ha ribadito l'orientamento costante della Suprema Corte nell'enucleazione dei principi guida della materia cui i giudici di merito dovranno fare ricorso nella valutazione del caso concreto.

Il criterio base è costituito dal nesso funzionale tra la condotta dell'agente ed il gioco.

Altro criterio di massima è rappresentato dal rispetto delle regole del gioco.

Entrambe però queste condizioni non sempre sono autosufficienti nel giudizio di valutazione dell'antigiuridicità della condotta e devono contemperarsi con i criteri di proporzionalità ed adeguatezza rispetto al rischio consentito.

Così la mera violazione delle regole del gioco non determina da sola la responsabilità civile dell'agente se finalizzata al perseguimento degli obiettivi dello sport praticato (es. impedire che l'avversario si diriga verso la porta). Perché scatti la responsabilità occorre un quid pluris rappresentato dalla volontà di ledere l'incolumità dell'avversario e dal difetto di nesso funzionale con il gioco (es. sferrare un calcio all'avversario in una zona del campo lontana dallo svolgimento dell'azione).

Sotto altro profilo non è nemmeno sufficiente il mero collegamento funzionale con lo scopo del gioco laddove vi sia un grado di irruenza sproporzionato rispetto al tipo di sport praticato, al contesto ambientale in cui l'attività sportiva si svolge o alla qualità delle persone che vi partecipano.

Da questo punto di vista, quindi, il metro di valutazione del giudice varia in relazione al rischio assunto dall'atleta che, ovviamente, sarà ben diverso a seconda del tipo di sport praticato (a violenza eventuale come il calcio o violento come il pugilato) e del contesto (agonistico o amatoriale) in cui si svolge l'attività sportiva.

Si tratta di valutazioni fattuali rimesse al prudente apprezzamento del giudice del caso concreto che, se motivate senza evidenti salti logici, sono incensurabili in sede di legittimità.

Guida all'approfondimento

MONATERI, BONA, CASTELNUOVO, La responsabilità civile nello sport, Milano, 2002;

SCIALOJA, voce "Responsabilità sportiva", in Digesto civ., XVII, Torino, 198, 410 e ss.

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