Risarcibile il danno per la morte del partner anche in assenza di coabitazione

Rita Russo
17 Settembre 2018

Due le questioni affrontate dalla Corte di Cassazione: la prima riguarda i criteri della valutazione della prova per presunzioni, e cioè se gli elementi presuntivi possano essere esaminati atomisticamente ovvero debbano essere valutati nella loro unitarietà e nella loro interazione; la seconda riguarda il concetto di stabile convivenza e di famiglia di fatto, e la rilevanza della coabitazione quale requisito essenziale della convivenza.
Massima

La convivenza more uxorio, rilevante ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso decesso dell'altro, si ha qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale: non è invece requisito indispensabile la coabitazione.

Il caso

Un operaio di una società immobiliare, che lavora "in nero", precipita nel vano ascensore durante i lavori di ristrutturazione di un immobile e muore. La sua compagna chiede il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale allegando le prove della esistenza di un conto corrente comune, ove venivano addebitate le spese delle utenze di casa, della disponibilità delle agende lavorative del de cuius, del fatto che anche il figlio della vittima riconosce la relazione familiare, al punto da chiamarla a sostenere una parte delle spese funebri. I giudici di merito le negano il risarcimento del danno, ritenendo non sufficiente la prova che il de cuius e la donna avessero un rapporto qualificabile come stabile convivenza, pur emergendo l'esistenza di un legame sentimentale tra i due. Particolare rilievo viene dato, al fine di negare l'esistenza di una stabile convivenza, alla residenza anagrafica del de cuius, mantenuta in paese diverso da quello di residenza della donna.

La questione

Due sono le questioni affrontate dalla Corte di Cassazione:

  • la prima riguarda i criteri della valutazione della prova per presunzioni, e cioè se gli elementi presuntivi possano essere esaminati atomisticamente ovvero debbano essere valutati nella loro unitarietà e nella loro interazione;
  • la seconda riguarda il concetto di stabile convivenza e di famiglia di fatto, e la rilevanza della coabitazione quale requisito essenziale della convivenza.
Le soluzioni giuridiche

Sulla prima questione la Corte di Cassazione richiama un consolidato orientamento in tema di prova presuntiva (o indiziaria), secondo il quale è necessario che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell'istruzione, valutandoli nel loro insieme e gli uni per mezzo degli altri. È così considerato erroneo l'operato dei giudici di merito che, a fronte di plurimi indizi, li hanno presi in esame e valutati singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurge, autonomamente, a dignità di prova. Il giudice, invece, rimarca la Corte, è tenuto a valutare se gli elementi raccolti, anche se singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non siano in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento (Cass. civ., sez. VI, 2 marzo 2017 n. 5374; v. anche Cass. civ., sez. VI, 10 maggio 2018 n. 11283). Si tratta di un errore di metodo che può essere censurato in Cassazione: sebbene la Corte non possa entrare nel giudizio di fatto reso dal giudice di merito e segnatamente sulla valutazione della prova può però verificare se nel valutare la prova sono stati correttamente applicati i criteri di legge.

La seconda questione è relativa invece alla nozione di convivenza intesa come relazione familiare di fatto, rilevante ai fini del risarcimento del danno.

La questione controversa non è la risarcibilità del danno in favore del convivente more uxorio, principio ormai consolidato in giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011 n. 12278; Cass. civ., sez. III, 16 settembre 2008 n. 23725), ma piuttosto se la relazione affettiva in assenza di prova di una continuativa coabitazione possa considerarsi convivenza.

La Corte di Cassazione censura con una certa severità la decisione dei giudici di merito che hanno dato rilevanza decisiva al requisito della coabitazione, di cui si è ritenuto il difetto solo per il mantenimento di due residenze anagrafiche separate, e osserva la convivenza è un fatto, ove all'elemento soggettivo della relazione affettiva stabile si accompagna l'elemento oggettivo della reciproca e spontanea assunzione di diritti ed obblighi. Si richiama anche un noto precedente del 2008 (Cass. civ., sez. III, 16 settembre 2008 n. 23725) secondo il quale la dichiarazione resa all'ufficiale d'anagrafe non è di per sé sufficiente a provare la convivenza; le certificazioni anagrafiche, in effetti, hanno soltanto valore presuntivo e invero sorprende che i giudici di merito abbiano attributo peso decisivo a questa circostanza a fronte di molteplici elementi che indicavo la sussistenza della coabitazione (i due avevano lo stesso medico di base, nel paese di residenza della donna). Ma non è questo il punto sul quale la Corte concentra l'attenzione, avendo già censurato la sentenza per il cattivo uso fatto dei principi in tema di prova presuntiva: è piuttosto esaminata, in radice, la questione se la coabitazione costituisca requisito necessario della relazione familiare di fatto. La coabitazione è considerata un indice rilevante e ricorrente dell'esistenza di una famiglia di fatto, ma non un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, è determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza.

Secondo la Corte il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato, considerando il mutamento del costume sociale che spesso porta anche le famiglie fondate sul matrimonio a rinunciare per periodi più o meno lunghi alla continuità della coabitazione.

A sostegno della propria tesi la Corte richiama la recente novella legislativa sulle convivenze operata dalla l. 20 maggio 2016 n. 76, più nota per avere introdotto le unioni civili, che offre una nozione legale di convivenza: una relazione tra persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile.

È la legge stessa quindi che individua i due elementi che connotano la convivenza: quello spirituale, e cioè il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, e cioè la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull'assunzione volontaria di un impegno reciproco.

Osservazioni

È ormai consolidato in giurisprudenza il principio, affermato per la prima volta in una storica sentenza del 1994 (Cass. civ., sez. III 28 marzo 1994 n. 2988) che non soltanto al coniuge ma anche al convivente more uxorio spetta il risarcimento del danno, qualora dimostri l'esistenza di una comunanza di vita e di affetti connotata dalla assistenza morale e materiale (Cass. civ., sez. III, 29 maggio 2005, n. 8976; Cass. civ., sez. III 16 giugno 2014 n. 13654). Si tratta in definitiva della applicazione del principio che in tema di risarcimento del danno non è sufficiente dimostrare l'evento, ma in concreto deve darsi dimostrazione, anche in via presuntiva, del pregiudizio subito (Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 907; Cass. civ., sez. III, 6 settembre 2012, n. 14931).

La persona non coniugata può infatti essere titolare degli stessi beni giuridici -in particolare la relazione affettiva solidale- della persona coniugata a prescindere dal negozio matrimoniale. La relazione familiare di fatto, non assistita dal vincolo matrimoniale, è rilevante per l'ordinamento in quanto formazione sociale direttamente tutelata dall'art. 2 Cost. e dall'art. 8 della CEDU nell'interpretazione che ne offre la Corte di Strasburgo, secondo la quale è "impossibile" ed "inutile" tentare di definire in astratto il concetto di relazione familiare perché il concetto varia al variare del luogo dell'epoca e dell'ambiente sociale del soggetto che in concreto chiede la tutela e pertanto può essere ritenuta sussistente a prescindere dal matrimonio (tra le tante, Johnston e altri c. Irlanda, sentenza del 18 dicembre 1986, serie A n. 112, 25, § 55; Keegan c. Irlanda, sentenza del 26 maggio 1994, serie A n. 290, 17, § 44; Kroon e altri c. Paesi Bassi, sentenza del 27 ottobre 1994, serie A n. 297 C, 55 ss., § 30). Anche la dottrina e la giurisprudenza italiana hanno più volte sottolineato che in tema di famiglia di fatto occorre ribaltare l'impostazione tradizionale incentrata sulla tutela della famiglia e occorre piuttosto prendere in considerazione la tutela della persona che vive il rapporto familiare e i suoi diritti fondamentali, che possono essere lesi dal fatto ingiusto del terzo che priva la persona di questa relazione familiare e della assistenza materiale e morale fino a quel momento goduta.

La l. 76/2016 si è chiaramente ispirata a questi principi, introducendo una regolamentazione di base delle “convivenze di fatto” che distingue dalle unioni civili registrate, riservate alle coppie dello stesso sesso. Ai fini che qui interessano, la l. n. 76/2016 è di particolare importanza perché introduce una nozione legale di convivenza, che non prevede la coabitazione quale requisito essenziale. È vero che la legge distingue le convivenze di fatto che possono essere provate con il ricorso alla certificazione anagrafica, e quelle convivenze che non sono “certificate” perché i partner, per varie ragioni, non hanno reso all'ufficio di anagrafe la dichiarazione sulla costituzione di una nuova convivenza, secondo quanto dispone l'art. 13 lett. b) del d.P.R. n. 223/1989. La certificazione non ha però effetto costitutivo e ciò è espressamente previsto dalla legge, la quale stabilisce che per l'accertamento della stabile convivenza si fa invero riferimento alla certificazione anagrafica, ma salva la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, e cioè lo stabile legame affettivo e la reciproca assistenza morale e materiale. Questo è il requisito essenziale, e pertanto se nonostante la certificazione manca lo stabile legame affettivo o la reciproca assistenza materiale e morale non può parlarsi di convivenza di fatto, e viceversa, non è preclusiva la mancanza di certificazione anagrafica la fine di ritenere sussistente il rapporto familiare de facto (Trib. Milano, sez. IX, 31 maggio 2016).

Conclusivamente, pertanto, può dirsi che pur se la coabitazione, provata da certificazione anagrafica o aliunde, mantiene il suo valore di indice presuntivo della sussistenza di una convivenza more uxorio, il fatto essenziale che deve essere provato in giudizio, ai fini del risarcimento del danno, è l'esistenza di legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale le parti abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale.

Guida all'approfondimento

BUFFONE G., Danno esofamiliare, in Ridare.it;

RINALDO M., Unioni civili e convivenze nell'era della codificazione delle “nuove” famiglie, in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il), fasc. 3, 1 settembre 2017, pag. 976.

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