Operazioni soggettivamente inesistenti: legittimo il recupero dell'Iva anche in caso di ricettazione

Francesco Brandi
02 Aprile 2020

In tema di operazioni soggettivamente inesistenti, l'amministrazione finanziaria può negare la detrazione Iva anche se il contribuente è accusato di ricettazione, ovvero di un reato non rientrante nel novero di quelli tributari.
Massima

In tema di operazioni soggettivamente inesistenti, l'amministrazione finanziaria può negare la detrazione Iva anche se il contribuente è accusato di ricettazione, ovvero di un reato non rientrante nel novero di quelli tributari.

Lo ha stabilito la Cassazione che, con l'ordinanza n. 4645 del 21 febbraio 2020, ha respinto sul punto il ricorso di una srl confermando l'impugnato avviso di accertamento quanto all'indetraibilità dell'Iva, ferma restando la deducibilità dei consti sostenuti, ormai sdoganata dalla giurisprudenza di legittimità in tema di operazioni soggettivamente inesistenti (su tale ultimo profilo cfr. Cass. 26461/2014 e, da ultimo Cass. 30564/2017, 19626/2018 e 26395/2018).

Il caso

La vicenda riguarda un avviso di accertamento Iva con cui l'Agenzia delle entrate contestava l'esistenza di una frode carosello desunta dal fatto che uno dei soggetti coinvolti era imputato per il fatto di aver gestito alcune cartiere che si interponevano fittiziamente tra il fornitore estero delle carni e la società contribuente. Tali società non versavano l'Iva loro corrisposta per gli acquisti e dividevano poi il provento del reato con l'acquirente cui veniva restituita parte dell'imposta evasa.

Le contestazioni tributarie si basavano sulle dichiarazioni di alcuni imputati; la consapevolezza della frode era desunta invece dal fatto che la contribuente aveva acquistato le forniture per gli anni contestati da due diverse società, entrambe riconducibili all'imputato che, in sostanza, era l'unico soggetto con cui la società intratteneva rapporti.

Sia in Ctp che in Ctr l'avviso di accertamento veniva integralmente confermato. Di qui il ricorso in Cassazione con cui la contribuente denunciava l'omesso esame di un fatto decisivo rappresentato dall'impossibilità di un suo coinvolgimento in una frode fiscale dato che gli unici reati contestati non erano quelli di natura penale ma, ad esempio, quello di ricettazione.

Le questioni

La questione fondamentale trattata dalla pronuncia in commento riguardala possibilità per il committente, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, di detrarre l'Iva.

Le soluzioni giuridiche

Sul punto la Cassazione ha ricordato che in tema di frode Iva per operazioni soggettivamente inesistenti la prova, che incombe sull'amministrazione, dell'interposizione del fornitore (circostanza non contestata dalla ricorrente) e della consapevolezza in capo al cessionario della fittizietà della cessione può essere fornita anche per presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti), che possono derivare dalle stesse risultanze di fatto attinenti al ruolo di "cartiera" del cedente, gravando senz'altro sul contribuente, a fronte di siffatte dimostrazioni, la prova contraria. La prova, tuttavia, deve essere rigorosa, non essendo sufficiente dimostrare di non essere stato partecipe consapevole della frode, occorrendo invece dare conto di avere rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità, essendo irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti (cfr. Cass.

Nel caso di specie il giudice d'appello ha indicato, con motivazione ampia ed esaustiva, gli elementi, dettagliatamente riportati nel p.v.c., in base ai quali ha ritenuto che l'Agenzia avesse pienamente adempiuto al proprio onere, valorizzando, fra l'altro, le dichiarazioni concordemente rese dagli imputati - di per sé sufficienti a provare il coinvolgimento della società nell'illecito fiscale - secondo cui il 60% circa delle somme apparentemente versate dalla società a titolo di IVA sugli acquisti, le veniva restituita in denaro contante, consegnatole in busta chiusa per il tramite del procuratore o di soggetti terzi che agivano per conto di questi.

Quanto al reato di ricettazione, si tratta di una contestazione irrilevante in quanto, secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, il giudice tributario non è vincolato alle imputazioni formulate in sede penale essendo tenuto, in virtù del principio del doppio binario, a valutare per proprio conto se le prove acquisite nel processo penale e trasfuse nel pvc siano idonee a sorreggere la sussistenza di fatti costitutivi dell'obbligazione tributaria (cfr. Cass. 6918/2013).

Accolta invece la doglianza in ordine alla violazione dell'art. 14, comma 4-bis della legge 537/1993 in ordine alla deducibilità dei costi di acquisto delle carni ai fini delle imposte dirette.

Sul punto la Cassazione ricorda il principio per cui in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell'art. 14, comma 4 bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (nella formulazione introdotta con l'art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in legge 26 aprile 2012 n. 44), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale "jus superveniens" con efficacia retroattiva "in bonam partem", sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una "frode carosello"), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell'ipotesi in cui l'acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (cfr. in senso conforme Cass. 26461/2014 e, da ultimo Cass. 30564/2017).

In altri termini, quindi, secondo la nuova norma, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell'acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall'effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni

Ai fini dell'indeducibilità, si è dunque passati dalla generica riconducibilità del costo a “fatti, atti o attività qualificabili come reato”, alla più stringente definizione di costi “direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”. La ratio della nuova norma è quella di limitare l'indeducibilità solo a quei costi che abbiano una connessione diretta con il compimento del delitto non colposo. In pratica, l'indeducibilità è limitata a tutte quelle spese sostenute per la commissione del reato ovvero a causa dello stesso.

La nuova disciplina, inoltre, in quanto più favorevole al Contribuente, assume valenza retroattiva, salvo che gli avvisi di accertamento emessi nel vigore della vecchia norma siano già divenuti definitivi. La giurisprudenza di legittimità (come dimostrato dalla pronuncia in commento) ha avallato tale interpretazione. Sul punto si ricorda che la Cassazione con sentenza 20 giugno 2012, n. 10167, ha affermato il seguente principio di diritto “In tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, sono deducibili per l'acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. "frode carosello", anche per l'ipotesi che l'acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del TUIR siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.

Osservazioni

Qualora l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture ai fini IVA, in quanto relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, spetta all'Ufficio fornire la prova che l'operazione commerciale non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione anche in merito alla conoscenza ovvero alla conoscibilità della fittizietà delle operazioni da parte del cessionario/committente che richiede la detrazione. È invece onere del contribuente dimostrare la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un'operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili.

In sostanza, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l'Amministrazione finanziaria deve provare sia l'alterità soggettiva dell'imputazione delle operazioni, sia che il cessionario sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che la cessione si inseriva in un'evasione Iva.

Sul punto si precisa che il diritto alla detrazione, a parere dei giudici comunitari, può essere negato dall'Amministrazione finanziaria o dal giudice, sia per il diritto comunitario che per il diritto interno che ad esso si uniforma, (oltre che nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti) laddove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che l'operazione si inserisce in una ‘frode', della quale il cessionario o committente è consapevole o comunque avrebbe dovuto conoscere. Sul punto si richiama la sentenza 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11 (Mahageben ktf e Peter David) secondo cui “… è compito delle autorità e dei giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione ove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che lo stesso diritto è invocato fraudolentemente o abusivamente” (punto 42), ossia, in concreto, la circostanza “che il soggetto passivo, al quale sono stati forniti i beni o i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in un'evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte” (punto 45).

Circa il soggetto onerato di tale dimostrazione, la Corte di Giustizia, nelle richiamate sentenze, ha chiarito che deve essere individuato nell'autorità fiscale dello Stato membro. Ciò posto, con diversi interventi successivi alle pronunce della Corte di Giustizia, la Corte di Cassazione, è intervenuta chiarendo che “non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l'IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, … (cfr. … Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, che osserva con chiarezza – in motivazione - come costituisca principio di carattere generale che la prova dei fatti possa essere data anche mediante presunzioni)” (v. sentenza 14 dicembre 2012, n. 23078).

La Suprema Corte ha altresì precisato quale è il significato da attribuire all'espressione “elementi oggettivi” utilizzata dal giudice comunitario, affermando che “Né può in alcun modo ritenersi che le succitate pronunce di questa Corte si pongano in contrasto con le menzionate decisioni della Corte di Lussemburgo, nella parte in cui quest'ultima richiede che la prova della consapevolezza, in capo al cessionario, dell'inesistenza dell'operazione e dell'evasione a monte della stessa debbano risultare da ‘elementi oggettivi' … va osservato, infatti, che la stessa Corte Europea mostra di valorizzare appieno la prova indiziaria o presuntiva, laddove afferma che la sussistenza di ‘indizi', che consentano di sospettare l'esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell'emittente delle fatture, deve indurre l'operatore avveduto ad assumere informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi. In difetto, non potrà che essere escluso - per le ragioni suindicate - il diritto del medesimo alla detrazione di imposta (C. Giust. CE, 21.6.12, cit.)”.

Sotto questo aspetto, in via esemplificativa, possono essere valorizzati nel quadro probatorio, anche indiziario, che deve essere fornito dall'Amministrazione anche in merito alla presumibile assenza di buona fede del cessionario o committente, la circostanza che la prestazione non sia stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, l'immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente) - a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell'attività economica e ad una non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell'operazione: la instaurazione di rapporti diretti tra il cedente/prestatore effettivo interponente ed il cessionario/committente, l'assenza di documenti di trasporto: si tratta infatti di utili elementi sintomatici, potenzialmente capaci di consentire al cessionario o committente di rendersi conto o, almeno, di sospettare l'esistenza di irregolarità o di evasione.

In tal caso, sarà - di conseguenza - il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull'onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell'IVA versata.

Quanto alle imposte dirette ed alla deducibilità del costo, a seguito dell'entrata in vigore dell'articolo 8 del D.L. n. 16 del 2012 non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale ovvero qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'articolo 424 del codice di procedura penale, sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall'articolo 157 del codice penale (prescrizione del reato).

Ai fini dell'indeducibilità, si è dunque passati dalla generica riconducibilità del costo a “fatti, atti o attività qualificabili come reato”, alla più stringente definizione di costi “direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”. La ratio della nuova norma è quella di limitare l'indeducibilità solo a quei costi che abbiano una connessione diretta con il compimento del delitto non colposo. In pratica, l'indeducibilità è limitata a tutte quelle spese sostenute per la commissione del reato ovvero a causa dello stesso.

Tale interpretazione è esplicitamente confermata dalla relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 16 del 2012, secondo cui l'indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.

Resta comunque ferma l'indeducibilità nel caso in cui il costo difetti dei requisiti essenziali richiesti dal Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR).

La nuova disciplina, inoltre, in quanto più favorevole al Contribuente, assume valenza retroattiva, salvo che gli avvisi di accertamento emessi nel vigore della vecchia norma siano già divenuti definitivi. La giurisprudenza di legittimità (come dimostrato dalla pronuncia in commento) ha avallato tale interpretazione. Sul punto si ricorda che la Cassazione con sentenza 20 giugno 2012, n. 10167, ha affermato il seguente principio di diritto “In tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, sono deducibili per l'acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. "frode carosello", anche per l'ipotesi che l'acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del TUIR siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità'. Anche la Corte Costituzionale con ordinanza 16 luglio 2012, n. 190, in riferimento al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, ha precisato che “…a fronte di tale ius superveniens – il quale incide direttamente sulla norma censurata ed è applicabile retroattivamente, ove più favorevole –, spetta al giudice rimettente procedere ad una nuova valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate” (dello stesso tenore l'ordinanza della Corte Costituzionale 9 novembre 2012, n. 248).