Pieghi sigillati e borse: solo in caso di apertura coattiva è necessaria l'autorizzazione del PM

15 Gennaio 2019

In tema di accertamento delle imposte, l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica all'apertura di plichi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dall'art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633/1972 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 33 del d.P.R. n. 600/1973), è richiesta soltanto nel caso di «apertura coattiva», e non anche ove l'attività di ricerca documentale si svolga con la collaborazione del contribuente o di un suo dipendente.
Massima

In tema di accertamento delle imposte, l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica all'apertura di plichi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dall'art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633/1972 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 33 del d.P.R. n. 600/1973), è richiesta soltanto nel caso di «apertura coattiva», e non anche ove l'attività di ricerca documentale si svolga con la collaborazione del contribuente o di un suo dipendente.

Il caso

Una società era attinta da avvisi da accertamento relativi a tre annualità di imposta con cui venivano recuperati a tassazione ricavi non dichiarati. Gli atti impositivi traevano origine da due verifiche fiscali dalle quali era emersa l'esistenza di documentazione relativa ad un conto corrente bancario intestato ad una persona fisica, la cui movimentazione - secondo l'Ufficio - si riferiva ad operazioni non dichiarate della società contribuente. Gli estratti conto erano contenuti in una borsa chiusa, rinvenuta in sede di accesso agli uffici aziendali e consegnata ai verificatori da una dipendente della società.

Secondo la CTR, che accoglieva l'appello della società contribuente ed annullava gli atti impositivi, l'acquisizione dei dati bancari era avvenuta illegittimamente, in quanto posta in essere tramite l'apertura di una borsa chiusa su consenso (irritualmente prestato) di un soggetto non delegato dal titolare a rappresentarlo nel corso delle operazioni di verifica fiscale. Pertanto la documentazione bancaria era da ritenersi inutilizzabile.

L'Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra l'altro, la violazione e falsa applicazione dell'art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633/1972 che, in tema di accessi, ispezioni e verifiche fiscali da parte del personale civile e dei militari della Gdf nell'esercizio di compiti di collaborazione con gli uffici finanziari ad essa demandati, richiede la «necessaria autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell'autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente alle quali è eccepito il segreto professionale…».

Denunciava altresì l'omessa motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo, costituito da due circostanze: anzitutto, nessuna contestazione era stata formulata dal titolare dell'impresa, né dal suo delegato, in ordine all'apertura della borsa, che era stata consegnata spontaneamente da un dipendente; in secondo luogo, la documentazione ivi rinvenuta aveva costituito un mero spunto per lo svolgimento di ulteriore attività di polizia tributaria, fondandosi pertanto i rilievi dell'amministrazione non già su tale documentazione, bensì sui risultati dei controlli eseguiti sul conto corrente bancario.

La Suprema Corte, sezione Tributaria, ha accolto il ricorso agenziale e cassato con rinvio l'impugnata sentenza di annullamento degli atti impositivi, reputando pienamente «legittima l'acquisizione della documentazione bancaria custodita all'interno della borsa rinvenuta in sede di verifica fiscale, laddove, come nel caso in esame, l'apertura della stessa è avvenuta con l'autorizzazione di un dipendente dell'impresa in verifica».

La questione

La controversia risolta dall'ordinanza n. 24306/2018 delinea l'esatto ambito di applicazione del provvedimento di autorizzazione del Procuratore della Repubblica, prescritto dal cit. art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633/1972 (e necessario anche in tema di imposte dirette in virtù del richiamo contenuto nell'art. 33 del d.P.R. n. 600/1973) «soltanto in caso di “apertura coattiva” e non anche quando l'attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente» direttamente oppure – va aggiunto – per il tramite di un suo dipendente.

Sul punto, la pronuncia in esame ripropone le argomentazioni già esposte da Cass. civ., sez. trib., n. 3204/2015 che, a sua volta, richiama a Cass. civ., sez. trib., sentenza n. 9565/2007, ove si esclude la necessità dell'autorizzazione del magistrato nel caso in cui il contribuente abbia assistito (personalmente) all'apertura della cassaforte senza formulare alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione a chiusura della verifica, con ciò palesando, quindi, un tacito consenso (o quantomeno non esternando un dissenso esplicito). La particolarità dell'odierna vicenda, tuttavia, era data dal fatto che non fu personalmente il verificato a prestare diretta collaborazione ma un suo dipendente.

Le soluzioni giuridiche

La Sezione tributaria di Piazza Cavour, nella pur succinta motivazione rassegnata in parte qua, ha ritenuto (implicitamente) irrilevante l'assenza di delega formale da parte del titolare dell'impresa verificata in favore del dipendente che consegnò spontaneamente la borsa (non di sua proprietà), ritenendo assorbente la circostanza – incontestata nella specie – che, nell'immediatezza e successivamente, non era «stata sollevata alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione resa a chiusura della verifica della medesima».

Con il che la Corte regolatrice annette una lettura restrittiva al concetto di «apertura coattiva» contenuto nella citata disposizione normativa, limitandone l'applicazione ai soli casi di espresso dissenso formalizzato personalmente dal contribuente verificato (id est: dal l.r. dell'impresa o dal soggetto formalmente delegato ad assistere alle operazioni di verifica), oppure in sua assenza – deve ritenersi, per eadem ratio evincibile dal dictum annotato – da un suo dipendente o collaboratore che lo esterni nel corso delle operazioni in nome e per conto del titolare. Il che equivale a ribadire che l'assenso del contribuente – o di chi lo rappresenti (non solo formalmente, ma anche di fatto) supera ogni questione sulla necessità (e non solo sulla regolarità) del provvedimento autorizzatorio e, quindi, sulla legittimità dell'accesso stesso.

Osservazioni

La pronuncia offre lo spunto per tornare sulla funzione e sulla natura dell'autorizzazione del Procuratore della Repubblica che legittima l'attività di verifica nei luoghi domiciliari ovvero l'attività acquisitiva da parte degli impiegati dell'Amministrazione finanziaria o dei militari della Guardia di finanza. L'autorizzazione è richiesta:

  • in caso di accesso fiscale presso locali adibiti (anche od esclusivamente) ad abitazione (art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972 in materia di IVA, applicabile anche all'accertamento delle II.DD. in forza del rinvio di cui all'art. 33 del d.P.R. n. 600/1973 (nel senso che l'autorizzazione è subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni tributaria soltanto quando si tratti di locali ad uso promiscuo, cioè che siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l'attività professionale, v. da ultimo Cass. civ., sez. trib., n. 7723/2018, in questa Rivista con commento di G. Palumbo, Verifiche fiscali ed autorizzazione all'accesso domiciliare);
  • in caso di apertura coattiva di plichi chiusi, casseforti, mobili o simili presso i locali del contribuente (art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633/1972, applicabile anche all'accertamento delle II.DD. in forza del succitato rinvio).

La previsione in tutte queste ipotesi della preventiva autorizzazione (scritta) del Procuratore della Repubblica (territorialmente competente ratione loci) si pone come garanzia per il bilanciamento degli interessi in gioco, di pari rango costituzionale: da un lato, quello dell'Amministrazione finanziaria a poter proficuamente effettuare, nell'interesse della pretesa fiscale (art. 53 Cost.), le operazioni di verifica a carico del contribuente accedendo anche in luoghi privati oppure prendendo cognizione tutti gli atti, ovunque rinvenuti, potenzialmente rivelatori di capacità contributiva, ancorché involgenti aspetti secretabili; dall'altro, quello del contribuente, sottoposto a verifica, a non veder lese le proprie libertà costituzionali in materia di inviolabilità del domicilio e della corrispondenza (artt. 14 e 15 Cost.), valendo il principio statuito dal Giudice delle leggi, secondo cui «attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito» (Corte costituzionale, sentenza n. 34/1973).

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'autorizzazione in questione, ancorché promani da un organo magistratuale, costituisce un provvedimento amministrativo tipicamente discrezionale (così già Cass. civ., sez. I, n. 12050/1998) che si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell'atto impositivo ed ha lo scopo di verificare che gli elementi offerti dall'Ufficio tributario siano consistenti ed idonei ad integrare gravi indizi.

Da tale natura e funzione dell'autorizzazione discende, da un lato, che come tutti gli atti amministrativi possono essere affetti dal vizio di violazione di legge (in termini v. già Cass. civ., sez. I, sentenza n. 7368/1998), dall'altro, che il giudice tributario davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell'accesso domiciliare, può essere chiamato a controllare incidentamente l'esistenza del decreto del P.M. (atto-presupposto) e la presenza in esso degli indispensabili requisiti, ferma restando l'esternabilità della gravità degli indizi anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall'autorità richiedente (Cass. civ., sez. Trib., sentenza n. 23824/2017). Ed anzi il massimo Consesso nomofilattico ha statuito che il giudice tributario ha il potere-dovere (in ossequio al canone ermeneutico secondo cui va privilegiata l'interpretazione conforme ai precetti costituzionali, nella specie agli artt. 14 e 113 Cost.), non solo di verificare la presenza di motivazione - sia pure concisa o per relationem - circa il concorso di gravi indizi del verificarsi dell'illecito fiscale, ma anche di controllare la correttezza in diritto del relativo apprezzamento, nel senso che faccia riferimento ad elementi cui l'ordinamento attribuisca valenza indiziaria. Pertanto, nell'esercizio di tale compito, il giudice deve negare la legittimità dell'autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime, valutando conseguenzialmente il fondamento della pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove (Cass. civ., sez. Unite, n. 16424/2002).

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