Responsabilità medica e riparto dell'onere della prova: si aggrava la posizione del danneggiato?

07 Novembre 2018

In tema di responsabilità medica chi è onerato dalla prova del nesso di causalità?
Massima

Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica compete al paziente che si assuma danneggiato dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno del quale chiede il risarcimento. Ne consegue che se al termine dell'istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata.

Il caso

Le eredi di una paziente deceduta convengono in giudizio l'Azienda Sanitaria Locale al fine di conseguire il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti. Sia in primo grado che in appello, però, la domanda era rigettata in ragione della mancata prova del rapporto di causalità tra la condotta del sanitario e il decesso del paziente. Le eredi propongono ricorso in Cassazione dolendosi della violazione del riparto dell'onere della prova in tema di responsabilità contrattuale.

I Giudici di legittimità osservano che l'art. 1218 c.c. non esonera il creditore dalla dimostrazione del nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno del quale si chiede il risarcimento, di modo che se al termine dell'istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata.

La questione

La questione in esame è la seguente: in tema di responsabilità medica chi è onerato dalla prova del nesso di causalità?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte torna ad occuparsi del corretto riparto dell'onere della prova in tema di responsabilità medica, confermando il principio per cui il paziente, che agisce in giudizio per il risarcimento del danno da colpa medica, ha l'onere di provare il nesso di causalità tra la malattia, il suo aggravamento ovvero la nuova patologia e la condotta commissiva o omissiva dei medici.

Deve evidenziarsi come la pronuncia che si annota si colloca nel nuovo solco giurisprudenziale a mente del quale l'art. 1218 c.c., solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui domanda il risarcimento: nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell'attore, paziente danneggiato, dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno; se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. civ., n. 29135/2017; Cass. civ., n. 18392/2017; Cass. civ., n. 7044/2018: in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza).

Secondo l'orientamento tradizionale di legittimità ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno), restando a carico dell'obbligato la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, con la conseguenza che, se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. civ., n. 975/2009; Cass. civ., n. 17143/2012; Cass. civ., n. 4792/2013; Cass. civ., n. 21177/2015; Cass. civ., n. 18392/2017).

Sul punto deve segnalarsi che, per il giudice della nomofilachia in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato etiologicamente rilevante (Cass. civ., Sez. Un., n. 577/2008).

In altri termini, spetta al paziente, onde ottenere il risarcimento dei danni che ritiene di aver patito in virtù dell'attività medica: dimostrare la sussistenza di un contratto con l'ospedale chiamato in causa, provare il danno patito ed allegare l'inadempimento qualificato che verosimilmente ha causato la lesione del diritto alla salute. Del pari, è onere del medico dimostrare: che l'inadempimento non c'è stato ovvero, in ipotesi subordinata, che il nocumento patito è da ricondursi ad un evento imprevisto ed imprevedibile (e dunque non evitabile con la diligenza propria delle conoscenze tecnico-scientifiche del momento) oppure, in ipotesi ulteriormente subordinata, che non sussiste nesso di causa tra condotta ed evento lesivo.

In realtà, la soluzione delle Sezioni Unite è in controtendenza rispetto al panorama europeo, in cui, salvi casi particolari, la giurisprudenza ritiene che il paziente sia tenuto alla dimostrazione e non solo all'allegazione del nesso di causalità (in questo senso significativa è la giurisprudenza tedesca, la quale obbliga il paziente alla dimostrazione del nesso causale, fatta eccezione per l'ipotesi in cui venga accertato un errore grossolano e sempre che tale errore sia tale da aver ipoteticamente potuto cagionare una lesione del medesimo tipo di quella sofferta dal paziente. Ugualmente i giudici inglesi, pur utilizzando il ragionamento presuntivo res ipsa loquitur, negano che il nesso causale si possa considerare presunto nelle controversie concernenti la responsabilità medica. Nella stessa direzione si è indirizzata sia la giurisprudenza scozzese sia quella spagnola, le quali non consentono di invertire l'onere della prova relativa alla sussistenza del nesso causale a favore del paziente. Anche in Olanda si esclude tale facoltà: i giudici olandesi, infatti, preferiscono porre rimedio alle difficoltà probatorie del paziente danneggiato, insistendo sul dovere dell'operatore sanitario convenuto in giudizio di fornire al primo tutta la documentazione necessaria a dimostrare la sussistenza della propria responsabilità).

Sicché si è osservato come la soluzione ermeneutica in esame finisse per sovrapporre il piano della colpa con quello del nesso eziologico al punto da doversi presumere che l'errore fosse sempre causalmente rilevante nella produzione dell'evento dannoso.

Peraltro l'orientamento difforme al decisum delle Sezioni Unite del 2008 trova ulteriori conferme nella giurisprudenza relativa ad altri ambiti della responsabilità professionale - come, per esempio, quella dell'avvocato - dove viene attribuita al cliente l'onere di provare il nesso causale tra inadempimento e danno (Cass. civ., n. 15633/2006; nella giurisprudenza di merito: App. Taranto 7 febbraio 2014; Trib. Cagliari 13 febbraio 2013; Trib. Saluzzo 12 agosto 2010).

In dottrina si è osservato, in chiave critica, che la giurisprudenza ha reso, quindi, (addirittura) largamente presuntiva la prova del nesso causale, consentendo al creditore di potersi limitare ad allegare l'inadempimento qualificato ed il nesso causale tra questo e l'evento di danno, ed addossando sul debitore l'onere di liberarsi dalla presunzione, dimostrando che l'esito lesivo sia stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, ovvero l'esistenza di una particolare condizione fisica del paziente non precedentemente accertata né accertabile e, quindi, l'assenza del nesso causale.

Proprio per ovviare a tali incongruenze, la Suprema Corte ha mutato parzialmente traiettoria, partendo dalla distinzione fra la causalità relativa all'evento (causalità materiale) ed al consequenziale danno (causalità giuridica), da un lato, e la causalità relativa all'impossibilità della prestazione, dall'altro. Il nesso di causa stabilito tra condotta del sanitario ed evento dannoso, si precisa, forma parte della fattispecie costitutiva della responsabilità al pari del danno, sicché, anche con riferimento ad esso, l'onere della prova è a carico dell'attore; una volta dimostrato, quindi, che l'aggravamento della situazione patologica del paziente ovvero l'insorgenza di nuove patologie è causalmente riconducibile alla condotta del medico, sarà il debitore (il medico e la struttura sanitaria convenuta) a dover fornire la prova del diverso nesso causale, relativo – questa volta – non alla fattispecie costitutiva della responsabilità, bensì alla fattispecie estintiva dell'obbligazione, concernente la impossibilità di adempiere ex art. 1256 c.c. (Cass. civ., n. 18392/2017).

Quanto alla distribuzione degli oneri probatori, deve infatti considerarsi che:

a) la previsione dell'art. 1218 c.c. trova giustificazione nella opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente o non esattamente adempiente l'onere di fornire la prova "positiva" dell'avvenuto adempimento o dell'esattezza dell'adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cass. civ., Sez. Un., n. 13533/2001);

b) il criterio della maggiore vicinanza della prova non è invece rilevante in relazione al nesso causale fra la condotta dell'obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d'essere l'inversione dell'onere prevista dall'art. 1218 c.c. e non può che valere - quindi - il principio generale sancito dall'art. 2697 c.c., che onera l'attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa;

c) ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell'evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell'evento lesivo);

d) né può valere, in senso contrario, il fatto che l'art. 1218 c.c. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Al riguardo, per i giudici di legittimità la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell'impossibilità di adempiere”, che si colloca nell'ambito delle cause estintive dell'obbligazione (costituenti tema di prova della parte debitrice) e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all'evento dannoso conseguente all'adempimento mancato o inesatto.

Si tratta di contrasto apparente con il principio di diritto sopra richiamato in quanto la causa che viene qui in rilievo non è quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, ma quella della fattispecie estintiva dell'obbligazione opposta dal danneggiante. Il riferimento nella giurisprudenza in discorso all'insorgenza (o aggravamento) della patologia come non dipendente da fatto imputabile al sanitario, ma ascrivibile ad evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza, e pertanto con onere probatorio a carico del danneggiante (Cass. civ., n. 22222/2014), evidenzia come in questione sia la fattispecie di cui agli artt. 1218 e 1256 c.c.

La causalità relativa all'evento ed al danno consequenziale è comune ad ogni fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, e caratterizza negli stessi termini, sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, gli oneri di allegazione e di prova del danneggiato. Il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l'eziologia immanente alla nozione di danno anche l'eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l'attore deve provare. Su questo tronco comune intervengono le peculiarità delle due forme di responsabilità. La responsabilità contrattuale sorge dall'inadempimento di un obbligo, sicché l'attore deve provare la fonte dell'obbligo. La responsabilità extracontrattuale richiede invece, stante la mancanza di un'obbligazione, un criterio di giustificazione, e tali sono (di regola) il dolo e la colpa, che è pertanto onere dell'attore dimostrare.

In base al c.d. principio di semplificazione analitica della fattispecie le cause di estinzione dell'obbligazione sono tema di prova della parte debitrice, e fra queste l'impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1256 c.c.), con effetto liberatorio sul piano del risarcimento del danno dovuto per l'inadempimento (art. 1218 c.c.). Il danneggiante deve dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione, cioè il caso fortuito. La diligenza non attiene qui all'adempimento, ma alla conservazione della possibilità di adempiere, quale impiego delle cautele necessarie per evitare che la prestazione professionale divenga impossibile, e, riguardando non solo la perizia ma anche la comune diligenza, prescinde dalla diligenza professionale in quanto tale. La non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione va quindi valutata alla stregua della diligenza ordinaria ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 1, mentre la diligenza professionale di cui al comma 2, quale misura del contenuto dell'obbligazione, rappresenta il parametro tecnico per valutare se c'è stato l'adempimento (diligenza determinativa del contenuto della prestazione).

C'è inadempimento se non è stata rispettata la diligenza di cui all'art. 1176, comma 2, c'è imputabilità della causa di impossibilità della prestazione se non è stata rispettata la diligenza di cui al comma 1.

La Suprema Corte prova, così, a rileggere la formula impiegata dal precedente del 2008: al debitore, secondo tale revirement , spetta provare non la causa costitutiva della fattispecie risarcitoria dedotta dal danneggiato (id est il nesso eziologico), bensì quella della fattispecie estintiva dell'obbligazione, ossia l'impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Peraltro, l'odierna pronuncia –pur prestando formalmente ossequio ai principi affermati da Cass. civ., Sez. Un., n. 577/2008 – se ne discosta sul rilievo che tale principio è stato, tuttavia, affermato a fronte di una situazione in cui l'inadempimento "qualificato" allegato dall'attore (ossia l'effettuazione di un'emotrasfusione) era tale da comportare - di per sé, ed in assenza di fattori alternativi "più probabili", nel caso singolo di specie - la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta (sì che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sé quella del nesso causale), con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l'onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all'art. 2697 c.c., comma 2 (e non - si badi - la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 c.c.).

Ad avviso della Suprema Corte, invero, la succitata affermazione andrebbe interpretata e giustificata solo con riferimento alle peculiarità del caso di specie, e non avrebbe alcuna valenza generale. Si precisa, cioè, che nell'ipotesi esaminata nel 2008 (concernente un danno da emotrasfusione), il nesso di causalità poteva considerarsi “autoevidente”, implicito nella consequenzialità dell'evento dannoso all'atto medico, sì da giustificare l'addossamento dell'onere probatorio sul sanitario.

Sgombrato il campo da tale equivoco, la Cassazione evidenzia, quindi, come il principio di vicinanza della prova, alla luce del quale si giustifica l'addossamento in capo al debitore della prova positiva dell'avvenuto adempimento ovvero dell'esattezza dell'adempimento, non ha nulla a vedere con il distinto rapporto di causalità tra fatto e evento, il quale rimane, per così dire, equidistante tra le parti (D. SPERA, La responsabilità contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci e soluzioni inappaganti, in Ridare.it).

Come affermato da Cass. civ., n. 20904/2013, dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l'inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che l'esecuzione del rapporto curativo, che si sarà articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, si è inserita nella serie causale che ha condotto all'evento di preteso danno, che è rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall'insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato.

Grava, quindi, sul creditore l'onere di provare il nesso di causalità fra l'azione o l'omissione del sanitario e l'evento indesiderato. Se, al termine dell'istruttoria, restasse incerta la reale causa dell'evento, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova graverebbero esclusivamente sull'attore-paziente.

Osservazioni

Secondo il nuovo formante giurisprudenziale la responsabilità è considerata addebitabile alla struttura sanitaria a seguito di un duplice accertamento: uno relativo all'evento dannoso, che deve essere provato dal creditore/danneggiato e l'altro relativo alla impossibilità di adempiere, che deve essere provato dal debitore/danneggiante.

Nell'ambito di una responsabilità che viene inquadrata come contrattuale, non è più sufficiente l'allegazione, da parte dell'attore, dell'inadempimento astrattamente idoneo a provocare il danno

Se, quindi, lo schema probatorio dell'art. 1218 c.c. sgrava il danneggiato dell'onere di dimostrare la colpa del danneggiante inadempiente, non lo esime altrettanto dall'onere di provare il nesso causale intercorrente tra i danni di cui si chiede il risarcimento e la condotta del medico, nesso causale che deve essere valutato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”. Da ciò deriva che la prova liberatoria compete ai convenuti, medico o struttura sanitaria, per responsabilità professionale medica soltanto se il danneggiato abbia assolto alla prova: della esistenza del rapporto contrattuale (o da contato sociale); dell'evento dannoso ovverosia della persistenza o dell'aggravamento della patologia preesistente o l'insorgenza di una nuova patologia prima assente nonché della relazione eziologica tra la condotta, commissiva od omissiva, tenuta dai sanitari nella esecuzione della prestazione e l'evento dannoso.

Il nuovo orientamento di legittimità segna definitivamente il superamento di quella tesi che riteneva sufficiente un'allegazione generica, che contestasse l'aspetto colposo dell'attività medica secondo quelle che si ritengono essere in un dato momento storico, le cognizioni di un professionista che, espletando, peraltro, la professione di avvocato, conosca l'attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario.

Un'allegazione così generica rischia di essere ostativa ad una buona difesa da parte del convenuto, il quale, in presenza di un atto di citazione eccessivamente indeterminato, si troverebbe nell'impossibilità di opporre le dovute eccezioni. Né tale assottigliamento dell'onere di allegazione sembra rispondere ad esigenze di equità, avendo come effetto quello di rendere le regole sul giudizio di responsabilità più severe quando convenuto sia un medico piuttosto che un altro professionista. Il rischio è, poi, quello di una mutatio libelli nel processo: infatti, in assenza di precise indicazioni da parte dell'attore sui singoli aspetti di colpevolezza della condotta medica, il CTU potrebbe “allargare” all'infinito l'indagine, arrivando comunque alla conclusione che il medico o la struttura hanno sbagliato, ma per motivi del tutto diversi rispetto a quelli “forse immaginabili” e su cui, in assenza di una precisa indicazione dell'attore, il convenuto ha preso posizione nella comparsa di risposta.

Appare evidente che in tema di medical malpractice assume un ruolo privilegiato la CTU, atteso che l'accertamento del nesso di causalità non appare più nell'esclusivo dominio del danneggiante (quale unico conoscitore di regole tecniche ignote al creditore ed estranee alla comune esperienza), bensì accertabile mediante la scienza medica.Infatti, ai fini di un'allegazione adeguata, sembra quanto meno necessario che il paziente indichi in che cosa il medico avrebbe sbagliato, ricorrendo anche all'aiuto di un consulente tecnico: in questo contesto il ruolo dei periti, anche ai fini di un accertamento tecnico preventivo, è di fondamentale importanza e l'avvalersi di tali figure professionali non può configurarsi un onere eccessivamente gravoso per il paziente.

In conclusione, gli sforzi dei giudici di legittimità si sono concentrati nella ricerca del giusto punto di equilibrio tra le posizioni delle parti in causa: consapevoli della esigenza – da un lato – di proteggere il paziente e – dall'altro –, contestualmente, di permettere al sanitario convenuto di potersi adeguatamente difendere in giudizio; la Corte ha optato per una soluzione di compromesso ed equità processale, che onera il danneggiato della prova che la lesione lamentata sia conseguenza probabile dell'evento posto in essere dal soggetto agente.
Guida all'approfondimento

G. D'AMICO, “La prova del nesso di causalità “materiale” e il rischio della c.d. “causa ignota” nella responsabilità medica”, in Foro it., 2018, 4, I, 1348 ss.;

M. FACCIOLI, L'onere della prova del nesso di causalità nella responsabilità medica: la situazione italiana e uno sguardo all'Europa, in Resp. civ., 2012, 333 ss.;

M.P. GERVASI, Responsabilità sanitaria: nesso causale ed onere della prova, in GiustiziaCivile.com, fasc., 2 luglio 2018;

N. MUCCIOLI, La responsabilità del sanitario e l'onere probatorio. Brevi osservazioni in tema di diligenza e nesso causale, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 89.

D. SPERA, La responsabilità contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci e soluzioni inappaganti, in Ridare, focus 13 aprile 2017.

I. RICCETTI, Responsabilità della struttura sanitaria: non è più sufficiente la (già difficile) allegazione dell'inadempimento qualificato per soddisfare l'onere probatorio del danneggiato?, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), 2018, 712 ss.

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