La presunzione di operatività della società in conseguenza di un atto di fusione

24 Ottobre 2019

La società può beneficiare del riporto delle perdite, in conseguenza di un atto di fusione soltanto quando si sia verificato uno dei presupposti di operatività previsti ex lege all' art. 172, comma 7, d.P.R. n. 917/1986. La sussistenza dei suddetti presupposti fa sorgere una presunzione di operatività della società.
Massima

La società può beneficiare del riporto delle perdite, in conseguenza di un atto di fusione soltanto quando si sia verificato uno dei presupposti di operatività previsti ex lege all' art. 172, comma 7, d.P.R. n. 917/1986.

La sussistenza dei suddetti presupposti fa sorgere una presunzione di operatività della società.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate, emetteva avviso di accertamento nei confronti della Assemblaggio Stampaggio Meridionale s.p.a. (ASM s.p.a.), per l'anno 2003, per quel che ancora qui rileva, con riferimento al riporto delle perdite emergenti nel periodo di imposta immediatamente precedente (anno 2002) ad una operazione di fusione con Stampitre s.p.a., ai sensi del d.P.R. n. 917/1986, art. 123, comma 5, nella formulazione all'epoca vigente.

In particolare, secondo l'Agenzia delle entrate tali perdite, indicate al quadro RS dell'anno 2003 non potevano essere portate in deduzione del reddito per gli anni successivi, non essendo state rispettate le condizioni previste dalla norma.

La questione giuridica

L'esaminanda pronuncia affronta la tematica relativa alle cd. scatole vuote ovvero società che sorgono al solo fine di frodare l'ordinamento giuridico senza, tuttavia, risultare operative sul territorio. Il legislatore ha indicato all'art. 172, comma 7, d.P.R. n. 917/1986 i presupposti legali di operatività di una società al di sotto dei quali la stessa deve essere considerata cd. scatola vuota e priva di ogni effettiva operatività.

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia è riconducibile alla tematica dell'elusione fiscale, definita anche “abuso del dirittoex art. 10-bis D.Lgs. n. 128/2015. La norma va letta in combinato disposto con l'art. 10 L. n. 212/2000 dello Statuto dei diritti del contribuente a tenore del quale “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. Al fine di favorire il raggiungimento della cd. giustizia fiscale è necessario che entrambe le parti del rapporto obbligatorio si comportino nel pieno rispetto dei principi di lealtà e correttezza. In tal senso ogni condotta del contribuente deve essere giustificata da valide ragioni, in assenza delle quali l'Amministrazione Finanziaria considera la stessa antieconomica, sanzionandola. Al contribuente vengono riconosciuti dei diritti, si pensi, ad esempio, alle deduzioni o detrazioni fiscali che consentono al soggetto passivo di abbattere il reddito complessivo o l'imposta lorda, affinché il prelievo sia il più possibile vicino ad un giusto ed equo recupero erariale. Secondo quanto previsto all'art. 10-bis della L. n. 212/2000 configurano abuso del diritto “una o più operazioni prive di valide ragioni economiche che pur nel rispetto formale delle norme fiscali realizzano vantaggi fiscali indebiti”.

L'ordinamento giuridico irroga la sanzione della inopponibilità all'Amministrazione Finanziaria di tutte le condotte elusive ovvero tali comportamenti si considerano come mai posti in essere. In tal caso, l'Amministrazione finanziaria determina i tributi sulla base delle norme e di principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni. L'abuso del diritto è accertato con apposito atto preceduto, a pena di nullità, dalla richiesta di chiarimenti al contribuente da fornire entro sessanta giorni. L'amministrazione Finanziaria presume la condotta abusiva ed il contribuente deve dimostrare l'esistenza delle ragioni extrafiscali che giustificano le condotte operate. Nella fattispecie, al fine di evitare condotte che possano configurarsi come elusive per l'ordinamento giuridico il legislatore ha voluto indicare dei presupposti legali entro i quali una società può dirsi operativa. Parimenti, al di sotto della soglia indicata all' interno della norma, la società non può dirsi operativa, potendo in ogni caso fornire la prova contraria, trattandosi di presunzioni legali relative. La giurisprudenza si è espressa piu' volte su tale tematica asserendo che “in tema d'imposte sui redditi, il contenuto assolutamente chiaro dell'art. 123, comma 5 (ora 172, comma 7), del d.P.R. n. 917/1986, laddove prevede che le perdite conseguite dalle società partecipanti alla fusione sono riportabili nel limite del patrimonio netto delle stesse, senza tener conto dei versamenti effettuati dai soci nei ventiquattro mesi precedenti la situazione patrimoniale di riferimento, così perseguendo l'obiettivo di evitare la fusione di “scatole vuote”, cariche solo di perdite, ma di fatto non operative, non consente di ravvisare deroghe o condizioni di operatività diverse da quelle stabilite, non essendo, peraltro, la ricostituzione del capitale sociale un atto dovuto ai sensi dell'art. 2447 c.c. (Cassa con rinvio, C. ANCONA, 22/04/2010)”. (Cass. civ., sez. trib., 22/12/2016, n. 26697).

Ad abundantiam “in tema di imposte sui redditi, l'art. 123, comma 5, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo vigente “ratione temporis” ed applicabile fino al 31 dicembre del 2003) nel prevedere, quale uno dei criteri per beneficiare del riporto delle perdite in esito alla fusione, che nell'esercizio anteriore alla delibera di fusione risulti un ammontare di ricavi e proventi dell'attività caratteristica e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente e relativi contributi superiore al 40% rispetto alla media dei due periodi di imposta immediatamente precedenti, persegue l'obiettivo di evitare la fusione di "scatole vuote" o cariche solo di perdite da portare “in dote” all'incorporante, ma ormai svuotate di ogni concreta operatività, ed esige che la società abbia una residua efficienza, costituendo il limite predetto una presunzione di legge di operatività (Cass. Civ. sez. trib. n. 967/2016 in www.dejure.it) “in tema di contenzioso tributario, L'amministrazione Finanziaria ove contesti al cessionario/committente l'assenza di buona fede in caso di irregolarità fiscali o di evasione, ha l'onere di provare ed allegare gli elementi probatori su cui si fondi la contestazione, tra i quali possono rilevare, in via indiziario, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturare, l'assenza della minima dotazione personale e strumentale, l'immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturate interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell' attività economica e la non corrispondenza tra i credenti e la società coinvolta nell'operazione”), rendendo irrilevanti, ai presenti fini, depotenziamenti dell'attività in esso contenuti, ma senza, nel contempo, esigere alcun depotenziamento. (Rigetta, Comm. Trib. Reg. Milano, 27/06/2006 - Cass. civ., sez. trib., 20 ottobre 2011, n. 21782.

Osservazioni

I comportamenti elusivi mirano ad aggirare il fondamentale principio generale di simmetria fiscale insito nel sistema fiscale, in virtu' del quale alla deduzione di una passività deve tendenzialmente corrispondere un provento da assoggettare cioè a tassazione. La materia trova scaturigine nell'art. 10-bis L. n. 212/2000 rubricato “Abuso del diritto” a tenore del quale “sono inopponibili all'Amministrazione Finanziaria le operazioni prive di valide ragioni economiche”, la norma fa riferimento a tutte le condotte poste in essere dal contribuente che comportano un indebito vantaggio. Sul punto appare opportuno effettuare una digressione: originariamente l'istituto dell' abuso del diritto era disciplinato dall'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 che prevedeva il cd. accertamento antielusivo. Successivamente, si avvertì l'esigenza di aumentare la soglia di tutela per l'amministrazione Finanziaria avverso tutte quelle condotte che aggiravano la prescrizione normativa, al punto da giungere all' abrogazione dell'art. 37 bis, D. P. R. 600/73, in favore dell'introduzione dell'art. 10-bis L. n. 212/2000 che ha determinato l'inserimento dell'istituto dell' abuso del diritto all'interno dello Statuto dei diritti del contribuente.

In tema di “abuso del diritto” con recenti pronunce la Suprema Corte precisa che la presenza di scopi economici, oltre al “risparmio fiscale” non esclude la possibilità per l'Amministrazione Finanziaria di riconoscere le nullità dell' atto allorquando tale risparmio ne costituisce la ragione essenziale, ma non unica. Alcune operazioni poste in essere nell' ambito di un progetto di riorganizzazione di un gruppo societario, in particolare l'acquisto di società preesistenti appositamente costituite per sfruttare “l'estensione” del previdente regime fiscale dei dividendi, la fittizia disposizione dell' assemblea, la cessione dell' usufrutto su azioni societarie, possono tendere al raggiungimento di un indebito risparmio fiscale, diversamente non raggiungibile, realizzato tramite operazioni prive di valide ragioni economiche, volte ad aggirare le norme tributarie. Tali operazioni possono essere considerate elusive e, pertanto, disconosciute dall' Amministrazione Finanziaria ex art. 10-bis L. n. 212/2000 con conseguente rideterminazione del reddito d'impresa. Infatti, l'Amministrazione Finanziaria può ricostruire l'attuazione di un disegno fraudolento nei casi, ad esempio, di una riorganizzazione societaria che utilizzi alcune strutture societarie, ad essa collegate o riconducibili e caratterizzate da una serie di irregolarità fiscali per simulare l'attività esercitata.

In tali casi le società interposte operano da mero schermo tra le attività fraudolente e la vita operativa del vero soggetto economico, formalmente in regola dal punto di vista fiscale. I rapporti tra i vari soggetti aziendali sono finalizzati a pianificare fittizie operazioni creditorie in capo alla società oggetto del controllo, la quale a sua volta fa ricadere l'obbligo tributario rimasto insoluto, sulle società interposte. In tali situazioni la vera beneficiaria delle operazioni fraudolente risulta essere la società controllata, unica intestataria dei beni fiscalmente recuperabili. Sono previsti, dunque, dei requisiti per stabilire quando la condotta non possa considerarsi elusiva. Come evidenzia la Suprema Corte uno dei criteri per beneficiare del riporto delle perdite in esito alla fusione, è che nell'esercizio anteriore alla delibera di fusione risulti un ammontare di ricavi e proventi dell'attività caratteristica e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente e relativi contributi superiore al 40% rispetto alla media dei due periodi di imposta immediatamente precedenti, persegue l'obiettivo di evitare la fusione di “scatole vuote” o cariche solo di perdite da portare “in dote” all'incorporante, ma ormai svuotate di ogni concreta operatività, ed esige che la società abbia una residua efficienza, costituendo il limite predetto una presunzione di legge di operatività, rendendo irrilevanti, ai presenti fini, depotenziamenti dell'attività in esso contenuti, ma senza, nel contempo, esigere alcun depotenziamento (Cass. Civ., 20 ottobre 2011, n. 21782).

Si vuole, dunque, evitare di riconoscere valore alle società che non hanno alcuna operatività e non esercitano alcuna attività effettiva, ma sorgono al solo fine di frodare l'ordinamento giuridico ed ottenere vantaggi indebiti. Vengono, dunque, disconosciute le cd. società cartiere che attraverso degli strumenti leciti conseguono dei vantaggi indebiti, al punto da estinguersi dopo aver raggiunto lo scopo elusivo prefissato. La Cassazione con sentenza n. 8635/2012 ha chiarito che qualora l'amministrazione finanziaria abbia fornito la prova della interposizione fittizia della società cartiera o fantasma sarà onere del contribuente dimostrare la non fittizietà del soggetto interposto o la sua buona fede fornendo la prova della sua assenza di colpa in relazione alla ritenuta provenienza della merce dall' apparente cedente. Stante l'indipendenza del giudizio tributario rispetto a quello penale il contribuente non potrà invocare a suo favore un' eventuale sentenza penale di assolvimento per mancanza di dolo, ma dovrà provare la legittimità e la correttezza della detrazione ai fini iva. L'Amministrazione Finanziaria è tenuta a dimostrare il meccanismo fraudolento e la connivenza nella frode da parte del cessionario, con presunzioni semplici e sul contribuente grava l'onere di provare il contrario. La società cartiera non evade un'imposta propria: il disegno criminoso mira a favorire la società che svolge una reale attività economica. Per questo la normativa fiscale, specialmente in materia di Iva, rende imponibili ai fini dell' imposta anche quelle operazioni inesistenti certificate con fatture false dalle società cartiere (art. 21, comma 7 d.P.R. 26/10/1972 n. 633). La Cassazione ha, infatti, condannato una società cartiera al pagamento delle imposte (IVA) anche se le operazioni certificate con fatture erano inesistenti e anche se il corrispettivo indicato era superiore rispetto a quello realmente percepito dalla società (Cass. pen., sez. III, n. 39177/2008 in CT 2008, 44, 3395). Secondo il principio di “cartolarità” esistente in materia di IVA, infatti, la sola emissione della fattura determina il debito d'imposta connesso a prescindere dall'effettività del rapporto sottostante. In conclusione, il contrasto all'elusione fiscale può essere attuato attraverso gli strumenti accertativi fondati su presunzioni gravi, precise e concordanti, allorché queste si riscontrano in una serie di indizi dei quali l'antieconomicità del comportamento desumibile dalla sproporzione tra corrispettivi e valore oggettivamente attribuibile al bene o servizio reso, che costituiscono l'indizio principale anche se non esclusivo.

L'attenzione dell' Amministrazione Finanziaria va concentrata non solamente sulla singola operazione, ma sul disegno elusivo elaborato dal contribuente in quanto il vantaggio fiscale non deriva quasi mai “da una mera fusione, da un mero conferimento o da un'altra operazione societaria, ma da eventi preparatori o consequenziali, come l'acquisto o la cessione di partecipazioni sociali, etc….”. L'Amministrazione Finanziaria disconosce i vantaggi tributari indebitamente conseguiti, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all' Amministrazione Finanziaria. In tal modo il contribuente perde i vantaggi tributari indebitamente conseguiti, ma non le imposte pagate già. L'elusione fiscale va contrastata, perché lesiva dei principi cardine costituzionali di diritto tributario di capacità contributiva e di uguaglianza sostanziale, oltreché della riserva di legge. Si cerca, tuttavia, di impedire il conseguimento di vantaggi fiscali indebiti che consegue alla violazione, seppur indiretta, di una norma giuridica.

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