Delimitazione della responsabilità del condominio per i danni cagionati da cose in custodia

18 Luglio 2019

La responsabilità speciale per i danni cagionati da cose in custodia, essendo correlata alla res, ricade sul soggetto che abbia un potere di uso della cosa e un correlativo obbligo di custodia.
Massima

Il condominio non risponde a titolo di responsabilità da cose in custodia qualora il bene di proprietà condominiale abbia costituito la mera occasione della produzione del danno, la cui integrazione deve essere ricondotta ad una causa prossima non imputabile né oggettivamente né soggettivamente al condominio, di natura eccezionale, imprevedibile ed inevitabile, come tale rientrante nell'esimente del caso fortuito.

Il caso

L'attrice agiva in giudizio, nei confronti del condominio di un fabbricato sito in Roma, in persona del suo amministratore pro-tempore, deducendo di essere scivolata e, all'esito, caduta a causa della presenza sui gradini delle scale condominiali di residui di un sacchetto di immondizia lasciato aperto; per l'effetto, chiedeva la condanna generica al risarcimento dei danni, con riserva di agire in separata sede per la quantificazione.

La domanda giudiziale era disattesa in prime cure con sentenza confermata in sede di gravame, cui seguiva la cassazione con rinvio della Corte di legittimità. All'esito del giudizio di rinvio, il rigetto della domanda era confermato dalla Corte d'appello.

In conseguenza, la parte soccombente spiegava nuovamente ricorso in cassazione sulla base di un unico motivo. Non svolgeva attività difensiva il condominio intimato.

All'esito, il ricorso era trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380-bis, comma 1, c.p.c., e si concludeva con ordinanza di rigetto, motivata in forma semplificata. La ricorrente, con l'unico motivo prospettato, ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2051, 1117, 2055, 1292, 1293, 1294 e 2697 c.c., nonché nullità della sentenza per omessa, contraddittoria o illogica motivazione.

L'infondatezza del motivo dedotto è stata argomentata in ragione del fatto che la sentenza impugnata si era conformata ai principi di diritto enunciati in sede nomofilattica in tema di responsabilità per i danni causati da beni in custodia e di distribuzione dei relativi oneri probatori. Al riguardo, la Corte ha evidenziato che, in base a tali principi:

a) in tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., è onere del danneggiato provare il fatto dannoso ed il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno e, ove la prima sia inerte e priva di intrinseca pericolosità, dimostrare, altresì, che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il verificarsi del secondo, nonché di aver tenuto un comportamento di cautela correlato alla situazione di rischio percepibile con l'ordinaria diligenza, atteso che il caso fortuito avrebbe potuto essere integrato anche dal fatto colposo dello stesso danneggiato; nel caso esaminato, la S.C. aveva ritenuto eziologicamente riconducibili alla condotta del ricorrente i danni da quest'ultimo sofferti a seguito di una caduta su un marciapiede sconnesso e reso scivoloso da un manto di foglie, posto che l'incidente era accaduto in pieno giorno, le condizioni di dissesto del marciapiede erano a lui note, abitando nelle vicinanze, e la idoneità dello strato di foglie a provocare una caduta era facilmente percepibile, circostanza che avrebbe dovuto indurlo ad astenersi dal transitare per quel tratto di strada ;

b) ai sensi dell'art. 2051 c.c., allorché venga accertato, anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa oggetto di custodia, che la situazione di possibile pericolo, comunque ingeneratasi, sarebbe stata superabile mediante l'adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, deve escludersi che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell'evento, e ritenersi, per contro, integrato il caso fortuito;

c) in tema di responsabilità del custode, la ricorrenza in concreto degli estremi del caso fortuito costituisce il risultato di un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in cassazione se adeguatamente motivato.

Sennonché, la Corte ha ritenuto che, nella specie, il giudice d'appello avesse applicato correttamente tali principi, avendo prospettato, in fatto e con valutazione fondata su adeguata motivazione, come tale non sindacabile in sede di legittimità, che la ricorrente era caduta scivolando sui residui di un sacchetto di immondizia lasciato aperto sulle scale condominiali e che tale circostanza rappresentava un evento estraneo alla sfera di custodia dell'amministratore del condominio, eccezionale, imprevedibile e non evitabile, tale da poter configurare il caso fortuito, e quindi costituiva l'unica causa del danno, il che era condizione sufficiente ad integrare la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c. La Cassazione ha rilevato, altresì, che l'esclusione della sussistenza del nesso di causalità tra la cosa in custodia e l'evento lesivo preclude in radice la configurabilità di una responsabilità per colpa ai sensi dell'art. 2043 c.c. a carico dello stesso amministratore del condominio. Sicché non erano state le rampe delle scale condominiali, oggetto di custodia a cura dell'amministratore, ad aver causato il danno alla persona, poiché tali rampe avevano costituito solo l'occasione affinché l'evento lesivo si potesse verificare. Piuttosto, la causa immediata del danno è stata identificata nella presenza sui gradini di tali scale dei residui di un sacchetto di immondizia lasciato aperto, condotta quest'ultima del tutto eccezionale, imprevedibile e inevitabile, non rientrante nell'oggetto della custodia ed integrante il caso fortuito.

La Corte di legittimità ha escluso, inoltre, che – in relazione ai suddetti accertamenti di fatto – potesse darsi corso alla richiesta della ricorrente di consentire una diversa valutazione delle prove e un riesame nel merito del giudizio. In proposito, la Corte ha evidenziato che tale motivo non è ammissibile in sede di legittimità, considerato che al processo instaurato sarebbe stata applicabile, poiché la sentenza impugnata era stata pubblicata in data successiva all'11 settembre 2012, il nuovo testo dell'art. 360, comma 1,n. 5, c.p.c., come riformulato dall'art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui non sono più deducibili, come in passato, genericamente vizi di motivazione, ma esclusivamente l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti).

Ancora, la Cassazione ha precisato che la violazione dell'art. 2697 c.c. non era stata dedotta in conformità al paradigma indicato dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, secondo Cass. civ., sez. un., 5 agosto 2016, n. 16598, la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura ove il giudice di merito applichi la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l'onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio – fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c. –, mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell'art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”.

In ultimo, la Corte ha reputato del tutto inconferenti le ulteriori questioni poste nel ricorso, con riguardo all'applicabilità alla fattispecie delle norme in tema di condominio negli edifici e di responsabilità solidale dei condomini, dal momento che – da una parte – era stato escluso che l'evento lesivo fosse derivato causalmente da beni di proprietà condominiale e, quindi, nella custodia dell'amministratore, e - dall'altra parte - l'eventuale responsabilità per colpa di un singolo condomino (peraltro non individuato), in relazione all'infortunio patito dalla ricorrente, non sarebbe stata in alcun modo idonea a determinare la responsabilità dell'ente di gestione convenuto e/o comunque degli altri condomini.

La questione

Il condominio risponde a titolo di responsabilità da cose in custodia nell'ipotesi in cui una persona cade a causa della presenza sui gradini delle scale condominiali di residui di un sacchetto di immondizia lasciato aperto?

Le soluzioni giuridiche

La responsabilità speciale per i danni cagionati da cose in custodia, essendo correlata alla res, ricade sul soggetto che abbia un potere di uso della cosa e un correlativo obbligo di custodia. Inoltre, l'applicazione della norma presuppone che il danno sia stato provocato da un dinamismo connaturato alla cosa oppure dallo sviluppo di un agente dannoso insorto nella cosa. Il danneggiato deve dunque provare il collegamento in termini di causalità fra cosa in custodia e danno. Nel caso in cui la cosa sia normalmente inerte oppure innocua, è necessario che il danneggiato fornisca la prova delle condizioni di pericolo, oppure di insidiosità insorte nella cosa; mentre nel caso in cui la cosa sia dotata di una particolare attitudine lesiva, l'onere probatorio è esaurito dalla dimostrazione della contestualità tra l'evento dannoso ed il contatto con la cosa. L'art. 2051 c.c. si riferisce al danno cagionato dalla cosa, indipendentemente da un comportamento volontario di colui che se ne serve, e non è applicabile quando il danno sia derivato dalla cosa per effetto dell'intervento positivo del fatto dell'uomo. Non è necessario, ai fini dell'applicazione della norma, che la cosa dannosa abbia una specifica, intrinseca pericolosità. Secondo la dottrina prevalente, la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia ha natura oggettiva, poiché la condotta diligente del custode non esclude in sé la responsabilità, ove non si sia determinata un'interruzione del nesso causale. Si tratterebbe, per l'effetto, di una responsabilità collegata al rischio di custodia, che smentisce la ricostruzione risalente della giurisprudenza che fonda tale fattispecie su una presunzione legale di colpa. In senso contrario, una tesi minoritaria, richiamandosi ai riferimenti contenuti nella relazione al codice civile, riconduce la fattispecie nell'alveo della responsabilità soggettiva, discendente dal fatto imputabile all'uomo, sebbene connotata da una presunzione di colpa, sicché la prova liberatoria avrebbe per contenuto l'identificazione della causa non imputabile, in modo che la causa ignota rimarrebbe a carico del custode. La presunzione legale di colpa del custode sarebbe giustificata dalla circostanza che l'idoneità della cosa a produrre un danno impone di adottare le misure adeguate per rendere la cosa innocua, sicché il fondamento della responsabilità del custode sarebbe ravvisabile nella violazione del suo dovere di sorveglianza. Una tesi ulteriore afferma che tale forma di responsabilità non può correttamente ricondursi né al modello della responsabilità puramente oggettiva né al modello della responsabilità puramente soggettiva, ma è piuttosto inquadrabile in una categoria intermedia, cui può attribuirsi la qualifica meramente descrittiva di responsabilità semioggettiva.

In ragione dell'analisi giurisprudenziale degli ultimi anni, la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia ha carattere oggettivo e non prevede una presunzione di colpa, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia: una volta provate queste circostanze, il custode, per escludere la sua responsabilità, ha l'onere di provare il caso fortuito, ossia l'esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale. Ne discende che tale ipotesi di responsabilità oggettiva è circoscritta esclusivamente dal caso fortuito, e non, quindi, dall'ordinaria diligenza del custode. Al riguardo, è superato il tradizionale orientamento giurisprudenziale che individuava nella norma in questione un'ipotesi di presunzione di colpa, il cui fondamento sarebbe pur sempre riconducibile al fatto imputabile dell'uomo, venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza affinché la cosa non producesse danni a terzi. Piuttosto, perché la responsabilità oggettiva da cose in custodia possa configurarsi in concreto è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d'altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. In base ad una pronuncia di legittimità, la responsabilità da cose in custodia sussiste qualora ricorrano due presupposti: un'alterazione della cosa che, per le sue intrinseche caratteristiche, determina la configurazione nel caso concreto della c.d. insidia o trabocchetto e l'imprevedibilità e l'invisibilità di tale alterazione per il soggetto che, in conseguenza di questa situazione di pericolo, subisce un danno. Per converso, si ritiene che il comportamento del responsabile sia estraneo alla fattispecie e fa giustizia di quei modelli di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta o meno, parlando in proposito di ipotesi di responsabilità soggettiva o semioggettiva. In ragione del carattere oggettivo di tale responsabilità, per la cui configurazione in concreto basta che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, ricade sull'attore l'onere probatorio relativo alla dimostrazione che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa. D'altronde, il caso fortuito (da intendersi nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato), quale causa di esclusione della responsabilità, costituisce fattore che attiene non già ad un comportamento del custode (che é irrilevante) bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità. Quanto alla distribuzione dell'onere probatorio, l'attore deve offrire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l'evento lesivo nonché dell'esistenza di un rapporto di custodia relativamente alla cosa, mentre il convenuto deve dimostrare l'esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità, cioè il caso fortuito, in presenza del quale è esclusa la responsabilità del custode. La prova del rapporto eziologico tra la cosa in custodia e l'evento dannoso può essere data anche attraverso la dimostrazione di circostanze dalle quali sia possibile dedurre, in via presuntiva, l'integrazione del nesso di causalità. Pertanto, il riferimento ad una concreta condotta colposa del danneggiante, contenuto nella domanda di risarcimento danni, esclude che la parte attrice abbia inteso richiamare la fattispecie della responsabilità da cose in custodia, essendo questa fondata sulla mera esistenza di un nesso causale tra la cosa ed il danno, a prescindere dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode, ciò che preclude all'attore la possibilità di invocare, nei successivi gradi di giudizio, l'applicazione dell'art. 2051 c.c. , a meno che l'attore non abbia, sin dall'atto introduttivo del giudizio, enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detto articolo.

La norma prevede un criterio di imputazione della responsabilità, basato sulla relazione di custodia che intercorre tra la cosa che ha cagionato il danno ed il soggetto che sarà chiamato a rispondere dello stesso. Perché si abbia custodia occorre che la cosa sia nella fisica disponibilità di un individuo, situazione cui inerisce il dovere di vigilare per evitare che essa produca danni a terzi. Sicché custode della cosa è colui che ha l'effettivo potere materiale su di essa ovvero ne ha la disponibilità di fatto piena ed esclusiva. In senso più ampio, il custode si identifica con il soggetto che ha il dovere di controllo sul rischio derivante dalla cosa; ne discende che deve essere considerato custode il soggetto che abbia con la res un rapporto duraturo e continuativo, tale da rendere prevedibili i rischi a cui la cosa stessa espone i terzi. La tesi prevalente individua nella custodia una particolare relazione tra un soggetto e la res, che legittima una pronuncia di responsabilità, fondandola sul potere di escludere qualsiasi terzo dall'ingerire sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno. Pertanto, custode può essere non solo il proprietario della cosa ma anche il semplice possessore o il detentore, legittimo o abusivo, nell'interesse proprio o altrui. Custode può essere considerato anche l'imprenditore, rispetto a tutte le cose con cui si svolge la sua attività, quale che sia la sua posizione in relazione ad esse ed anche ove le abbia affidate ai suoi dipendenti. Deve ritenersi custode sia colui che controlla direttamente la cosa sia colui che si avvale del primo per tale controllo. Incombe sul danneggiato la prova che la cosa che ha provocato il danno era nella custodia di colui al quale si chiede il risarcimento. L'espressione «custodia» non corrisponde alla nozione tecnica di cui fa uso il legislatore per definire il contratto di deposito, ma è adoperata in senso atecnico, come traduzione letterale del termine garde usato dall'art. 1384 del Code Napolèon, sicché essa assume un significato ampio ed elastico, la cui specificazione è affidata alla giurisprudenza. Qualora vi siano più custodi, ognuno risponde in via solidale per i danni subiti dai terzi; con-custodi sono di regola i comproprietari della cosa, i quali non sono presuntivamente responsabili l'uno verso l'altro.

Il potere effettivo e dinamico sulla cosa, al quale la legge ricollega la responsabilità, è generalmente rappresentato dall'espressione «governo della cosa». Tale criterio è un elemento qualificante la custodia e si concretizza nella disponibilità immediata sulla cosa; tale disponibilità di fatto, inoltre, non può essere disgiunta dalla disponibilità giuridica delle condizioni di uso e di conservazione della cosa. Infatti, la responsabilità da cose in custodia si fonda sull'esistenza di un rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all'evento lesivo, rapporto che postula l'effettivo potere sulla stessa, e cioè la sua disponibilità giuridica e materiale, con il conseguente potere di intervento su di essa, e che compete al proprietario o anche al possessore o detentore. L'usufruttuario, avendo il possesso della cosa, è parificato al proprietario, senza che si possa distinguere nell'ambito della cosa oggetto dell'usufrutto (nella specie, villa con parco), per sottrarsi alla responsabilità, tra un singolo bene pertinenziale non fruttifero, destinato a scopi ornamentali, come una pianta di araucaria, e il bene principale, atteso che la capacità di produrre frutti va riferita non alle singole parti, ma al bene nella sua inscindibile totalità. Non assume rilievo, ai fini di escludere la responsabilità, la circostanza della illegittimità della materiale detenzione della res damnosa. Non rileva sul punto la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso pertinente non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire, analogo a quello previsto in materia di deposito. La norma ha la funzione di ascrivere la responsabilità al soggetto che si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo - pertanto - considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Dunque, la relazione di fatto e non semplicemente giuridica tra il soggetto e la cosa legittima una pronunzia di responsabilità, fondata sul potere di governo della res. Detto ultimo potere si compone di tre elementi: il potere di controllare la cosa, il potere di modificare la situazione di pericolo creatasi e il potere di escludere qualsiasi terzo dall'ingerenza sulla cosa, nel momento in cui si è prodotto il danno. La disponibilità che della cosa ha l'utilizzatore non comporta, invece, necessariamente il trasferimento in capo a questi della custodia, da escludere in tutti i casi in cui, per specifico accordo delle parti, o per la natura del rapporto, ovvero per la situazione fattuale determinatasi, chi ha l'effettivo potere di ingerenza, gestione ed intervento sulla cosa, nel conferire all'utilizzatore il potere di utilizzazione della stessa, ne abbia conservato la custodia. Ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., nell'ipotesi in cui il danno sia stato causato al lavoratore da cose che il datore di lavoro aveva in custodia e, a maggior ragione, in quella in cui lo stesso datore, in ragione dell'attività da lui esercitata, abbia ricevuto in consegna un oggetto che il lavoratore sia stato incaricato di elaborare, sussiste a carico del datore di lavoro (sempre che siano certi l'esistenza del danno e il rapporto di causalità con l'ambiente lavorativo) una presunzione di responsabilità, derivante dalla concorrente applicabilità degli artt. 2051 e 2087 c.c., che può essere superata solo dalla dimostrazione dell'avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e della natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso. Nella specie, è stata affermata la responsabilità di un'azienda di riparazione di pneumatici in relazione all'infortunio occorso ad un suo dipendente che, mentre era intento al gonfiaggio di un pneumatico, era rimasto colpito in viso dal cerchione sganciatosi improvvisamente per il cedimento dei bulloni causato dallo stato di usura dello stesso pneumatico. In particolare, ove il danno derivi da un macchinario che il lavoratore aveva il compito di manovrare, è applicabile, in via residuale, l'art. 2051 c.c., allorché, non trattandosi di attrezzature o strumenti guasti o malfunzionanti affidati al lavoratore in violazione dell'art. 2087 c.c., il danno sia stato prodotto da un comportamento delle cose anzidette assolutamente anomalo e in nessun modo influenzato dall'uso fattone per l'esecuzione della prestazione lavorativa, atteso che, in tale ipotesi, il lavoratore, pur in immediato contatto con la cosa produttiva del danno, si trova, rispetto alla medesima - quanto alla genesi e alle conseguenze del fatto dannoso – in una relazione di sostanziale estraneità, non dissimile da quella di un soggetto non impegnato nell'attività lavorativa trovatosi casualmente nelle vicinanze della cosa, con la differenza che il lavoratore, cui dal datore di lavoro sia assegnato l'uso del macchinario, deve utilizzarlo costantemente come strumento di lavoro e per obbligo contrattuale e che il datore di lavoro non può evitare la propria responsabilità se non provando, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi normativi, la causale connessione del danno con un comportamento anomalo del lavoratore, che di questo sia stato la causa esclusiva. In termini più generali la responsabilità può anche risalire a più soggetti, ai quali la custodia faccia capo a pari titolo o anche per titoli diversi, che importino tutti l'attuale esistenza di poteri di uso, gestione, ingerenza sulla cosa, sempre che l'evento lesivo non sia da attribuire alla sfera di vigilanza di uno di essi, con esclusione degli altri. Nei rapporti in cui la custodia costituisce prestazione accessoria rispetto all'obbligo in cui si sostanzia il contratto, si reputa che trovino applicazione non le regole di cui alla norma in commento, bensì le regole ordinarie sulla responsabilità per colpa. L'indagine sulla ricorrenza della custodia rilevante per la responsabilità ex art. 2051 c.c.costituisce accertamento di fatto riservato al giudice di merito. L'obbligazione di risarcire il danno immobiliare da infiltrazione, ai sensi dell'art. 2051 c.c., non è un'obbligazione propter rem, che si trasferisce dal venditore al compratore insieme alla proprietà dell'immobile da cui il danno stesso proviene, trattandosi, invece, di un'obbligazione connessa alla qualità di custode dell'immobile nel momento in cui esso ha cagionato il danno. Nel concetto di cosa in custodia si fa rientrare qualsiasi elemento inanimato, mobile (anche registrato) o immobile, pericoloso o meno, allo stato solido, fluido o gassoso, dal momento che ogni cosa può essere in grado, in certe circostanze, di produrre danni. Sono esclusi da tale novero quelle cose (edifici e autoveicoli) per le quali è prevista una disciplina specifica. La responsabilità per difetto di custodia presuppone, secondo taluno, la pericolosità della cosa sottoposta alla custodia medesima, che dovrebbe di volta in volta essere accertata dal giudice, senza che sia ammissibile una deduzione ex post del danno cagionato. Altri autori, invece, affermano che tutte le cose possono costituire causa di danno ai sensi dell'art. 2051 c.c., quale che sia la loro struttura e qualità, ossia indipendentemente dal fatto che si tratti di cose inerti o in movimento, pericolose o meno. Il danno deve essere provocato da cose lasciate libere di operare per effetto del proprio naturale dinamismo, non già da un comportamento attivo del custode nel servirsi delle cose. Il criterio del dinamismo intrinseco serve ad escludere le ipotesi in cui la cosa cagiona danno come strumento dell'azione umana: occorre che il danno non derivi da un fatto di utilizzo della cosa da parte del presunto custode.

La pericolosità della cosa non costituisce un elemento costitutivo della fattispecie, con la conseguenza che la responsabilità in esame deve essere applicata anche nel caso di danni cagionati da cose innocue. Infatti, tale forma di responsabilità è indipendente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa. Anche le cose a struttura complessa, come un impianto irriguo, possono costituire la causa del danno. E così le cose inerti e prive di un proprio dinamismo, ben potendo anche esse essere idonee, in concorso di altri fattori causali, a cagionare danni. Non rileva che la cosa sia inerte ovvero in movimento, atteso che la potenzialità lesiva può consistere in un fatto intrinseco determinato dall'anomalia strutturale della cosa, dal suo connaturato dinamismo o da fattori sopravvenuti che ne alterino l'originario carattere. Per l'effetto, occorre – da un lato – che il danno sia prodotto nell'ambito del dinamismo connaturale del bene, o per l'insorgenza in esso di un processo dannoso, ancorché provocato da elementi esterni, e – dall'altro – che la cosa, pur combinandosi con l'elemento esterno, costituisca la causa o la concausa del danno. Qualora il danno non derivi da un dinamismo interno della res, in relazione alla sua struttura o funzionamento, ma presupponga un intervento umano che si unisca al modo d'essere della cosa inerte, il danneggiato può provare il nesso causale tra evento dannoso e bene in custodia unicamente dimostrando l'obiettiva situazione di pericolosità dello stato dei luoghi, tale da rendere probabile, se non inevitabile, il danno stesso. Il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti deve essere condotto alla stregua di un modello relazionale, in base al quale la cosa venga considerata nel suo normale interagire con il contesto dato, sicché una cosa inerte in tanto può ritenersi pericolosa in quanto determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante. In questo secondo senso sembra orientata anche la prevalente giurisprudenza, che sostiene che presupposto della responsabilità è rappresentato dal fatto che il danno sia stato cagionato dalla cosa, o perché questa è per sua natura suscettibile di produrre danni, o perché è prevedibile che possa intervenire, come concausa o causa esclusiva, il fortuito o il fatto dell'uomo nel processo obiettivo di produzione dell'evento dannoso, eccitando lo sviluppo di un agente, di un elemento o di un carattere che conferiscono alla cosa l'idoneità al nocumento. Sicché anche la prevedibilità del fortuito può assumere rilievo qualora insorgano nella cosa agenti dannosi, anche se provocati da elementi o da fatti provenienti dall'esterno. Ne discende che, al fine di provare il rapporto causale tra la cosa in custodia e il danno, l'attore deve allegare un elemento intrinseco od estrinseco come fatto costitutivo idoneo a radicare il nesso eziologico, senza, però, poter modificare nel corso del giudizio l'allegazione iniziale, indicando prima un fattore intrinseco e, successivamente, un fattore estrinseco, atteso che non è consentito mutare il tema d'indagine; tuttavia, nell'ipotesi in cui nel corso dell'istruttoria del primo grado di giudizio emergano altre condizioni, intrinseche o estrinseche alla cosa in custodia, che si pongano come mere specificazioni della domanda, esse potranno essere esaminate dal giudice, non integrando un fatto costitutivo nuovo. Così, a fronte dell'iniziale deduzione della caduta da una scala, dovuta alla scivolosità del terreno, l'assenza di strisce antiscivolo, emersa in sede di deposizione testimoniale, può essere prospettata in corso di causa, quale elemento ricollegabile all'allegazione principale relativa al nesso causale. Nel senso specifico ed esplicito di negare la rilevanza del presupposto della pericolosità si è pronunciata altra giurisprudenza. Così un arresto di merito ha affermato che l'art. 2051 c.c. non è applicabile qualora della cosa venga fatto un uso del tutto difforme dalla sua normale destinazione e dalle sue caratteristiche strutturali. In senso conforme altro arresto di legittimità ha sostenuto che il proprietario non ha il generale e assoluto dovere di adottare misure idonee ad impedire che un estraneo venga in contatto con la cosa in sua proprietà e ne faccia strumento per attentare all'integrità altrui, personale o patrimoniale, bensì tale dovere ha solo in quanto il bene possa costituire di per sé stesso la fonte di un pericolo per chi ne venga in contatto o se ne serve. Così nel caso in cui l'evento di danno sia da ascrivere esclusivamente alla condotta del danneggiato, la quale abbia interrotto il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, si verifica un'ipotesi di caso fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all'art. 2051 c.c.. Il giudizio sull'autonoma idoneità causale del fattore esterno ed estraneo deve essere adeguato alla natura e alla pericolosità della cosa, sicché quanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino ad interrompere il nesso eziologico tra cosa e danno e ad escludere, pertanto, la responsabilità del custode. Peraltro il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all'uso della cosa si arresta di fronte ad un'ipotesi di utilizzazione impropria la cui pericolosità é talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da renderla del tutto imprevedibile, sicché l'imprudenza del danneggiato, che abbia riportato un danno a seguito di siffatta impropria utilizzazione, integra un caso fortuito. In applicazione di siffatto principio, la S.C., in relazione ad un infortunio occorso al ricorrente danneggiato nel tuffarsi in un lago da un pontile di attracco per imbarcazioni, ha confermato l'esclusione del nesso di causalità tra il detto pontile e l'incidente in questione e ascritto l'evento lesivo esclusivamente al comportamento dell'attore. Per le stesse ragioni deve essere escluso il nesso di causalità tra gli eventuali doveri di custodia dei gestori di un complesso immobiliare con piscina, ove si era svolta una festa notturna, e l'evento di danno occorso ad uno degli ospiti, che nel corso della festa decideva improvvisamente di tuffarsi in piscina riportando gravi lesioni, riconducendo al solo comportamento di costui, del tutto improvvisamente e repentinamente posto in essere, la causa dell'evento dannoso. L'estensione del concetto di custodia agli agenti dannosi collegati a fatti provenienti dall'esterno ha condotto, in particolare, ad affermare la responsabilità, ai sensi dell'art. 2051 c.c., nei confronti del proprietario di un edificio per la caduta di neve dal tetto (Trib. Milano 31 gennaio 1987; in senso contrario App. Genova 31 marzo 1989, che ha riconosciuto l'applicabilità dell'art. 2043, non derivando i danni da dinamismo intrinseco della cosa). Nello stesso senso la norma è stata applicata a favore del proprietario della cosa per i danni conseguenti all'incendio della stessa. Ed ancora, il vizio di costruzione della cosa in custodia, anche se ascrivibile al terzo costruttore, non esclude la responsabilità del custode nei confronti del terzo danneggiato, non costituendo caso fortuito che interrompe il nesso eziologico, salva restando l'azione di rivalsa del danneggiante-custode nei confronti dello stesso costruttore. Infine, l'assenza di una intellegibile segnaletica stradale, laddove la circolazione possa comunque avvenire senza inconvenienti anche in mancanza di essa, rivelandosi sufficienti a regolarla le norme del codice della strada, non può ritenersi causa degli eventuali incidenti occorsi e, quindi, non determina alcuna responsabilità dell'ente custode della strada quanto al loro verificarsi.

Secondo la dottrina prevalente, che considera la fattispecie regolata dalla norma come un'ipotesi di responsabilità oggettiva, il fortuito è rappresentato dal fatto estraneo alla causalità della cosa, da identificarsi in base alla possibilità astratta di governarla, sicché rientra, ad esempio, nel caso fortuito la raffica di vento che trasporta il ramo di un albero in potatura sui fili di corrente. In questa prospettiva la dimostrazione del caso fortuito non implica che debba essere provata l'osservanza della dovuta diligenza e, dunque, l'assenza di colpa. La prova del caso fortuito ha contenuto positivo; in conseguenza, il custode risponde anche qualora l'agente dannoso si sia manifestato nella cosa per cause ignote. Rientra nel caso fortuito anche il fatto del terzo, sia pure doloso, o del danneggiato. Secondo altro orientamento, che qualifica la fattispecie in termini di responsabilità per colpa presunta, la prova liberatoria ricorrerebbe quando possa essere esclusa la riconducibilità causale del danno a un difetto di custodia, ovvero sia dimostrabile la mancanza di colpa in tale difetto. Attraverso questa significazione del fortuito si nega che si tratti di una fattispecie di responsabilità oggettiva. Ne consegue che la presunzione di colpa potrebbe essere vinta dalla prova che il danno è ascrivibile al caso fortuito, ossia alla verificazione di un evento non prevedibile e non superabile con la diligenza normalmente adeguata in relazione alla natura della cosa. Questa connotazione del fortuito implica che esso attenga a ciò che il presunto responsabile avrebbe dovuto fare e ha fatto in concreto per evitare il danno, non già alla causa estranea del danno. La dottrina distingue il fortuito incidente dal fortuito concorrente: il primo è un fattore causale che si cristallizza come causa esclusiva del danno, tale da rendere la cosa una mera occasione del danno stesso; il secondo, invece, è un fattore che partecipa con la cosa al processo causativo del danno, affiancandosi al fatto della cosa e non interrompendo il nesso causale, con la conseguenza che la responsabilità del custode non può essere esclusa. Il c.d. fortuito concorrente, pertanto, non assorbe l'intero nesso eziologico ed il custode è ugualmente responsabile, poiché il concorso del fatto naturale è giudicato irrilevante. Ove si ritenga che tale responsabilità prescinda dalla colpa del responsabile, del danno risponderebbe anche l'incapace. Viceversa, l'adesione ad un'ipotesi di responsabilità per colpa presunta postula la necessità di tutela dell'incapace, indipendentemente dalla rilevanza della colpa. L'incapace legale non può avvalersi dell'esimente qualora il potere di custodia competa al suo rappresentante legale.

La tesi della giurisprudenza sulla concretizzazione del fortuito, in ragione dell'adesione ad un modello di responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia avente carattere oggettivo, importa che, a fronte della sufficienza della dimostrazione – da parte dell'attore – del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia, il custode ha l'onere di provare l'esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere ovvero ad elidere il nesso causale. Ne consegue che tale tipo di responsabilità è escluso solamente dal caso fortuito, fattore che attiene, non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non all'intrinseco dinamismo della cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti cagionato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell'inizio del rapporto di custodia. Il carattere dell'imprevedibilità del caso fortuito è rilevante non già per escludere la colpa, bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare l'eccezionalità del fattore esterno, sicché anche un'utilizzazione estranea alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode, laddove largamente diffusa in un determinato ambiente sociale. Anche alcuni arresti giurisprudenziali discriminano il fortuito autonomo e il fortuito incidentale; segnatamente, la responsabilità del custode, in base alla suddetta norma, è esclusa in tutti i casi in cui l'evento sia imputabile ad un caso fortuito riconducibile al profilo causale dell'evento e, perciò, quando si sia in presenza di un fattore esterno che, interferendo nella situazione in atto, abbia di per sé prodotto l'evento, assumendo il carattere del c.d. fortuito autonomo, ovvero quando si versi nei casi in cui la cosa sia stata resa fattore eziologico dell'evento dannoso da un elemento o fatto estraneo del tutto eccezionale (c.d. fortuito incidentale), e per ciò stesso imprevedibile, ancorché dipendente dalla condotta colpevole di un terzo o della stessa vittima. Il caso fortuito va inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purché detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno: sicché tali fatti devono essere dotati di impulso causale autonomo e devono rivestire il carattere dell'inevitabilità. Viceversa, non ricorre il caso fortuito quando la causa che ha provocato il danno lamentato è strutturale ed intrinseca al modo di essere del bene, non già derivata da comportamenti estemporanei di terzi, non immediatamente conoscibili ed eliminabili dal custode, neppure con la più diligente attività di manutenzione (Cass. n. 4237/1990). A titolo esemplificativo, nel caso di caduta all'interno di un esercizio commerciale, a causa del pavimento bagnato per lo sgocciolamento degli ombrelli dei clienti, si è ritenuto che non integra il fortuito la mera disattenzione della vittima, salvo che il custode non provi di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa divenuta pericolosa per la situazione atmosferica e per la contestuale presenza di numerose persone nei locali. Per converso, sussiste il caso fortuito qualora l'evento dannoso sia riconducibile all'incendio di un cassonetto, dolosamente provocato dal terzo, idoneo ad interrompere il nesso causale. In genere, gli eventi meteorologici eccezionali costituiscono caso fortuito, qualora siano causa sopravvenuta autonomamente sufficiente a determinare l'evento, sicché si accerti, con il maggior rigore, che i danni si sarebbero verificati con pari entità anche se il soggetto preposto avesse provveduto alla predisposizione di un sistema di pompaggio per lo smaltimento delle acque, idoneo, in base alle norme disciplinanti la detta attività ed alle regole dell'arte conformi alle comuni norme di diligenza e prudenza, a contenere la furia delle acque. Ed ancora, è stato considerato caso fortuito, quale fattore causale estraneo al soggetto danneggiante, avente un'efficacia di tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa custodita e l'evento dannoso, ossia quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, una pioggia di eccezionale intensità, in relazione ai danni riportati dai proprietari degli appartamenti inondati da acque tracimate a causa di tale evento, a condizione che l'ente preposto provi di avere provveduto alla manutenzione del sistema di smaltimento delle acque nella maniera più scrupolosa e che, nonostante ciò, l'evento dannoso si è ugualmente determinato. È stata qualificata come fortuito la condotta della stessa vittima, consistente nell'introduzione in una piscina condominiale, superando un cancello, al di fuori del periodo di apertura, nonostante il divieto di entrata alle persone estranee e in mancanza di autorizzazione o di assenso da parte del custode, a cui sia conseguito il suo annegamento. Per gli stessi motivi, è stata rigettata la domanda di risarcimento dei danni derivanti all'abitazione dell'attore dalle acque provenienti dal fondo del convenuto, avendo la S.C., nel confermare la decisione impugnata, ravvisato il caso fortuito nella realizzazione da parte del terzo di un muro che, impedendo il naturale deflusso delle acque, aveva provocato l'accumulo, nel sovrastante fondo del convenuto, delle acque tracimate poi nel terreno dell'attore. Sul piano probatorio, è onere del danneggiato provare il fatto dannoso ed il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno e, ove la prima sia inerte e priva di intrinseca pericolosità, dimostrare, altresì, che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il verificarsi del secondo, nonché di aver tenuto un comportamento di cautela correlato alla situazione di rischio percepibile con l'ordinaria diligenza, atteso che il caso fortuito può essere integrato anche dal fatto colposo dello stesso danneggiato. Il caso fortuito forma oggetto di un onere probatorio che grava sul custode, soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni istruttorie, ma non anche di un'eccezione in senso stretto, sicché la relativa deduzione non incorre nella preclusione fissata, per il primo grado, dall'art. 167, comma 2, c.p.c.. In applicazione di tali principi, la S.C. ha ritenuto che, nell'ipotesi di sinistro stradale determinato dall'inattesa ed imprevista presenza di un animale selvatico sulla carreggiata di un'autostrada, la società di gestione autostradale, titolare del potere di custodia della cosa, per vincere la presunzione di responsabilità dalla quale è gravata ex art. 2051 c.c., deve dare la prova positiva che la presenza dell'animale è stata determinata da un fatto imprevedibile ed inevitabile, idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra l'evento dannoso e la cosa in custodia, non avendo efficacia liberatoria la dimostrazione della mera presenza di una recinzione, ancorché integra, in corrispondenza del tratto interessato dall'incidente, qualora tale circostanza non abbia in concreto impedito alla cosa di esplicare comunque la propria potenzialità dannosa, confermando l'inefficace esercizio dei poteri di sorveglianza su di essa. La ricorrenza in concreto degli estremi del caso fortuito costituisce il risultato di un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in cassazione se adeguatamente motivato.

Ulteriore questione esaminata dalla giurisprudenza concerne la responsabilità da cose in custodia quando il bene che causa il danno sia di natura condominiale. Ma affinché ciò si verifichi è necessario che vi sia un diretto nesso causale tra la cosa in custodia e l'evento lesivo. Per converso, tale ipotesi di responsabilità non ricorre qualora il bene condominiale sia la mera occasione su cui si innesta una causa autonoma e sorpassante del nocumento lamentato dalla vittima. Tanto premesso, si è posto innanzitutto il problema di individuare i soggetti giuridici tenuti a risarcire il danno causato da beni condominiali in custodia. Sul punto, si è ritenuto che il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, primo comma, c.c., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota, anche quando il danneggiato sia un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo, sicché devono individuarsi nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili, poiché la custodia, presupposta dalla struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c., non può essere imputata né al condominio, quale ente di sola gestione di beni comuni, privo di soggettività giuridica, né al suo amministratore, quale mandatario dei condomini (. Custode della cosa, in ordine alle parti comuni di un condominio, è il condominio medesimo, nei confronti del quale anche il condomino che abbia sofferto un danno collegato a tali parti può proporre azione di risarcimento ai sensi dell'art. 2051 c.c.. Così il condominio risponde dei danni riportati dal singolo condomino per le infiltrazioni di acqua provenienti dal muro di contenimento di proprietà condominiale. Al dovere di custodia è collegato l'obbligo di compiere le opere comportanti l'impiego di mezzi ordinari e non anche quelle per le quali sia necessario l'impiego di mezzi straordinari in relazione alla natura, al valore ed alla destinazione economica della cosa. Il condominio risponde, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei danni subiti da terzi estranei ed originati da parti comuni dell'edificio, mentre l'amministratore, in quanto tenuto a provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia delle stesse, è soggetto, ai sensi dell'art. 1218 c.c., solo all'azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che esso abbia versato ai terzi danneggiati. Così si è ritenuta la responsabilità del condominio con riferimento ai danni provocati da un cortile condominiale che funge da copertura di un locale interrato di un terzo, se la cattiva manutenzione del cortile determini infiltrazioni d'acqua nel sottostante locale. Ancora sono riparabili ai sensi dell'art. 2051 c.c., a carico del condominio, i danni reclamati dal condomino per il cattivo funzionamento di un impianto comune o per la difettosità di parti comuni dell'edificio. Secondo un primo orientamento, il condominio risponde anche dei danni a terzi, cagionati dall'omessa esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria su lastrico solare in edificio condominiale. Ma secondo la più recente tesi, in tal caso, il proprietario o l'usuario esclusivo, quale custode del bene, risponde ai sensi dell'art. 2051 c.c. mentre il condominio, in forza degli obblighi inerenti all'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni, risponde ai sensi degli artt. 1130, comma 1, n. 4, e 1135, comma 1, n. 4, c.c.. Altro arresto distingue tra riparazioni del lastrico solare di uso esclusivo dovute a vetustà e riparazioni riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, tollerati dall'usuario esclusivo; ove, in conseguenza di tali mancate riparazioni, il lastrico cagioni danni a terzi, nella prima ipotesi risponderà, ai sensi dell'art. 2051 c.c., il condominio, in concorso con il proprietario o usuario esclusivo, mentre nella seconda ipotesi risponderà, sempre ai sensi dell'art. 2051, il solo proprietario o usuario esclusivo. Del danno patito da persona il cui appartamento sia stato svaligiato da ladri, introdottivisi attraverso ponteggi installati per il restauro del fabbricato e privi sia di illuminazione che di misure di sicurezza, possono essere chiamati a rispondere non solo l'impresa che ha realizzato i ponteggi stessi, ma anche il condominio, per un duplice titolo: sia quale custode del fabbricato, ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia per culpa in vigilando od in eligendo, allorché risulti che abbia omesso di sorvegliare l'operato dell'impresa appaltatrice, ovvero ne abbia scelta una manifestamente inadeguata per l'esecuzione dell'opera. Salvo che non si determini un'ipotesi di utilizzazione impropria - da parte del terzo o del danneggiato -, la cui pericolosità sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da renderla del tutto imprevedibile, sicché siffatta impropria utilizzazione esclude il nesso di causalità. L'amministratore del condominio ha il compito di provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia di esse, col conseguente obbligo di vigilare affinché non rechino danni a terzi od agli stessi condòmini. Quest'obbligo non viene meno neanche nell'ipotesi in cui il condominio appalti a terzi lavori riguardanti le parti comuni dell'edificio condominiale, a meno che il compito di vigilare su tali lavori non venga affidato a persona diversa dall'amministratore. Ne consegue che l'amministratore stesso è responsabile del danno alla persona patito da uno dei condòmini, in conseguenza dell'inciampo in una insidia (nella specie, buca nel cortile condominiale) creata dall'impresa cui erano stati appaltati lavori di manutenzione dell'immobile condominiale.

Osservazioni

Nella fattispecie esaminata dall'ordinanza in commento correttamente è stata esclusa la responsabilità del condominio, quale ente di gestione privo di soggettività giuridica ma pur sempre considerabile quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, ai sensi dell'art. 2051 c.c., in applicazione dei principi innanzi esposti. E ciò perché, a monte, è stato negato che il danno subito dalla persona caduta sia stato cagionato da beni di proprietà condominiale. Piuttosto tali beni hanno rappresentato la mera occasione affinché, a cura di terzi, peraltro non individuati, fosse posta in essere la condotta immediatamente causatrice del nocumento. Infatti, lo scivolamento sui gradini delle scale condominiali non è dipeso da una condizione intrinseca a tali scale, bensì da un contegno ulteriore imputabile a terzi, ossia dall'abbandono sulle rampe di un sacchetto di immondizia, peraltro apertosi con la diffusione del relativo contenuto, tanto da rendere pericoloso il conseguente attraversamento. In base alle verifiche compiute in sede istruttoria, sono stati i residui di tale sacchetto ad avere determinato la caduta della vittima. Né in ordine a tale fatto può essere addebitata alcuna omissione di custodia nei confronti dell'amministratore condominiale, atteso che il comportamento eziologicamente riconducibile alla produzione dell'evento lesivo deve qualificarsi del tutto eccezionale, imprevedibile ed inevitabile. Non era esigibile, infatti, che l'amministratore controllasse, nell'imminenza del fatto, che sulle scale condominiali non fossero lasciati sacchetti delle immondizie, appunto perché siffatto contegno non rientrava tra quelli propri, connaturati alla struttura e alla funzione delle scale condominiali. Pertanto, l'evento non è ascrivibile al dinamismo interno delle scale oggetto di custodia, presupposto indispensabile affinché il condominio sia tenuto al risarcimento dei danni, come accade per i pregiudizi provocati dalla rottura di una tubazione condominiale, dal distacco di una porzione di facciata, dal malfunzionamento dell'ascensore e simili. In conseguenza, pur aderendo ad un modello di responsabilità oggettiva della fattispecie delineata dall'art. 2051 c.c., nel caso esaminato difetta in radice il collegamento causale tra bene condominiale ed evento lesivo, sicché è del tutto giustificato che il condominio convenuto vada esente da responsabilità.

Guida all'approfondimento

CIRLA, La responsabilità del condominio nei confronti dei condomini e dei terzi, in Immobili e proprietà, 2016

PASTORE, Responsabilità del custode e uso improprio, in Danno e resp., 2009, 5

RIBALDONE, Responsabilità del condominio per danni da cose in custodia, in Immobili e proprietà, 2016, 3

TRAPUZZANO, Commento sub art. 2051 c.c., in Codice della responsabilità civile, Milano, 2017

VANACORE, Gutta cavat lapidem: la responsabilità da infiltrazioni in condominio, in Resp. civ., 2012, 7

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