Dalla CGUE: anche la Chiesa deve pagare l'ICI

Gabriele Scuffi
09 Gennaio 2019

Le carenze organizzative o tecniche di uno Stato non lo esimono dal recupero delle somme illegittimamente erogate a titolo di aiuti di Stato.
Massima

Le carenze organizzative o tecniche di uno Stato non lo esimono dal recupero delle somme illegittimamente erogate a titolo di aiuti di Stato.

Il caso

Con decisione del 19 dicembre 2012, la Commissione UE ha dichiarato che l'esenzione dall'imposta comunale sugli immobili (ICI) concessa dall'Italia agli enti non commerciali (come gli istituti scolastici o religiosi) che svolgevano, negli immobili in loro possesso, determinate attività (quali le attività scolastiche o alberghiere) costituiva un aiuto di Stato illegale. La Commissione non ne ha tuttavia ordinato il recupero, ritenendo tale obiettivo del tutto irrealizzabile.

In particolare, la Commissione aveva rilevato per lo Stato italiano l'assoluta impossibilità di recuperare le tasse non versate nel periodo 2006-2011 dagli enti suddetti sostenendo che sarebbe stato oggettivamente inattuabile, sulla base dei dati catastali e delle banche fiscali, calcolare retroattivamente il tipo d'attività (economica o non economica) svolta negli immobili di proprietà degli enti non commerciali, e calcolare l'importo da recuperare.

La Commissione ha avuto comunque occasione di puntualizzare, che l'esenzione fiscale prevista dal nuovo regime italiano dell'imposta municipale unica (IMU), applicabile in Italia dal 1° gennaio 2012, non costituiva un aiuto di Stato.

Tutto è nato dai ricorsi proposti dall'Istituto d'insegnamento privato “Scuola Elementare Maria Montessori” e dal Signor Pietro Ferracci, proprietario di un bed & breakfast, che chiedevano al Tribunale dell'Unione europea di annullare la decisione della Commissione, sostenendo in particolare che tale provvedimento li avrebbe posti in una situazione di svantaggio concorrenziale rispetto agli enti ecclesiastici o religiosi situati nelle immediate vicinanze che esercitavano attività simili alle loro e potevano beneficiare delle esenzioni fiscali in questione.

Con sentenze del 15 settembre 2016 (Scuola Elementare Maria Montessori/Commissione - T-220/13 - e Ferracci / Commissione - T-219/13), il Tribunale ha dichiarato i ricorsi ricevibili, ma li ha respinti in quanto infondati ritendo legittima la decisione di “non recupero” della Commissione europea nei confronti di tutti gli enti non commerciali, sia religiosi sia no profit, delle somme dovute a titolo di aiuti che si aggirerebbero intorno ai 4-5 miliardi.

La Corte di Giustizia, con la sentenza qui in commento ha poi riformato la pronunzia del Tribunale nella parte in cui è stata convalidato la decisione della Commissione di non ordinare il recupero dell'aiuto illegale concesso tramite l'esenzione dall'ICI.

La questione

La Corte di Giustizia esamina preliminarmente la questione della ricevibilità – sulla base dell'articolo 263, quarto comma (TFUE) – dei ricorsi diretti proposti dai concorrenti di beneficiari di un regime di aiuti di Stato contro una decisione della Commissione la quale dichiari che il regime nazionale considerato non costituisce un aiuto di Stato e che gli aiuti concessi in base a un regime illegale non possono essere recuperati.

La Corte rileva che tale decisione:

  • è un «atto regolamentare», ossia un atto non legislativo di portata generale,
  • che riguarda direttamente la Scuola Montessori e il sig. Ferracci;
  • che non comporta alcuna misura d'esecuzione nei loro confronti.

e conclude, di conseguenza, che i ricorsi della Scuola Montessori e del sig. Ferracci contro la decisione della Commissione sono ricevibili.

Le soluzioni giuridiche

Quanto al merito della causa, la Corte evidenzia che l'adozione dell'ordine di recupero di un aiuto illegale è la logica e normale conseguenza dell'accertamento della sua illegalità ancorchè la Commissione non possa imporre il recupero dell'aiuto qualora ciò sia in contrasto con un principio generale del diritto dell'Unione, come quello secondo cui «ad impossibilia nemo tenetur» («nessuno è tenuto all'impossibile»).

Tuttavia, la Corte sottolinea che un recupero di aiuti illegali può essere considerato, in maniera obiettiva e assoluta, impossibile da realizzare unicamente quando la Commissione accerti, dopo un esame minuzioso, che sono soddisfatte due condizioni, vale a dire, da un lato, l'esistenza delle difficoltà addotte dallo Stato membro interessato e, dall'altro, l'assenza di modalità alternative di recupero.

Nel caso di specie, quindi, a giudizio della Corte, la Commissione non poteva riscontrare l'impossibilità assoluta di recuperare gli aiuti illegali limitandosi a rilevare che era impossibile ottenere le informazioni necessarie per il recupero di tali aiuti attraverso le banche dati catastali e fiscali italiane, ma avrebbe dovuto anche esaminare se esistessero modalità alternative che consentissero un recupero, anche solo parziale, di tali aiuti

I Giudici della Corte hanno ritenuto, infatti, che in mancanza di un'analisi siffatta, la Commissione non avrebbe dimostrato l'impossibilità assoluta di recupero dell'ICI.

La Corte di Giustizia ha, quindi, annullato sia la decisione della Commissione europea che la sentenza del Tribunale Ue, spiegando che tali circostanze costituiscono mere «difficoltà interne» all'Italia, «esclusivamente ad essa imputabili», non idonee a giustificare l'emanazione di una decisione di non recupero.

La Commissione europea, si legge nella sentenza, «avrebbe dovuto esaminare nel dettaglio l'esistenza di modalità alternative volte a consentire il recupero, anche soltanto parziale, delle somme».

Inoltre, ha ricordato che i ricorrenti erano situati «in prossimità immediata di enti ecclesiastici o religiosi che esercitavano attività analoghe» e dunque l'esenzione Ici li poneva «in una situazione concorrenziale sfavorevole (..) e falsata».

La Corte ha ritenuto, infine, che il Tribunale non abbia commesso errori di diritto dichiarando che l'esenzione dall'IMU, che non si estendeva ai servizi didattici forniti dietro remunerazione, non si applicava ad attività economiche e non poteva pertanto essere considerata un aiuto di Stato.

A tale riguardo, la Corte richiama la propria giurisprudenza secondo cui le esenzioni fiscali in materia immobiliare possono costituire aiuti di Stato vietati se e nei limiti in cui le attività svolte nei locali in questione siano attività commerciali.

In conclusione, l'Italia deve recuperare gli aiuti di Stato di cui hanno beneficiato la Chiesa cattolica e altri enti non commerciali tra il 2006 e il 2011 attraverso le esenzioni al regime dell'Ici, l'imposta comunale sugli immobili, anche per immobili di proprietà usati per attività economiche.

Normativa:

L'analisi della sentenza della Corte di Giustizia rende necessario effettuare preliminarmente un richiamo normativo e concettuale all'istituto dei c.d. “aiuti di Stato”.

Il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), al fine di assicurare un regime che garantisca che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, contiene una dettagliata disciplina delle regole di concorrenza suddivisa in due sezioni (del capo I del Titolo VI):

  • Le regole di concorrenza applicabili alle imprese, cioè rivolte a quei comportamenti autonomi imputabili alle stesse che si traducano in intese restrittive, pratiche concordate ed abusi di posizione dominante (artt. 101 e 102 TFUE) cui si aggiunge una apposita disciplina per le imprese pubbliche (art. 106);
  • Le regole di concorrenza applicabili agli Stati, che sono rivolte agli interventi pubblici a favore delle imprese e sono sussunte nella disciplina di controllo dei c.d. aiuti di Stato (art. 107, 108, 109 TFUE).

Si tratta di disposizioni – queste ultime – preordinate anch'esse alla realizzazione di un regime di concorrenza non falsata in quanto dirette ad evitare che il sostegno finanziario pubblico intervenga ad alterare la competizione ad armi pari tra imprese all'interno del mercato comune.

Ai sensi dell'art. 107 n. 1 TFUE, “salvo deroghe contemplate dal Trattato, sono incompatibili con il mercato comune nella misura in cui incidano sugli scambi tra gli Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati ovvero mediante risorse statali sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

La politica degli aiuti gravita sulla Commissione Europea , dominus della procedura che esercita un controllo centralizzato sia sugli aiuti “esistenti” (cioè quelli già in esecuzione prima dell'entrata in vigore del Trattato) sia su quelli “nuovi” i cui progetti vanno previamente notificati ad essa (salvo quelli rientranti nei Regolamenti di esenzione ai sensi dell'art. 109 TFUE) e rimangono sospesi nell'erogazione (c.d. clausola di stand still) fino a che non vengano autorizzati con apposita decisione.

Norma cardine è l'art. 108 n. 3 TFUE il quale impone agli Stati membri due obblighi precisi:

1. la preventiva notifica alla Commissione degli aiuti progettati

2. la sospensione della loro attuazione fino a che ne venga accertata la compatibilità e venga di conseguenza autorizzata la misura agevolativa.

Se la misura viene da subito attuata in violazione di detta clausola di salvaguardia l'aiuto è considerato illegale e va recuperato.

Gli aiuti aventi natura fiscale sono la tipologia più importante tra gli aiuti pubblici, rivestono le forme più svariate (agevolazioni, sovvenzioni, riduzioni della base imponibile, esenzioni, crediti di imposta, regimi di dilazione) e sono diretti ad alleviare gli oneri che normalmente gravano sul bilancio delle imprese, implicando una rinunzia parziale o totale alla potestà impositiva dello Stato.

Gli enti ecclesiastici (attualmente in Italia circa 35.000) godono di trattamenti fiscali di favore ed agevolazioni soprattutto per quanto riguarda la tassazione del patrimonio immobiliare.

Questo regime di favore è infatti riconosciuto dal legislatore agli enti non commerciali (no profit) che svolgono attività assistenziali, sanitarie, didattiche, culturali, di beneficienza etc.. senza scopo di lucro.

Ove vengano utilizzate modalità commerciali e criteri economici, indipendentemente dagli scopi meritevoli perseguiti – può entrare in gioco l'aiuto di stato perché lo sgravio fiscale indebolisce la posizione sul mercato dei concorrenti che di tale vantaggio non fruiscono sopportando il costo dell'imposizione.

Ricordiamo, inoltre, che l'ICI (Imposta comunale sugli immobili), poi sostituita dall'IMU, è stata introdotta nel 1992, esentando dal suo pagamento gli enti non commerciali.

Fino al 2004 questa esenzione – di cui non beneficiava solo la Chiesa cattolica, ma tutto il vasto mondo no profit – ha sollevato un contenzioso fino a quando una sentenza della Corte Suprema – relativa a un immobile di proprietà di un istituto religioso utilizzato come casa di cura e pensionato per studentesse – ha affermato che per beneficiare dell'esenzione sono necessari tre requisiti tra cui quello più importante, e cioè che gli immobili venissero usati a fini non commerciali. (Cfr. Cass. Civ., 28 luglio 2017 n. 18821).

L'esenzione fu però allargata nel 2005 dal governo Berlusconi per includere tutti gli immobili di proprietà della chiesa, anche quelli utilizzati a fini commerciali.

Questo allargamento fu poi giudicato dalla Commissione europea come si è visto un aiuto di Stato, perché di fatto andava a danno delle attività commerciali non di proprietà della Chiesa.

A decorrere dal 1° gennaio 2012, l'ICI è stata poi sostituita dall'IMU. E la Commissione ha riscontrato che questa imposta è conforme alle norme dell'Ue in materia di aiuti di Stato, in quanto limita chiaramente l'esenzione agli immobili degli enti non commerciali che svolgono attività non economiche.

La Commissione, però, non ha ingiunto all'Italia di recuperare l'aiuto perché le autorità italiane avevano dimostrato che il recupero sarebbe stato assolutamente impossibile.

In sostanza, non si poteva determinare quale porzione dell'immobile di proprietà dell'ente non commerciale fosse stata utilizzata esclusivamente per attività non commerciali, risultando quindi legittimamente esentata dal versamento dell'imposta.

Osservazioni

Ora La Commissione sarà obbligata a dare esecuzione alla sentenza della Corte di Giustizia ordinando allo Stato Italiano il recupero degli aiuti ovvero identificando già nel testo della decisione un metodo che consenta il recupero, anche soltanto parziale, degli stessi.

Si tratta di sentenza certamente significativa e che ha suscitato grande clamore giacchè se l'Italia non dovesse recuperare gli aiuti si aprirebbe la via della procedura di infrazione, con altri gravosi oneri a carico dei contribuenti.

Ricordiamo che le decisioni della Commissione che dichiarano la incompatibilità di un aiuto adottando le conseguenti statuizioni sulla restituzione delle somme hanno efficacia “diretta” nell'ordinamento nazionale e quindi sono “vincolanti” nel senso di imporre allo Stato membro di eliminare l'atto (amministrativo o negoziale) o la norma di legge che prevede l'aiuto vietandone la concreta erogazione e disponendone il recupero, pena l'assogettamento a procedura di infrazione in caso di inadempimento (Cass. Civ. 3 novembre 2010 n. 22318).

Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza eurounitaria, l'unica ragione di difesa opponibile è la “impossibilità assoluta” di dare esecuzione alla decisione della Commissione (CGUE,sent. 20 settembre 2007, C-177/07, Commissione/Spagna e sent. 13 novembre 2008, C-124/07, Commissione /Francia) ravvisabile nei soli casi di difficoltà “impreviste e imprevedibili” o nei casi in cui vi siano conseguenze non considerate dalla Commissione stessa (CGUE, sent. 1° giugno 2006, C 207/05, Commissione/Italia e sent. 6 dicembre 2007, C-280/05, Commissione/Italia), essendo del tutto irrilevanti addotte difficoltà “giuridiche, politiche e pratiche”.

Ed è appunto su questa strada che si è mossa la Corte di Giustizia la quale, riformando la sentenza del Tribunale UE (confermativa della decisione della Commissione e aderendo alle conclusioni dell'Avvocato generale), ha stabilito che le carenze organizzative o tecniche di uno Stato non lo esimono dal recupero delle somme illegittimamente erogate.

Si segnala che una volta emanati gli atti per procedere al recupero dell'aiuto illegittimo nei confronti del beneficiari che ne hanno fruito, può solo aprirsi dinanzi al giudice nazionale, in caso di opposizione, un contenzioso destinato ad affrontare i motivi di doglianza da costoro dedotti per resistere all'intimata restituzione.

La tipologia del processo dipende dalla natura dell'aiuto ma anche dell'autorità designata al recupero e fino a pochi anni orsono determinava un riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice tributario.

Il giudice tributario restava in particolare il destinario unico dei reclami avverso gli atti impositivi di recupero di agevolazioni ed esenzioni fiscali emessi dall'Amministrazione finanziaria.

Tale duplicità di riti influiscono sui tempi di definizione e sulla uniformità della giurisprudenza per cui è stata da ultimo prescelta dal legislatore (L.234/2012)la strada di attribuzione di tutta la materia (sia per le controversie riguardanti gli atti concessori di aiuti in violazione dell'art. 108 3 TFUE su cui il GA aveva già competenza e ricomprendenti anche le azioni inibitorie e risarcitorie promosse dai terzi concorrenti, sia per quelle afferenti i provvedimenti di recupero interni in esecuzione di decisione della Commissione) alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 49).

Sembra fuori luogo richiamare le regole nazionali sulla decadenza o prescrizione per ostacolare il recupero, valendo in materia solo principi comunitari.

In particolare in tema di prescrizione si evidenzia che per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, il principio di effettività impone di disapplicare le norme interne che impediscano l'attuazione del recupero imposto dalle istituzioni UE. Il principio è oggi riflesso anche nell'art. 51 della L. n. 234/12.

Invero il diritto interno - anche riguardo gli spazi temporali - resta “recessivo” rispetto a quello comunitario posto che l'interesse primario da tutelare è quello di evitare la distorsione della concorrenza e quindi occorre rimuovere i fattori che la producono nei termini scanditi dalla disciplina comunitaria.

Diversamente si offrirebbe agli Stati membri, sempre riluttanti a procedere al recupero degli aiuti, un facile escamotage per sottrarsi con carattere di generalità al relativo obbligo. Lo Stato italiano dovrà dunque adottare verosimilmente un apposito decreto ministeriale, con indicazione delle modalità di riscossione delle imposte e i relativi termini di pagamento.

Qualora si riscontrassero insormontabili difficoltà nell'identificazione degli immobili e degli importi da recuperare, lo Stato potrebbe anche esigere - come avvenuto in precedenti casi di regimi di aiuto - un'autodichiarazione del proprietario o di chi ne aveva il possesso nel periodo oggetto di accertamento.

Del resto, chi svolge un'attività in forma commerciale è tenuto a far fronte agli oneri tributari, senza eccezione di sorta.

Per cui la distinzione la natura e le modalità con cui le attività sono condotte sicuramente contribuisce a contrastare taluni “privilegi” che distorcono la vita economica del Paese.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.