Le conoscenze specialistiche medico-legali non rientrano nella nozione di fatto notorio
06 Agosto 2019
Massima
L'affermazione per cui chi è affetto da malattia psichica è incapace di percepire l'effettiva realtà dei rapporti interpersonali non può ascriversi al concetto di fatto notorio valevole ex art. 115, comma 2, c.p.c., in quanto le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza sono solo quelle che siano pacificamente acquisite al patrimonio di cognizioni dell'uomo medio, con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili. Non possono invece considerarsi tali quelle valutazioni che, per la specificità scientifica e l'assenza di un'acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino per essere formulate di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi. Il caso
Tizio proponeva domanda di risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro per comportamenti persecutori e mobbing, che veniva accolta in primo grado e rigettata in sede di appello. La Corte territoriale, invero, pur riconoscendo la causa lavorativa dell'affezione patita dall'istante, concludeva nel senso di dover escludere, nel caso di specie, la sussistenza di un obbligo giuridico in capo a parte datoriale di adottare le misure necessarie per interrompere il nesso causale tra malessere lavorativo e conseguente malattia, non essendo agevole, e forse neppure possibile organizzare un intervento efficace. Ciò in quanto, secondo la corte di merito, costituisce fatto notorio ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c. che la malattia psichica si manifesta proprio con l'incapacità di percepire l'effettiva realtà dei rapporti interpersonali e con la tendenza ad attribuire ad essi effetti che non sono veramente causalmente collegati agli altrui comportamenti; di conseguenza, avendo il lavoratore, proprio a cagione del suo disturbo psichico, attribuito esclusivamente al contesto lavorativo tutta la responsabilità delle sue delusioni, non risultava possibile distinguere, e meno che mai soppesare e calibrare, l'influenza causale sull'evidente insuccesso nella gestione del dipendente, di una carenza di costui ovvero dell'organizzazione aziendale. L'istante proponeva ricorso in Cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, comma 2, c.p.c. e 2087 c.c. Il ricorso veniva accolto e la sentenza cassata con rinvio. La sentenza impugnata veniva, invero, giudicata erronea nella parte in cui essa, pur quando riconosce che, quanto meno nel periodo finale e conclusivo della vicenda, l'affezione lamentata aveva causa lavorativa, ritiene di escludere la responsabilità datoriale sul presupposto che non fosse agevole per il datore organizzare ed attuare un intervento efficace, e ciò in quanto sarebbe notorio che la malattia psichica induce ad addebitare alla condotta altrui la responsabilità di danni che sono connessi solo all'immaginario psichico del soggetto leso e quindi, stante l'atteggiamento narcisistisco della versione dei fatti offerta dal ricorrente, il datore si sarebbe trovato nell'impossibilità di evitare il determinarsi del danno. Tale ragionamento, ponendo in correlazione l'esonero dalla responsabilità di cui all'art. 2087 c.c. con l'impossibilità datoriale di impedire il danno, pur se astrattamente corretto, viene ritenuto poi, in concreto, giuridicamente errato; infatti, al fine di giustificare l'impossibilità datoriale di evitare il pregiudizio, la sentenza fa leva su un'affermazione in merito a quella che sostiene essere una notoria incapacità di chi sia affetto da malattia psichica di percepire l'effettiva realtà dei rapporti interpersonali, secondo i giudici di legittimità non condivisibile. In motivazione «In effetti le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza di cui all'art. 115, comma 2, c.p.c. e che qui interessano in quanto la sentenza impugnata ha appunto evocato l'esistenza di un fatto notorio nella asserita incapacità di percepire l'effettiva realtà dei rapporti interpersonali in capo a chi sia affetto da malattia psichica, possono dirsi tali solo in quanto si possa parlare di fatti o anche di regole di esperienza che siano pacificamente acquisite al patrimonio di cognizioni dell'uomo medio, ovverosia che risultino acquisiti alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili; non possono invece considerarsi tali quelle valutazioni che, per la specificità scientifica e l'assenza di un'acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi; viceversa, quanto sostiene la Corte territoriale, ovverosia che vi sia un nesso addirittura notorio, tra una generica malattia psichica e la capacità di affrontare le relazioni interpersonali, al punto di ingenerare un'impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il lavoratore interessato è affermazione apodittica e non riportabile ad una regola o ad un fatto di comune esperienza e che si colloca come tale al di fuori dell'ambito di cui all'art. 115, comma 2, c.p.c.; infatti, le conseguenze interpersonali o socio relazionali delle malattie psichiche appartengono, allo stato, al patrimonio tipico delle conoscenze e degli apprezzamenti scientifici dell'ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, palesemente non surrogabile da valutazioni, consequenzialmente sommarie e grossolane, del cd. quisque de populo». La questione
La pronuncia in esame interviene sul concetto di fatto notorio, escludendo che possa ravvisarsi una nozione di comune esperienza rilevante ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c. allorquando si discetta di questioni che, non appartenendo al patrimonio di conoscenza della collettività, e non essendo dunque immediatamente e scientemente percepibili da chiunque, richiedono accertamenti circostanziati di natura tecnico-scientifica, in mancanza dei quali esse si riducono a mere e pericolose affermazioni sommarie. Le soluzioni giuridiche
L'art. 115 c.p.c. costituisce un'applicazione del principio dispositivo in virtù del quale spetta alle parti il compito di indicare gli elementi di prova utili ai fini della decisione, ed il giudice non può attingere al di fuori del processo la conoscenza dei fatti da accertare, prescindendo dalle prove ritualmente acquisite nel corso dello stesso. Allorquando, tuttavia, la norma in parola prevede, al secondo comma, che il giudice può porre a fondamento della sua decisione “le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”, legittima una deroga al principio dispositivo e a quello del contraddittorio, esonerando infatti la parte che intende avvalersi del cd. fatto notorio dal relativo onere probatorio e consentendo, addirittura, al giudice di prescindere dalla stesse allegazioni delle parti. Per tale ragione, potendo risolversi, in ultima analisi, nell'ingresso all'interno del processo di prove non fornite dalle parti e relative a fatti da esse non vagliati e non controllati, il concetto di fatto notorio è stato da sempre oggetto di una rigorosa e stretta interpretazione da parte della giurisprudenza della Cassazione, che lo ha ravvisato solamente in quei fatti connotati da certezza ed indubitabilità, escludendo che possa applicarsi ad elementi valutativi o ad eventi “solamente” probabili o oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Il ricorso alle nozioni di comune esperienza, ex art. 115, comma 2, c.p.c., deve essere dunque riferito ad eventi di carattere generale ed obiettivo che, proprio perché tali (come, ad esempio, la svalutazione monetaria, oppure un evento bellico), non hanno bisogno di essere provati nella loro specificità; sicché restano estranei a tale nozione le acquisizioni specifiche di natura tecnica e gli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, nonché quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie. Facendo applicazione di tali principi, la Corte di cassazione ha ritenuto, ad esempio, viziata la decisione di merito che fissa l'incidenza dei costi di produzione sui maggiori ricavi accertati sulla base dell'esperienza personale del collegio giudicante in relazione a problematiche “simili” (Cass. civ., 20 novembre 2014, n. 24599), o ancora la pronuncia nella quale il giudice di merito aveva ritenuto erronea una consulenza tecnica d'ufficio relativa alla stima del valore venale di un immobile espropriato e lo aveva più che dimezzato «sì come noto a questa corte per la specifica esperienza acquisita in materia» (Cass. civ., 19 marzo 2014, n. 6299). O ancora, è stato affermato che le opinioni sociologiche meramente soggettive costituiscono fatti a valenza solo suggestiva, sicché non posseggono quel grado di univocità e sicura percezione da parte della collettività da risultare indubitabili ed incontestabili per rientrare nel disposto dell'art. 115, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., 29 ottobre 2014, n. 22950). Conseguentemente per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fenomeno – naturale o socioeconomico - che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo. Con l'ordinanza in commento, le statuizioni testé enunciate vengono ulteriormente precisate. Nella fattispecie scrutinata dalla pronuncia in oggetto viene, invero, in rilievo una richiesta di risarcimento del danno a seguito di mobbing, negata dai giudici di appello sull'assunto per cui la patologia psichica sofferta dall'istante avrebbe indotto lo stesso a percepire in maniera alterata l'effettiva realtà dei rapporti interpersonali, al punto da rendere impossibile per il datore di lavoro un intervento volto ad eliderne, o quanto meno ridurne, le conseguenze. Ciò poiché, a detta della sentenza impugnata, sussisterebbe un nesso addirittura notorio tra la malattia psichica e la incapacità di chi ne è affetto di affrontare adeguatamente le relazioni interpersonali. Ma la conclusione per cui la malattia psichica – peraltro genericamente intesa, senza che nemmeno ne si chiariscano la portata e le caratteristiche – cagionerebbe l'incapacità di percepire l'effettiva realtà dei rapporti interpersonali, al punto da ingenerare un impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il dipendente interessato, lungi dal poter assurgere al rango di fatto notorio rilevante ai sensi dell'art. 115, comma2, c.p.c., costituisce invero, secondo il supremo consesso, affermazione apodittica e grossolana. Le conseguenze socio relazionali delle malattie psichiche – conclude la Corte – appartengono, allo stato, al patrimonio di conoscenza dell'ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, sicchè il loro accertamento non può tradursi in una mera petizione di principio, necessitando un apprezzamento tecnico da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi. Osservazioni
Il ricorso al fatto notorio attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito; pertanto la violazione dell'art. 115,comma 2, c.p.c. può configurarsi solo quando questi ne abbia fatto positivamente uso, essendo censurabile l'assunzione, a base della decisione, di un'inesatta nozione del notorio. Ai fini probatori previsti da detta norma, non è dunque consentito generalizzare situazioni particolari e se, in taluni casi, la considerazione della notorietà può essere limitata ad una cerchia sociale o territoriale ristretta (cd. notorietà locale), quale un insieme di persone aventi tra loro una comunanza di interessi, così da far assurgere all'alveo del notorio anche nozioni sicuramente esorbitanti da quella cultura media che rappresenta il naturale parametro del concetto in esame, giammai può ascriversi al fatto notorio una regola di valutazione della realtà per così dire “parziale” e priva di riscontro scientifico.
(FONTE: ilprocessocivile.it) |