Rischio latente e personalizzazione del danno biologico del macroleso

09 Novembre 2021

Il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus, costituisce per la vittima una vera e propria lesione della salute di cui, dunque, dovrà tenersi conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente e nella liquidazione del danno biologico....
Massima

“Il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus, costituisce per la vittima una vera e propria lesione della salute di cui, dunque, dovrà tenersi conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente e nella liquidazione del danno biologico. Se, dunque, il grado di invalidità permanente suggerito dal medico-legale, e condiviso dal giudice, è determinato tenendo conto del suddetto rischio, insito nei postumi a causa della loro natura o gravità, la liquidazione del danno biologico dovrà avvenire tenendo conto della (minore) speranza di vita in concreto e non di quella media, pena la duplicazione del risarcimento; se invece il rischio latente non è stato tenuto in conto del grado percentuale di invalidità permanente - vuoi perché non contemplato dal barème utilizzato nei caso concreto, vuoi per maltalento del medico-legale - del pregiudizio dovrà tener conto il giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa”.

Il caso

Nel caso di specie, due coniugi, in rappresentanza del figlio minore, ex art. 320 c.c., agivano in giudizio dinanzi al Tribunale convenendo la struttura ospedaliera ove era avvenuto il parto e chiedendo il risarcimento dei danni cagionati al neonato.

In particolare, gli attori esponevano che nelle ore immediatamente precedenti al parto, il feto subiva una grave asfissia ipossico-ischemica che lo aveva reso permanentemente e totalmente invalido. Tale ipossia andava ascritta a responsabilità dei sanitari dell'ospedale, i quali, dapprima, non si avvidero dell'esistenza dei sintomi predittivi di sofferenza fetale, e, successivamente, non eseguirono tempestivamente il parto cesareo.

I legali del nosocomio, oltre a contestare la richiesta di risarcimento, chiamavano in causa, in garanzia e manleva, il proprio assicuratore per la responsabilità civile. Essi sostenevano, inoltre, nulla fosse ulteriormente dovuto, avendo gli attori già ottenuto il versamento dell'importo di oltre un milione di euro, per effetto della transazione stipulata con il medico ginecologo di turno al momento del parto e con il suo assicuratore.

Il primo grado e l'appello si concludevano con la condanna all'ulteriore risarcimento dei danni in favore degli attori, nonché dell'assicuratore a tenere indenne la struttura di tutto quanto fosse tenuta a corrispondere per le suddette causali.

Dal relativo risarcimento, venivano detratti gli importi già pagati a titolo transattivo dall'assicuratore del medico e dall'ospedale.
La causa giungeva in Cassazione.

La questione

Nell'ordinanza in esame, la Suprema Corte ha affrontato alcune tematiche relative alla responsabilità della struttura sanitaria ed al ristoro del danno non patrimoniale, con particolare riferimento al valore della transazione con il medico in ordine all'accertamento della responsabilità della struttura sanitaria, alla quantificazione del danno alla salute in caso di “rischio latente” e, infine, ai presupposti necessari per poter procedere legittimamente alla personalizzazione dei valori monetari previsti dalle Tabelle di Milano.

Le soluzioni giuridiche

La prima questione affrontata dalla Suprema Corte è quella relativa all'incidenza della transazione (avvenuta tra i soggetti danneggiati e il medico autore materiale del fatto dannoso), sull'accertamento della responsabilità della struttura sanitaria: la Corte, in particolare, mostra di non condividere l'assunto (Cass. n. 15860/2015) secondo cui “l'impossibilità di dichiarare la responsabilità del medico a seguito della transazione fa venir meno la responsabilità della Struttura, in quanto il risarcimento sarebbe richiesto in conseguenza dell'operato del medico, e non già di un titolo autonomo”.

Sul punto, infatti, la Suprema Corte afferma che la transazione stipulata dal danneggiato con l'autore materiale del fatto non impedisce al primo di ottenere il danno differenziale da coloro che debbano rispondere dell'operato dell'autore materiale, allorquando il creditore ne abbia fatto espressa riserva (come avvenuto nel caso di specie). La transazione stipulata dalla vittima e dai suoi congiunti con il medico (autore del danno), infatti, pur avendo effetto liberatorio nei confronti del medico, ha lasciato impregiudicata l'obbligazione dell'ospedale e, di conseguenza, del suo assicuratore per la responsabilità civile. Difatti, spiega la Corte, la responsabilità dell'ospedale generata da errore del sanitario non è una responsabilità per fatto altrui, ma per fatto proprio, la quale, pertanto, non viene meno per il fatto che il creditore abbia liberato il medico dalla propria obbligazione (cass. n. 28987/2019).

Lasciata, dunque, impregiudicata la responsabilità della struttura sanitaria, occorrerà solo defalcare l'importo percepito per effetto della transazione dal credito risarcitorio vantato dal minore danneggiato.

Occupandosi del successivo motivo di ricorso, la Cassazione ha inteso, inoltre, chiarire se, nella liquidazione del danno biologico permanente, il risarcimento debba commisurarsi, sempre e comunque, alla durata media della vita della vittima in astratto, desunta dalle statistiche mortuarie, oppure se si debba avere riguardo alla speranza di vita in concreto della stessa, quand'anche ridotta rispetto alla media in conseguenza del fatto illecito.

L'assicuratore lamentava, infatti, che il danno non patrimoniale fosse stato sovrastimato dai giudici di merito, i quali lo avrebbero liquidato tenendo conto della speranza di vita di una persona sana e non, invece, della concreta, ridotta, speranza di vita del danneggiato determinatasi dal trauma cerebrale patito alla nascita: il risarcimento del danno biologico, dunque, dovrebbe essere parametrato all'età della vittima, con la conseguenza che, qualora venga accertato che questa abbia una ridotta speranza di vita rispetto alla media, il danno andrebbe liquidato non in base alla durata media della stessa, bensì in base alla concreta aspettativa di vita del danneggiato (in caso contrario, il risarcimento finirebbe con l'avere una funzione punitiva, ad esso estranea).

Per risolvere la questione, la Corte, nella pronuncia in esame, si sofferma sul contrasto giurisprudenziale in materia.

Un primo orientamento sostiene che, nella liquidazione del danno alla salute, la scelta del valore monetario del punto d'invalidità dev'essere effettuata senza tenere conto della minore speranza di vita futura che il danneggiato può patire in conseguenza del sinistro; diversamente, infatti, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato (così, Cass. n. 5881/2000). Secondo un opposto orientamento, nella liquidazione suddetta deve tenersi conto non già della speranza di vita media, ma della concreta aspettativa di vita della vittima, quand'anche quest'ultima sia stata ridotta proprio dal fatto illecito. Tale principio è stato affermato da Cass. n. 16525/2003, secondo la quale, tuttavia, “il giudice deve tenere conto della gravità particolare della lesione, che abbia inciso anche sulla capacità recuperatoria o stabilizzatrice della salute, procedendo ad una adeguata e prudente maggiorazione” (cfr. anche Cass., n. 11393/2019).

In sostanza, spiega la Corte di legittimità, gli orientamenti riassunti ammettono che provocare lesioni personali così gravi da ridurre la speranza di vita della vittima costituisca un danno risarcibile; tuttavia, se per il primo dei due orientamenti, tale danno va risarcito liquidandolo in base a criteri tabellari standard previsti per l'invalidità permanente, il secondo orientamento ritiene, invece, che tale danno vada risarcito quantificando il danno biologico in base alla speranza di vita concreta, previo incremento di un quid pluris stante il “pregiudizio da anticipanda morte”.

Dopo aver argomentato che i predetti orientamenti non sono in contrasto tra loro, ma che necessitano solamente di essere armonizzati, la Corte di legittimità prosegue il ragionamento ricordando che il danno alla salute possa consistere non solo nella temporanea o permanente compromissione dell'integrità psicofisica, ma, altresì, come emerge dalle indicazioni fornite dalla scienza medico-legale, nell'aumentato rischio di contrarre malattie in futuro o di incorrere nella morte ante tempus. Ciò significa che tra i postumi permanenti causati da una lesione alla salute rientra anche il maggior rischio di un'ingravescenza futura (come nel caso delle fratture che espongono la vittima al rischio di fenomeni artrosici precoci, oppure delle infezioni da HCV od HIV, che espongono il paziente al maggior rischio, rispettivamente, di cirrosi epatica o di polmoniti e tubercolosi, al termine della fase di latenza clinica).

Si tratta del c.d. “rischio latente”, il quale consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l'infermità residuata possa improvvisamente degenerare in un futuro, tanto prossimo quanto remoto.

Il rischio latente – a differenza del mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell'infermità, che rappresenta la naturale evoluzione fisiologica dei postumi - è la possibilità che i postumi provochino, a loro volta, un nuovo e diverso danno. Esso può consistere tanto in un'ulteriore invalidità quanto nella morte: dunque, il fatto di patire postumi che, seppur stabilizzati, espongano, per la loro gravità, la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus, costituisce, per la vittima, una lesione della salute (cfr. cass., n. 29492/2019).

La Suprema Corte, conseguentemente, statuisce che, se il rischio di contrarre malattie in futuro o di morire anzitempo, a causa dell'avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso andrà tenuto debitamente conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo la scienza medico - legale. La liquidazione del danno biologico dovrà, dunque, avvenire tenendo conto della (minore) speranza di vita in concreto, e non di quella media, rischiando, altrimenti, un'indebita duplicazione risarcitoria.

La Corte procede osservando che, qualora il rischio latente non sia stato valutato nel determinare il grado percentuale di invalidità permanente, del pregiudizio in parola dovrà tener conto il giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa: nell'ambito di tale operazione non gli sarà vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima, e, dunque, in base alla vita media nazionale, in luogo della speranza di vita del caso concreto. Ai fini della legittimità della decisione, spiega la Corte Suprema, rileva unicamente che il giudice di merito dia atto e motivi i criteri seguiti nel determinare il grado di invalidità permanente e nel monetizzarlo in via equitativa.

Il motivo è stato ritenuto, comunque, inammissibile per aspecificità, non essendo stato chiarito un elemento essenziale, ovvero se i consulenti tecnici, nel determinare il grado di invalidità permanente nella misura del 91%, abbiano incluso in tale percentuale anche il rischio di anticipata morte, circostanza essenziale per valutare se la liquidazione del danno sia stata corretta o meno.

Da ultimo, la Corte ritiene errata la sentenza d'appello nella parte in cui ha personalizzato il risarcimento, ritenendo congruo l'incremento della misura standard del risarcimento del danno alla salute nella misura del 25% (e cioè l'aumento massimo consentito dalla Tabella milanese), senza tenere conto del fatto che gli attori non avessero allegato alcuna circostanza specifica ed eccezionale idonea a giustificare tale incremento.

Le suddette specificità giustificatrici della variazione in aumento del risarcimento standard – sostiene la Corte – devono consistere in pregiudizi non indefettibili, cioè che non costituiscano una conseguenza inevitabile dei postumi per tutte le persone che li patiscano nella medesima entità, ma abbiano attinenza solo a quella singola persona, in considerazione delle sue attitudini, delle sue condizioni pregresse, delle sue attività.

Ne consegue che la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività ordinaria, così come la perdita di una qualsiasi funzione organica in conseguenza di una lesione alla salute o è una conseguenza normale del danno e, in tal caso, si riterrà risarcita con la monetizzazione del grado percentuale di invalidità permanente, oppure è conseguenza peculiare, anomala o eccezionale e, allora, dovrà essere risarcita adeguatamente aumentando la stima del danno biologico mediante la c.d. personalizzazione del risarcimento (cfr. Cass. n. 5865/2021). Tali circostanze peculiari giustificative dell'aumento della misura del risarcimento-base devono essere tempestivamente e puntualmente provate dal danneggiato.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte d'appello ha ritento che costituissero circostanze eccezionali, e come tali giustificative di un incremento della misura standard del risarcimento, le stesse conseguenze che sono considerate conseguenze indefettibili di un'invalidità pari al 91%, e che, per convenzione medico-legale, sono già prese in considerazione nella suddetta misura percentuale (la perduta possibilità di andare a scuola, di lavorare, di praticare sport, di frequentare persone, di avere una vita sessuale, ecc.). Va, dunque, escluso che le predette circostanze di fatto possano determinare l'aumento personalizzato, ammesso, invece, dalla Corte d'appello.

La Corte Suprema, infine, rigetta il motivo di ricorso che censurava la sentenza d'appello nella parte in cui aveva accordato alla vittima un risarcimento da perdita della capacità lavorativa, sostenendo che la capacità lavorativa generica sarebbe ricompresa nel danno biologico. Sul punto, la Suprema Corte si trova d'accordo col giudice di secondo grado, non ravvisando l'esistenza di una duplicazione risarcitoria, qualificando tale danno come ontologicamente diverso dal pregiudizio alla salute.

Osservazioni

L'ordinanza in commento, ad un'attenta lettura, offre numerosi spunti di chiarificazione rispetto ai temi controversi, assai ricorrenti, nel contenzioso relativo alla responsabilità sanitaria.

Passando sinteticamente in rassegna, secondo l'ordine del provvedimento, le statuizioni contenute, il primo principio affermato attiene alla rilevabilità ex officio degli effetti della transazione.

Sul punto, superata la previgente e differenziata disciplina, che prevedeva la transazione non novativa sempre rilevabile d'ufficio, contrariamente a quella novativa, l'estensore puntualmente richiama il decisum della sentenza a Sezioni Unite n. 1099/1998, ove si statuisce che tutte le eccezioni debbono ritenersi sempre rilevabili d'ufficio, salvo che la legge espressamente le riservi all'iniziativa delle Parti.

In applicazione del suddetto principio di diritto, anche la transazione novativa deve considerarsi rilevabile ex officio, finanche in grado d'appello, a condizione che il fatto costitutivo dell'eccezione sia stato introdotto nel processo tempestivamente, nel rispetto delle note preclusioni processuali relative alle dichiarazioni e produzioni assertive ed istruttorie.

Il secondo principio attiene all'asserita rinuncia ad un'eccezione, qualora la stessa non sia reiterata all'udienza di precisazione delle conclusioni. Anche sul punto, l'estensore, richiamandosi correttamente ai generali principi dell'ordinamento, che non assegnano al silenzio alcun valore - tanto in ambito negoziale quanto processuale -, ribadisce che la rinuncia non può derivare dal mero silenzio, ma da un'espressa, inequivoca e concludente attività processuale volta a manifestare la volontà rinunciataria.

Il terzo principio, in conformità al precedente giurisprudenziale (cfr. cass. n. 28987/2019), stabilisce che la responsabilità della struttura ospedaliera generata da errore medico non costituisce un'ipotesi di responsabilità per fatto altrui, ma è una responsabilità per fatto proprio della struttura che non può venir meno a cagione della transazione tra medico e danneggiato; in tal caso, infatti, l'accordo transattivo stipulato tra medico e paziente non impedisce l'accertamento della responsabilità della struttura sanitaria, ma produce solo due diversi effetti: libera il sanitario transigente e riduce il quantum debeatur in misura differenziale.

Poiché la responsabilità del medico e della struttura sanitaria nei confronti del paziente deve intendersi solidale, la liberazione di un coobbligato, a seguito di transazione, se non diversamente ed espressamente stabilito, scioglie il vincolo della solidarietà, ma non estingue i diritti del transigente nei confronti degli altri obbligati. (cfr. cass. SS.UU. n. 30174/2011).

Il quarto principio chiarisce se, nella liquidazione del danno biologico permanente, si debba commisurare il risarcimento alla durata media della vita in astratto desunta dalle statistiche, oppure si debba avere riguardo alla speranza di vita in concreto della vittima, quand'anche ridotta, rispetto alla media, in conseguenza dell'illecito.

La Corte dà conto di due diversi e contrapposti orientamenti:

1) nella liquidazione del danno alla salute la scelta del valore monetario del punto di invalidità non deve tenere conto della minore speranza di vita, poiché, in tal caso, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento direttamente proporzionale alla gravità del danno cagionato (cfr. cass. n. 5881/2000, n. 28168/2019, n. 8204/2003).

2) nella liquidazione del danno alla salute deve tenersi conto non già della speranza di vita media, ma della concreta aspettativa di vita della vittima, quand'anche, quest'ultima, sia stata ridotta dall'illecito, tuttavia il giudice deve tenere conto di tale danno da anticipanda morte ai fini della “personalizzazione” (cfr. cass. n. 16525/2003, n. 11393/2019).

Come dianzi esposto, il procedimento ermeneutico dell'ordinanza, a questo punto, introduce il concetto di rischio latente al fine di pervenire ad una sintesi accettabile tra i due orientamenti, che, al di là dell'abile retorica, in vero, presentano insuperabili ed intrinseci elementi di contrapposizione ed antiteticità.

L'unica via per il superamento dell'evidente antinomia è costituito dall'introduzione di un quid novi argomentativo con funzione di raccordo: il rischio latente.

Tale concettualizzazione consiste nel pericolo di morire prematuramente e/o di contrarre patologie gravi nel corso della vita del quale, statuisce la Corte, si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente; se non correttamente valutato dal medico-legale, esso andrà accertato in via equitativa dal giudicante, anche ricorrendo all'applicazione del valore stabilito per l'invalidità permanente con riferimento alla speranza di vita media, purché il giudice dia conto dei passaggi logico-giuridici seguiti nell'applicazione di tale quantificazione.

In sostanza, la Suprema Corte afferma che nella quantificazione del danno alla salute occorre applicare il criterio liquidativo correlato all'aspettativa di vita in concreto del leso, ma con un incremento dato dall'apprezzamento del rischio latente; nulla, peraltro, impedendo al giudice, in caso di mancato apprezzamento del rischio latente, di applicare equitativamente il differente criterio liquidativo formulato sull'aspettativa di vita mediana, in quanto il rischio di contrarre malattie in futuro e/o di morire ante tempus a causa dell'avverarsi del rischio latente costituisce, inequivocabilmente, un danno alla salute.

Non può sfuggire come la pronuncia in commento introduca nel sistema - già, peraltro, non scevro di ombre ed incertezze - un ulteriore grado di complessità, né può ignorarsi che l'ingresso di tale parametro (il rischio latente) - la cui stima viene demandata all'accertamento medico legale, sebbene sia concetto oscuro o di incertissima applicazione per gli stessi medici-legali - solo apparentemente costituisca elemento di semplificazione e chiarificazione, dovendosi, invece, legittimamente temere che tale gradiente di novità potrebbe dare luogo ad una minore prevedibilità dell'esito delle liti e degli importi risarcitori, con conseguente incremento del contenzioso ed estensione del potere di equitativo del singolo magistrato, determinando, in definitiva, una minore sistematizzazione dell'intero processo risarcitorio del danno alla salute.

Il quinto ed ultimo aspetto di significativa rilevanza attiene alla, condivisibile, necessità di adeguata personalizzazione del danno, solamente in presenza di effettive circostanze, specifiche ed eccezionali, che giustifichino l'incremento.

La Corte, sul punto, è costante nel rifiutare ogni automatismo nella quantificazione del danno alla salute, precisando che la gravità della lesione, di per sé, non sia sufficiente a determinare la personalizzazione del danno, che può essere invece, legittimamente, ammessa soltanto in caso di provate conseguenze dannose che abbiano carattere peculiare, anomalo ed eccezionale (cfr. cass. n. 5865/2021, n. 10912/2018, n. 21939/2017, n. 23778/2014, n. 17219/2014).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.