Complessi turistici e negozi collegati tra contratti di retro-vendita, spin-off immobiliare e divieto di patto commissorio
02 Aprile 2021
Massima
Il patto commissorio è ravvisabile rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora l'assetto complessivo degli interessi sia tale da far ritenere che il trasferimento di un bene sia effettivamente volto - più che alla funzione di scambio - ad uno scopo di garanzia, a prescindere sia dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o reale del contratto, sia dal momento temporale in cui l'effetto traslativo è destinato a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dall'identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che, tra le diverse pattuizioni, sia ravvisabile un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia. Il caso
La causa, sottoposta all'esame dei giudici di Piazza Cavour, originava da una domanda, proposta da alcune società, appartenenti ad un gruppo, nei confronti di una società di leasing, al fine di dichiarare la nullità dei contratti - di compravendita, preliminari e di locazione - stipulati inter partes ed aventi ad oggetto un complesso turistico-alberghiero, per violazione del divieto del patto commissorio. Per quel che qui rileva, il Tribunale aveva accolto la domanda, e l'appello avverso la sentenza di prime cure era stato rigettato dalla Corte d'appello, la quale aveva escluso che l'operazione contrattuale de qua fosse riconducibile alla fattispecie di spin-off immobiliare, e così pure che la prevista provvisorietà degli acquisti fosse sussumibile nello schema negoziale del sale and lease back, confermando, al riguardo, la declaratoria di nullità dei contratti di cui sopra per violazione dell'art. 2744 c.c. La Società di leasing, soccombente, ricorreva per la cassazione della sentenza conclusiva del giudizio di secondo grado. Nello specifico - denunciando la violazione o/e falsa applicazione degli artt. 1322, 1344, 1345, 1418 e 2744 c.c. - la ricorrente richiamava i fatti salienti dell'operazione in oggetto, evidenziando: a) che le società del gruppo si erano fatte promotrici di un accordo di programma, che avrebbe comportato un notevole investimento (in parte finanziato dal Ministero del Tesoro); b) che essa ricorrente, che si occupava specificamente di gestione dei immobili come da statuto, si era resa disponibile all'operazione; c) che, per tutto il periodo, in cui era stata concepita ed attuata la complessa operazione negoziale, le società del gruppo avevano manifestato condizioni di solidità; d) che l'operazione era consistita nella stipula di contratti dotati di autonomia, che avevano dato luogo a tre distinte «sotto-operazioni» aventi ad oggetto distinti complessi immobiliari; e) che le prime contestazioni sulla validità dell'operazione erano state avanzante soltanto dopo alcuni anni, quando la ricorrente aveva assunto iniziative per reagire all'inadempimento delle controparti; f) che era evidente la strumentalità delle contestazioni, a fronte di un'operazione commerciale che perseguiva scopi leciti, rispondendo a logiche imprenditoriali certamente articolate sotto il profilo causale ma non per questo non meritevoli di tutela. Invece - sempre secondo la ricorrente - il giudice distrettuale era giunto erroneamente alla conclusione che l'intera operazione, ed il collegamento negoziale che la connotava, violasse il divieto del patto commissorio, sulla base di indici presuntivi desunti dai singoli contratti, senza esaminare la meritevolezza degli interessi sottostanti agli strumenti negoziali scelti dalle parti; trattandosi di negozi in sé leciti, il principio generale della libertà contrattuale avrebbe richiesto la valutazione degli interessi perseguiti, che la ricorrente aveva puntualmente evidenziato e che rispondevano all'esigenza di riassetto patrimoniale delle società del gruppo attraverso l'operazione di fuoriuscita dal patrimonio delle società di determinati beni (attraverso i contratti di vendita), e del successivo ritrasferimento in capo ad altra società del medesimo gruppo, già individuata o da individuarsi quale promissaria acquirente (come previsto nei contratti preliminari); l'operazione così strutturata consentiva, da un lato, l'emersione di plusvalenze del patrimonio immobiliare delle società del gruppo e, dall'altro lato, l'acquisizione della liquidità necessaria per l'attuazione dell'accordo di programma che prevedeva un forte sviluppo del patrimonio immobiliare del gruppo stesso. La questione
Si trattava di verificare la validità di un'operazione complessa, strutturata attraverso il collegamento tra negozi diversi, e, in particolare, di accertare se la stessa fosse viziata perché in violazione del divieto del patto commissorio ex art. 2744 c.c., secondo cui «è nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore». In tale disamina, occorre, però, partire dalla premessa che qualsiasi negozio può integrare tale violazione nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore la proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 20 febbraio 2013, n. 4262; Cass. civ., sez. II, 12 gennaio 2009, n. 437), sicché non è dirimente, pertanto, la liceità dei singoli negozi predisposti dalle parti, dovendosi guardare al risultato complessivo, a mezzo di un esame che rimane affidato al giudice di merito. Il citato art. 2744 c.c. esprime, quindi, un «divieto di risultato», e difatti trova applicazione non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative risolutivamente condizionate all'adempimento del debitore (Cass. civ., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611). Le soluzioni giuridiche
Nel disattendere le doglianze di cui sopra, i magistrati del Palazzaccio chiariscono che il patto commissorio è ravvisabile rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora l'assetto di interessi complessivo sia tale da far ritenere che il trasferimento di un bene sia effettivamente collegato - piuttosto che alla funzione di scambio - ad uno scopo di garanzia, e ciò a prescindere sia dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o reale del contratto, sia dal momento temporale in cui l'effetto traslativo è destinato a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dall'identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia (in precedenza, in senso conforme, si pone Cass. civ., sez. II, 19 maggio 2004, n. 9466, che aveva, però, cassato con rinvio la sentenza di merito, la quale aveva escluso, in linea di principio, la possibilità di ravvisare un collegamento negoziale tra il «preliminare» ed il «definitivo» stipulati fra oggetti diversi, senza analizzare in concreto se tali negozi potessero avere una comune funzione strumentale e teleologica di garanzia). Quanto all'accertamento in concreto del collegamento negoziale c.d. funzionale, gli ermellini hanno ripetutamente affermato che, ai fini della qualificazione giuridica di tale situazione negoziale, la verifica demandata al giudice del merito deve investire l'esistenza, l'entità, la natura, le modalità e le conseguenze del collegamento realizzato dalle parti, mediante l'interpretazione della loro volontà contrattuale che, se condotta nel rispetto dei criteri di logica ermeneutica e di corretto apprezzamento delle risultanze di fatto, si sottrae al sindacato di legittimità (v., tra le altre, Cass. civ., sez. VI, 7 agosto 2018, n. 20634; Cass. civ., sez. II, 11 settembre 2017, n. 21042; Cass. civ., sez. II, 5 marzo 2010, n. 5426; Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2005, n. 14611). Così perimetrato l'àmbito del controllo che può essere svolto in sede di legittimità, gli ermellini hanno sùbito rilevato che la ricorrente non aveva denunciato la violazione di canoni interpretativi, e non aveva rimproverato alla Corte territoriale di non avere verificato la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti attraverso la complessa operazione posta in essere utilizzando contratti in sé leciti. Al riguardo, il giudice distrettuale aveva accertato che i tre contratti - compravendita, preliminare di retrovendita e locazione - aventi ad oggetto un complesso immobiliare turistico, ed i due contratti - compravendita e preliminare di retrovendita - aventi ad oggetto un altro complesso immobiliare turistico erano, in realtà, collegati tra loro, e costituivano «un'unica articolata operazione commerciale», all'esito della quale la società di leasing avrebbe acquistato la proprietà degli stessi complessi turistici ad un prezzo significativamente inferiore al loro valore. La Corte d'appello aveva, poi, escluso che l'operazione fosse riconducibile allo schema dello spin-off immobiliare - che si realizza con la separazione tra patrimonio immobiliare e ramo operativo dell'azienda allo scopo di sottrarre il patrimonio immobiliare al rischio d'impresa - osservando che oggetto dei contratti erano i complessi turistici immobiliari che costituivano a tutti gli effetti l'attività principale delle aziende del gruppo, senza dire che la previsione del riacquisto in capo alle stesse società (preliminari di retrovendita) era incompatibile con la struttura del contratto indicato. Si sono evidenziate, inoltre, le ragioni per cui l'operazione negoziale non era riconducibile allo schema del sale and lease back, sottolineando che la provvisorietà dell'acquisto, in capo alla società di leasing, era costruita come evento sostanzialmente dovuto, tenuto conto che il gruppo si era obbligato al pagamento di penali onerose a garanzia dell'obbligo di riacquistare gli immobili. Il meccanismo del lease back, in sé lecito, era stato, dunque, piegato all'elusione del divieto del patto commissorio, come era presuntivamente dimostrato dall'esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l'impresa venditrice-utilizzatrice, delle difficoltà economiche di quest'ultima e, soprattutto, della sproporzione tra gli obblighi reciprocamente assunti dalle parti. Osservazioni
Il sale and lease back (o locazione finanziaria di ritorno) può definirsi quel contratto sinallagmatico, con cui un'impresa vende, dietro corrispettivo, un bene di sua proprietà - normalmente di tipo strumentale rispetto all'attività esercitata - ad una società finanziaria, che successivamente lo concede contestualmente, mediante un contratto di leasing, allo stesso venditore dietro il pagamento di un canone periodico, spettando a quest'ultimo, al termine del relativo rapporto, l'opzione per il riacquisto del bene medesimo. Trattasi, quindi, di un'operazione economica articolata su due livelli strettamente collegati sul piano funzionale, ma, a monte, ispirati da una finalità di (auto)finanziamento del venditore-imprenditore, il quale, pur perdendo la titolarità formale del bene, mantiene il godimento dello stesso con la prospettiva di riacquistarlo mediante l'esercizio del diritto di opzione al termine del rapporto di leasing. Quindi, nel contratto di sale and lease back, viene meno il profilo della trilateralità propria del leasing (soprattutto finanziario), atteso che coincidono la figura del fornitore con quella dell'utilizzatore, evidenziando, al contempo, il ruolo meramente finanziario del lessor: infatti, la peculiarità del lease back va rinvenuta nel fatto che colui che fornisce il bene al finanziatore non è un terzo estraneo ai rimanenti profili dell'operazione, ma proprio chi deve diventarne utilizzatore ed intende così sopperire al proprio bisogno di liquidità senza perdere la materiale disponibilità del bene venduto. Rispetto al leasing tradizionale, che viene, di solito, impiegato al fine di assicurare all'utilizzatore la materiale disponibilità di un bene senza un'immediata immobilizzazione del capitale finanziario utile all'investimento, il lease back consente all'imprenditore di acquisire liquidità senza la necessità di dismettere un dato investimento in un bene strumentale, di cui, pur cedendone la titolarità, preserva la disponibilità materiale. L'operazione risponde, altresì, ad una logica di smobilizzo del capitale fisso dell'impresa, riuscendo a sposare esigenze finanziarie con indubbi vantaggi di natura fiscale, anche perché l'ostruzionismo inizialmente manifestato dall'Amministrazione finanziaria appare oramai rientrato. Sin dal suo esordio nel panorama nazionale, tale figura contrattuale è stata sùbito correlata al dibattito in tema di stipulazioni commissorie e, quindi, alla determinazione dell'àmbito di applicazione dell'art. 2744 c.c. (in parallelo al quale si colloca l'art. 1963 c.c. in materia di anticresi a garanzia del credito, secondo cui «è nullo qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, con cui si conviene che la proprietà dell'immobile passi al creditore nel caso di mancato pagamento»). In quest'ottica, da un lato, occorreva verificare la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti in sede di stipulazione di contratti atipici, ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., segnatamente riguardo all'accertamento della congruenza della regolamentazione pattizia sotto l'aspetto dell'equa distribuzione dei pesi e dei vantaggi contrattuali. Dall'altro, bisognava individuare il corretto discrimen con riferimento alle alienazioni dissimulanti un mutuo assistito da garanzia reale atipica o in frode alla legge, al cui interno poteva annidarsi, laddove la funzione traslativa fosse destinata a consolidarsi a seguito dell'inadempimento del debitore, non solo la violazione del divieto del patto commissorio, ma anche pattuizioni di tipo usurario. In pratica, qualora il prezzo dell'alienazione costituisca, in realtà, la somma mutuata, il trasferimento della proprietà della cosa alla società di leasing potrebbe dar luogo ad una funzione di garanzia del rimborso del mutuo, dissimulato dal pagamento dei canoni, con riacquisto del bene in caso di integrale rientro e di esercizio dell'opzione spettante all'utilizzatore, oppure con consolidamento dell'acquisto in capo al concedente in caso di inadempimento dello stesso utilizzatore. A ben vedere, nel lease back, la vendita in favore del concedente era effettiva e precedeva il leasing, sicché, prima facie, si poteva optare per la sostanziale liceità dell'operazione sottesa, ma, approfondendo la tematica, si è indagato funditus l'aspetto funzionalistico del contratto, finendo inevitabilmente per riassorbire al suo interno qualsiasi pattuizione finalizzata dall'intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia e in funzione del rapporto di mutuo sottostante, con l'effetto di evidenziare come meramente succedaneo e strumentale l'effetto traslativo. In altri termini, proprio per la sua spiccata connotazione di (auto)finanziamento, si è opinato che il prezzo corrisposto dal lessor altro non fosse che la dazione di una somma mutuata da restituire mediante versamenti rateali (ossia i canoni), sì che la proprietà in senso formale in capo al primo non era che una garanzia reale atipica destinata a far svaporare l'effetto traslativo, che si sarebbe consolidato per il caso di mancato esercizio dell'opzione per il riacquisto e nell'ipotesi di inadempimento del lessee. Ad ogni buon conto, la questione della liceità del lease back non può essere affrontata in astratto - come sottolineato dalla sentenza in commento - non escludendosi, peraltro, il suo impiego fraudolento al pari di ogni contratto tipico, anche se l'attenzione posta dalla giurisprudenza sull'argomento ha denotato un prevalente convincimento circa l'illiceità delle fattispecie portate al suo esame, soprattutto in relazione al divieto del patto commissorio di cui al citato art. 2744 c.c. Riferimenti
|