L'inerenza in chiave “qualitativa” delle spese di pubblicità ai fini della detrazione IVA. La teoria del dono come possibile chiave di lettura
Gabriele Damascelli
23 Febbraio 2022
Con la sentenza del 25.11.2021 resa nella causa C-334/20, la Corte di Giustizia UE ha riconosciuto la detraibilità dell'IVA, relativa ad una spesa per servizi pubblicitari, qualora tale operazione costituisca un'operazione soggetta ad IVA e presenti un nesso diretto e immediato con una o più operazioni imponibili a valle o con l'intera attività economica del soggetto passivo, prescindendo dalla circostanza che il prezzo sostenuto dal soggetto passivo per l'acquisto di tali servizi sarebbe stato eccessivo rispetto ad un valore (normale) di riferimento definito dall'amministrazione fiscale nazionale o che tali servizi non avrebbero dato luogo ad un aumento del fatturato di tale soggetto passivo per effetto di una correlazione costi/ricavi.
Massima
Con la sentenza del 25 novembre 2021 resa nella causa C-334/20, la Corte di Giustizia UE ha riconosciuto la detraibilità dell'IVA, relativa ad una spesa per servizi pubblicitari, qualora tale operazione costituisca un'operazione soggetta ad IVA e presenti un nesso diretto e immediato con una o più operazioni imponibili a valle o con l'intera attività economica del soggetto passivo, prescindendo dalla circostanza che il prezzo sostenuto dal soggetto passivo per l'acquisto di tali servizi sarebbe stato eccessivo rispetto ad un valore (normale) di riferimento definito dall'amministrazione fiscale nazionale o che tali servizi non avrebbero dato luogo ad un aumento del fatturato di tale soggetto passivo per effetto di una correlazione costi/ricavi.
Il caso
Il caso ha ad oggetto una società ungherese, attiva nel settore degli impianti elettrici, la quale nel 2014 stipulava con un'altra società un contratto relativo alla prestazione di servizi pubblicitari, consistenti nell'apposizione di adesivi pubblicitari, recanti il proprio marchio, sulle autovetture impegnate in un campionato automobilistico in Ungheria.
A tali servizi, che venivano regolarmente fatturati per circa 133.230 euro più IVA, faceva seguito la detrazione dell'imposta da parte della società committente e la conseguente rettifica da parte dell'autorità fiscale ungherese, la quale riteneva che i costi relativi ai servizi pubblicitari in questione non costituissero un onere connesso a operazioni generatrici di reddito per la committente e che l'IVA pagata non fosse quindi deducibile.
A sostegno della propria decisione l'autorità tributaria richiamava la legge interna in tema di imposta sulle società che escludeva le spese ed i costi sostenuti nell'interesse dell'attività imprenditoriale qualora le circostanze (l'attività imprenditoriale, il fatturato, la natura del servizio o il corrispettivo in esso previsto) consentiva di affermare la contrarietà di tale servizio acquistato ai requisiti di una gestione “ragionevole”.
L'amministrazione fiscale richiamava, inoltre, pareri di esperti giudiziari in materia tributaria e pubblicitaria, secondo i quali tali servizi erano troppo costosi, il loro valore era nullo e, quindi, di fatto non utili per la committente, alla luce della natura dei clienti di tale società, quali cartiere, officine di laminazione a caldo e altri impianti industriali, le cui decisioni commerciali non avrebbero potuto essere influenzate dalle pubblicità del marchio apposte sulle auto da corsa, ritenendo di conseguenza che la committente avesse indebitamente detratto l'IVA riportata in fattura.
In fase di rinvio pregiudiziale alla Corte UE, il giudice ungherese ha chiesto se l'art. 168, lett. a), della Dir. 2006/112 debba o possa essere interpretato nel senso che la detrazione dell'IVA non può essere negata nonostante (secondo la valutazione dell'amministrazione finanziaria) il servizio reso dall'emittente della fattura nel contesto di un'operazione realizzata tra parti indipendenti non è «proficuo» per le attività soggette ad imposta del destinatario della fattura, in quanto:
in primo luogo il prezzo fatturato per tali servizi è eccessivo e sproporzionato rispetto ad un valore di riferimento definito dall'amministrazione fiscale nazionale e
in secondo luogo il valore del servizio pubblicitario non ha generato alcun fatturato per il suo destinatario.
La soluzione giuridica
Quanto al primo aspetto la Corte (v. punti da 25 a 29), riprendendo le argomentazioni da ultimo espresse nel caso San Domenico Vetraria, causa C‑94/19 (punto 26 e giurisprudenza citata), ricorda che “il fatto che il prezzo pagato per una transazione economica sia superiore o inferiore al prezzo di costo, e, quindi, superiore o inferiore al valore di mercato aperto, è irrilevante al fine di stabilire se si trattasse di una transazione effettuata a titolo oneroso, poiché tale circostanza non è idonea a pregiudicare il nesso diretto tra i servizi forniti o da fornire e il corrispettivo ricevuto o da ricevere, il cui importo è determinato preventivamente e secondo criteri ben consolidati” (v. anche C‑846/19, punto 43 e giur. cit.).
Coerentemente la Corte ribadisce la necessità dell'esistenza di un sinallagma tra le due prestazioni al fine della riconducibilità dell'operazione nel campo IVA, derubricando ogni questione in merito alla “valutazione” del valore di mercato o meno del prezzo pagato, nella misura in cui l'operazione a monte (la prestazione di servizi pubblicitari) costituisce operazione assoggettata ad IVA, non essendo inficiato il diritto alla detrazione del costo dall'evidente asimmetria rispetto al prezzo di mercato o dall'eventuale valore di riferimento determinato dall'Agenzia delle Entrate per analoghi servizi.
È il caso, ad esempio, del precedente Hotel Scandic C-412/03, avente ad oggetto la detrazione IVA dei costi sostenuti da una società svedese, operante nel settore alberghiero e della ristorazione, che forniva al proprio personale il pasto di mezzogiorno ad un prezzo determinato, in una mensa da essa specificamente adibita a tale scopo, pasto per il quale il personale pagava un corrispettivo inferiore al costo sostenuto dall'azienda.
La Corte, lì, verificava la sussistenza o meno di una controprestazione per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio, nonostante tale controprestazione fosse inferiore al prezzo di costo del bene o del servizio stesso, argomentando nel senso dell'irrilevanza dell'asimmetria del prezzo di un'operazione economica, superiore o inferiore, rispetto al prezzo di costo (v. C-102/86, p. 12), richiamando le conclusioni dell'Avvocato Generale (p. 22 della sentenza) in punto di tassazione IVA dell'autoconsumo, secondo il quale, per la rilevabilità della nozione di controprestazione, “deve esistere un rapporto giuridico tra l'alienante (o colui che presta il servizio) e l'acquirente (o il destinatario), nell'ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni, in cui il compenso ricevuto dal primo costituisca il controvalore effettivo del vantaggio ottenuto dal secondo, il che rappresenta un parametro soggettivo, basato, più che sul valore stabilito in base ad una valutazione oggettiva, sul valore realmente percepito in ciascun caso. Pertanto, la circostanza che un'operazione economica venga svolta ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo è irrilevante ai fini della qualifica di detta operazione come negozio a titolo oneroso” (v. anche C-16/93 p. 14, C-172/96 p. 26, C-317/94 p. 27 e C-404/99 p. 38).
Interessante al riguardo il caso Gemeente Woerden affrontato dalla Corte UE in C-267/15, in cui si verteva della detraibilità dell'IVA da parte di un Comune che aveva ordinato la costruzione di due edifici destinati ad uso multiplo (detraendo la quasi totalità dell'imposta che gli era stata fatturata) e successivamente, anziché dare gli edifici in locazione, decideva di venderli ad una fondazione, di cui il Comune rappresentava uno dei cinque membri fondatori ed avente lo scopo di gestire gli immobili e promuovere la cooperazione tra gli utenti dei medesimi, per un importo equivalente al 10% circa del prezzo di costo ed il cui prezzo d'acquisto dovuto dalla Fondazione era convertito in un prestito con interessi.
La Fondazione, successivamente, cedeva a titolo gratuito l'uso di una parte degli edifici a tre istituti di istruzione primaria speciale e dava in locazione a titolo oneroso (esente da IVA) le restanti parti a diversi locatari, con l'eccezione della locazione degli impianti sportivi.
Alla domanda, quindi, se il Comune avesse diritto o meno alla detrazione dell'integralità dell'IVA assolta nella costruzione di tale edificio o piuttosto soltanto parziale in proporzione alle parti dell'edificio che l'acquirente destinava ad attività economiche, la Corte UE considerava il Comune quale soggetto passivo ai fini della detrazione IVA ribadendo l'indipendenza tra il risultato dell'operazione economica (vendita sotto costo) ed il diritto di detrazione, purché l'attività economica, globalmente intesa, fosse essa stessa soggetta ad IVA (v. C-412/03 p. 22 e C-285/10 p. 25), con l'unica e condivisibile eccezione delle vendite effettuate ad un prezzo “puramente simbolico” (v. C-267/15 p. 41).
Tali conclusioni, condivisibilmente, poggiano sia sulla considerazione dell'estensione del meccanismo di neutralità dell'IVA per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle medesime, purché in sé soggette ad IVA (v. C-324/11 p. 23, C-285/11 p. 27 e C-409/99 p. 42) sia sulla circostanza che la Dir. IVA non subordina (v. l'art. 168) il diritto a detrazione ad una condizione collegata all'utilizzo dei beni o dei servizi di cui trattasi da parte della persona che riceve dal soggetto passivo tali beni o servizi, perché ciò implicherebbe che ogni operazione effettuata dal soggetto passivo con un acquirente o con un cessionario che non eserciti attività economiche, come i privati, limiterebbe il diritto a detrazione del soggetto passivo.
Le direttrici qui richiamate sono state riprese, di recente, anche dalla Corte di Cassazione, in tema di “antieconomicità” del costo, eccependo al soggetto passivo il diritto alla detrazione IVA qualora l'Amministrazione finanziaria dimostri l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione,“esulante dal normale margine di errore di valutazione economica”, nelle ipotesi di falsità della fattura, inesistenza dell'operazione, falsità del prezzo, inesistenza dell'inerenza o della destinazione del bene o servizio acquistati al fine dell'utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA, escludendo di contro la contestazione in “condizioni normali” (v. Cass. 19212/2021 punto 2).
La Cassazione ha altresì riconosciuto, in campo IVA ed ai fini della valutazione dell'inerenza, la differente incidenza del giudizio di congruitàrispetto alle imposte dirette stante la non immediata applicazione dei principi espressi con riguardo all'imposizione diretta (v. Cass. 27961/2021, Cass. 19212/2021, Cass. 16010/2019, Cass. 18904/2018, Cass. 2240/2018, Cass. 2875/2017, Cass. 22130/2013).
Da ultimo la Suprema Corte (n. 36391 del 24.11.2021), anche se “interessata” solo dalle imposte dirette, ha rimarcato che anche se “l'antieconomicità e l'incongruità della spesa sono indici rivelatori della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa”, la nozione di inerenza debba integrare un giudizio di tipo “qualitativo”, non potendosi sostenere, da parte pubblica, una stretta e necessaria correlazione tra costi e ricavi (nel senso di una richiesta incidenza, compatibilità e coerenza dei costi non ai ricavi in sé bensì all'attività imprenditoriale idonea a produrre redditi) al fine del disconoscimento dei primi, in quanto oggetto di un giudizio “solo di tipo quantitativo e non qualitativo” (in merito “all'area della simmetria fra i due sistemi impositivi” v. in argomento P. Centore, L'asimmetria fiscale delle spese di pubblicità e di rappresentanza, Corr. Trib., 2016, pag. 1863; P. Centore, La (improbabile) distinzione ai fini IVA tra spese di pubblicità e spese di rappresentanza, Corr. Trib., 2016, pag. 2169; da ultimo anche N. Galleani d'Agliano, Detrazione per servizi pubblicitari ammessa alle condizioni fissate dalla Direttiva IVA, G.T., 2022, pag. 10, il quale ribadisce la necessaria sterilizzazione da “contaminazioni” del diritto alla detrazione IVA rispetto agli altri settori fiscali, in quanto “assoggettato alle sole condizioni fissate dalla Direttiva 2006/112” e richiama, al riguardo, nella nota n. 3), le conclusioni dell'Avv. Gen. Kokott nella causa C-132/16 la quale valorizza (punti da 25 a 27), ai soli fini delle imposte dirette, la bontà dell'utilizzo del “principio di causalità onde pervenire a una tassazione uniforme in base alla rispettiva capacità finanziaria”, escludendo di contro, ai fini IVA, che un nesso meramente causale tra le prestazioni a monte e quelle a valle sia sufficiente ai fini della detrazione per l'art. 168 della Dir. IVA).
Quanto al secondo aspetto, la Corte UE ribadisce che (v. punti 30 e ss. C-334/20) in merito all'assenza di aumento del fatturato del soggetto passivo, circostanza che dimostrerebbe l'inefficacia dei servizi prestatigli a monte, né l'articolo 168, lettera a), né l'articolo 176, primo comma, della Dir. IVA, subordinano l'esercizio del diritto a detrazione ad un criterio relativo all'aumento del fatturato del soggetto passivo né, in termini più generali, ad un criterio di redditività economica dell'operazione effettuata a monte, garantendo il sistema IVA la neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle stesse, purché dette attività siano, in linea di principio, di per sé soggette all'IVA.
La Corte UE ha nel tempo ribadito (v. tra i tanti C‑42/19 p. 38 e 40, C-110/98 p. 45, C-98/98 p. 22, C-37/95 p. 20 e C-110/94 p. 20) la sussistenza del diritto a detrazione anche qualora l'attività economica prevista non sia stata realizzata e, pertanto, non ha dato luogo ad operazioni soggette ad imposta o se il soggetto passivo non ha potuto utilizzare i beni o i servizi che hanno dato luogo a detrazione nell'ambito di operazioni imponibili a causa di circostanze estranee alla sua volontà; tale impostazione nasce (v. ad es. C-42/19 p. 40) dalla necessità di evitare, nel trattamento fiscale delle medesime attività di investimento, “disparità ingiustificate tra imprese che effettuano già operazioni imponibili e altre che cercano, mediante investimenti, di avviare attività da cui deriveranno operazioni soggette ad imposta”, in quanto “l'accettazione definitiva delle detrazioni dipenderebbe dalla questione di stabilire se tali investimenti diano luogo o meno ad operazioni soggette ad imposta”.
È il caso, ad esempio, delle attività preparatorie e della conseguente detrazione prospettica dell'IVA, considerate dalla Corte (v. C-42/19 p. 33 e 34) “parte integrante delle attività economiche” che consentono la detrazione d'imposta a “chiunque abbia l'intenzione, confermata da elementi obiettivi, di iniziare in modo autonomo un'attività economica ed effettua a tal fine le prime spese di investimento”, a prescindere dai risultati dell'attività economica singolarmente considerata (v. anche tra i tanti C‑249/17 p. 18 e 19, C-126/14 p. 20, C‑257/11 p. 27, C‑153/11 p. 41 e 42 e C-415/98 p. 29).
Analogamente la Corte UE ha ricondotto tra le attività economiche vari atti consecutivi/preparatori, tra i quali anche l'acquisto di un bene immobile, giudicando in contrasto con il principio della neutralità dell'IVA ritenere che le “attività” “avessero inizio soltanto nel momento in cui un bene immobile viene effettivamente sfruttato, cioè quando comincia a produrre un reddito imponibile”, ponendo così “a carico dell'operatore, nell'esercizio della sua attività economica, l'onere dell'IVA, senza dargli la possibilità di effettuarne la detrazione”, rivelando un'arbitraria distinzione tra le spese di investimento effettuate prima e durante l'effettivo sfruttamento di un bene immobile (v. C-110/94 p. 15 e C-268/83 p. 22).
Nel caso odierno la Corte ha ritenuto che le spese compiute per acquistare beni o servizi “facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle che conferiscono il diritto a detrazione”, derubricando l'eventuale antieconomicità dell'operazione (v. sentenze C‑528/19 p. 26, C‑132/16 p. 28, C‑124/12 p. 27 e C‑29/08 p. 57) e ribadendo il diritto a detrazione del soggetto passivo anche in mancanza di un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte ed una o più operazioni a valle che conferiscono un diritto a detrazione, qualora i costi facciano parte delle spese generali del soggetto passivo e, in quanto tali, siano elementi costitutivi (siano incorporati) del prezzo dei beni o dei servizi che esso fornisce.
L'evidenza di un tale nesso, continua la Corte, deve essere valutata dalle amministrazioni finanziarie e dai giudici nazionali tenendo conto unicamente delle operazioni che siano oggettivamente connesse all'attività imponibile del soggetto passivo ed alla luce del contenuto oggettivo delle operazioni realizzate a valle, giustificando in tal modo la detraibilità di quelle spese per le quali i giudici della nostra Corte di Cassazione hanno riconosciuto l'esistenza di una inerenza qualitativa e non già solo quantitativa.
Asimmetria interna del d.P.R. 633/72 rispetto alla clausola di blocco (di standstill) prevista dall'art. 176 della Direttiva IVA
Possono esser utili alcune brevi riflessioni sulla ritenuta asimmetria tra la Direttiva IVA, in punto di indicazione delle spese escluse dal diritto a detrazione (art. 176 Dir. IVA), e l'allocazione interna ad esempio, per quanto qui di interesse, delle spese di rappresentanza (v. art. 19-bis 1 lett. h) tra le spese soggette a specifici limiti a detrazione.
Tale riflessione prende spunto dalla possibilità, paventata dalla Corte UE nella sentenza in commento (punti 30 e 38), di considerare le spese di apposizione del marchio sulle auto da corsa non già di pubblicità bensì di rappresentanza, come tali prive di carattere strettamente professionale ai sensi dell'art. 176, par. 1, della Dir. IVA e, quindi, del diritto a detrazione da imposta.
L'art. 176 citato (di identico contenuto al precedente art. 17, par. 6 della Sesta Direttiva) prevede che “1. Il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione, stabilisce le spese che non danno diritto a detrazione dell'IVA. In ogni caso, saranno escluse dal diritto a detrazione le spese non aventi un carattere strettamente professionale, quali le spese suntuarie, di divertimento o di rappresentanza. 2 Fino all'entrata in vigore delle disposizioni di cui al primo comma, gli Stati membri possono mantenere tutte le esclusioni previste dalla loro legislazione nazionale al 1° gennaio 1979 o, per gli Stati membri che hanno aderito alla Comunità dopo tale data, alla data del la loro adesione”.
In merito al comma 1 del par. 1, la Corte UE ha più volte ricordato l'assenza, che ad oggi permane, di un “elenco” delle spese escluse dal diritto a detrazione, evidenziando che l'art. 176, primo comma, della Dir. IVA, “enuncia semplicemente che il Consiglio stabilirà le spese che non danno diritto a detrazione dell'IVA e che, in ogni caso, saranno escluse dal diritto a detrazione le spese non aventi un carattere strettamente professionale, quali le spese suntuarie, di divertimento o di rappresentanza. Tale disposizione non impedirebbe, quindi, al Consiglio, a tempo debito, di escludere dal diritto a detrazione spese che abbiano natura professionale” (v. ad es. C-225/18 p. 30 e 46, C‑538/08 p. 38 e C‑124/12 p. 43 e 44).
Nel par. 2 è inserita una clausola di standstill che prevede, per gli Stati aderenti all'UE, il mantenimento delle esclusioni nazionali dal diritto a detrazione dell'IVA, applicabili prima della data della loro adesione, fintantoché il Consiglio non adotti le disposizioni previste all'articolo 176, cosa che, appunto, il Consiglio non ha ancora fatto.
La Corte UE ha più volte affermato che la facoltà residua, per gli Stati membri, di mantenere in vigore le esclusioni nazionali al diritto alla detrazione dell'IVA non è assoluta, dal momento che la clausola di standstill non ha lo scopo di consentire ad uno Stato membro (“originario o nuovo”) di modificare la propria normativa interna in occasione della sua adesione all'Unione, il cui effetto sia quello di ampliare l'ambito delle esclusioni esistenti in un senso che allontani tale normativa dagli obiettivi della direttiva IVA, ciò che sarebbe in contrasto con lo spirito stesso di tale clausola (v. C‑414/07 p. 37 e 39).
Per il singolo Stato membro è possibile, ci riferisce la Corte, procedere solo ad un contenimento (riduzione) delle ipotesi di esclusione del diritto a detrazione e non già ad un ampliamento dei casi, consentito questo, con determinati limiti, solo su autorizzazione del Consiglio (v. art. 177 e 395 della Dir. IVA).
Osservazioni
Le argomentazioni della Cassazione e della Corte UE in tema di inerenza ai fini della detrazione IVA
Uno spunto di analisi per rilevare il differente “approccio” tra la Cassazione e la Corte UE lo si ha, ad esempio, osservando il costante orientamento dei primi giudici ai fini del diritto a detrazione IVA, in merito alla qualifica quali spese di rappresentanza e non già di pubblicità delle spese per cessioni gratuite di capi di abbigliamento dall'impresa produttrice a personaggi molto noti al grande pubblico i quali fungerebbero, nelle contrapposte “intenzioni” delle case di alta moda, ex sé da casse di amplificazione del marchio aziendale pur in assenza di un contratto tra “cedente e cessionario” (v. tra i tanti Cass. 13100/2020, 10636/2018, 29690/2017, 8121/2016, 10910/2015, 3433/2012).
In merito alle “prestazioni pubblicitarie” la Corte di Giustizia ne ha, differentemente, dato una nozione più ampia e circostanziata affermando, in primis, che esse implicano necessariamente la diffusione di un messaggio destinato ad informare il consumatore dell'esistenza e delle qualità di un prodotto o di un servizio e ciò al fine di incrementarne le vendite, ciò che può avvenire sia a mezzo parole, scritti o immagini via stampa, radio o televisione, sia mediante l'uso parziale o esclusivo di altri strumenti, in tale ultimo caso dovendo valutate volta per volta tutte le circostanze che caratterizzano la prestazione per determinare se questa costituisca una prestazione pubblicitaria (v. C-68/92, C-69/72 e C-73/92).
Da parte della Cassazione (v. 8121/2016) le spese su riferite e prese ad esempio sono collocate “nell'elenco” di quelle di rappresentanza in quanto nella “cessione gratuita a VIP di capi d'abbigliamento griffati, pacificamente effettuata al di fuori di ogni patto contrattuale e di ogni consequenziale obbligo giuridico d'indossarli in manifestazioni pubbliche” manca “l'obiettività di un collegamento immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l'aspettativa diretta di un maggior ricavo”, risultando assente “ogni dovere - se non quello morale - d'indossare gli indumenti griffati in situazioni di pubblica visibilità”, qualora, altresì, “il tutto non sia accompagnato da ben diverso e ficcante messaggio integrativo” (v. anche Cass. n.29124/2021, 1922/2019, 10111/2017, 16812/2014, 7803/2000).
L'assenza del dovere morale richiamato dalla Cassazione a motivo del diniego di detrazione IVA, al netto dell'obbligatorietà del requisito principale del carattere strettamente professionale della spesa (v. art. 176 della Dir. IVA), offre lo spunto per riferire, come già evidenziato in dottrina (v. P. Centore, Corr. Trib., 2016, pag. 1863, su citato), della soluzione in materia offerta dalla pregevole intuizione dell'Avvocato Generale Niilo Jääskinen nelle proprie Conclusioni rese nel caso Emi Group (causa C-581/08).
Lì si discuteva della detraibilità IVA per il cedente dei costi sostenuti per la produzione di cd musicali forniti gratuitamente (campioni omaggio, analogamente agli abiti griffati), ed in grande numero, a numerosi ed in parte ben definiti utenti, noti come “pluggers” (persone che lavorano per la stampa, per emittenti radiofoniche o televisive, per agenzie pubblicitarie o in punti vendita al dettaglio) al fine di promuovere il prodotto, nei media audiovisivi e nella stampa, i cui campioni costituiscono esemplari, consentendo la valutazione della qualità del medesimo e la verifica della presenza delle proprietà ricercate da un acquirente potenziale o effettivo.
Al fine di “sostenere” la detraibilità dell'IVA inerente alla cessione gratuita di beni prelevati ad uso dell'impresa, l'Avv. Gen. si interrogava (v. punto 40 di C-581/08; v. anche le Concl. dell'Avv. Gen. causa C‑33/93) sulla nozione di regalo (o dono), di rilevanza fondamentale per l'antropologia e la sociologia e giuridicamente “ben ancorata in tutti i sistemi di diritto civile” (richiamava il giurista tedesco F. C. Savigny il quale evidenziava che, “malgrado la sua apparente semplicità, il «regalo» è un istituto giuridico complesso”).
A tal riguardo, richiamando le tesi sostenute nel “Saggio sul dono”, pubblicato dall'antropologo francese Marcel Mauss nel 1925 (Torino, 2002) l'Avv. Gen. riferiva che “nelle società arcaiche, scambi e contratti hanno luogo in forma di regali. In teoria sono volontari, ma in realtà essi vengono effettuati e scambiati obbligatoriamente. Poiché la natura umana non è cambiata, non sorprende che il legislatore dell'Unione europea, che definisce l'imposta sul valore aggiunto un'imposta generica sui consumi su tutte le operazioni che integrano cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso, non abbia considerato le operazioni a titolo gratuito per il loro valore nominale. Come vedremo, nella maggior parte dei casi, le transazioni a titolo gratuito sono assoggettate all'IVA applicando le disposizioni sull'autoapprovvigionamento. Per quanto riguarda i regali offerti nell'ambito di rappresentanza o intrattenimento, lo stesso effetto è ottenuto sottraendo gli acquisti di tali beni ai dettami della normativa che disciplina le detrazioni”.
Mauss si chiedeva se fosse proprio il dono l'elemento attraverso il quale gli uomini creano la loro società, per mezzo del quale si realizza la loro volontà di creare rapporti sociali, ovvero di “produrre la società per vivere”, fine raggiunto da quella capacità che beni e servizi, se donati, hanno di creare e riprodurre relazioni sociali, valore definibile anche “di legame”, in quanto, con tale approccio, il legame diventa più importante del bene stesso.
Il dono, avente in sé un obbligo morale di restituzione, fuori dalle ipotesi di “vera” gratuità e disinteresse, veniva dallo studioso definito come ogni prestazione di beni o servizi effettuata al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone (v. J. T. Godbout, Lo spirito del dono, Torino, 1993), non già però per una finalità meramente gratuita, rientrando il gesto in quella “economia della gratitudine”, ovvero in uno stato di debito reciproco, che fa sì che ciascuno possa dire dell'altro: “gli devo tanto”.
Chi dona, in altre parole, si attende un controdono, impegnando, il dono, ad un obbligo morale di restituzione il donatario, essendo la “garanzia” che il dono sia ricambiato “insita” nel dono stesso, quale forma di “rappresentazione” proto giuridica del contratto reale.
L'Avv. Gen. argomentava, poi, nel senso di un'assenza di rischio di perdita di gettito IVA nella misura in cui i prelievi, in quanto eseguiti ad uso dell'impresa ai fini del diritto a detrazione, non possono direzionare i campioni o i regali se non verso soggetti con cui i cedenti intrattengono dei rapporti professionali particolari, oltre ad essere “elargiti” unicamente se giustificati da solide considerazioni di natura promozionale o di mercato, escludendo in tal modo ogni evidenza di rischi di evasione in relazione all'art. 16 par. 2 della Dir. IVA ed a differenza del suo par. 1, che “mira a disciplinare un evidente problema di confusione tra beni acquistati ad uso dell'impresa e per fini privati”.
L'approccio al problema della Corte UE da tale angolo di visuale ci consente, in conclusione, di osservare la coerenza argomentativa espressa nel tempo dal giudice unionale, il quale ha fornito delle “spese di pubblicità” (inerenza) una nozione molto ampia, includendo tra quelle deducibili IVA, effettuateper scopi non estranei all'impresa, quelle ad esempio per cessioni di cd musicali omaggio (C-581/08), per la fornitura a titolo gratuito di pasti, da parte delle mense d'imprese nei rapporti d'affari o a membri del personale, nel corso di riunioni di lavoro che si svolgono presso l'impresa (C-371/07), per somministrazione dei pasti ai propri dipendenti, in una mensa da essa specificamente adibita a tale scopo, effettuate da un soggetto passivo nei confronti del proprio personale ad un prezzo inferiore a quello di costo (C-412/03), per l'organizzazione del trasporto gratuito dei dipendenti, effettuato da parte del datore di lavoro tra il loro domicilio e il luogo di lavoro, mediante un autoveicolo dell'impresa (C-258/95) e per a) la vendita di beni mobili materiali messi a disposizione da un'impresa che opera nel settore pubblicitario al suo cliente, come ad esempio la vendita di beni destinati ad essere distribuiti gratuitamente in occasione di giochi, lotterie, premi, concorsi ecc., o sistemati nei punti vendita per l'esposizione dei prodotti, b) le prestazioni eseguibili da un'impresa che opera nel settore pubblicitario nel contesto di manifestazioni di vario genere quali le attività ricreative, i cocktail ecc. e c) la realizzazione vera e propria di materiali pubblicitari, come ad esempio la stampa di documentazione pubblicitaria da parte di un tipografo o l'allestimento di un pannello pubblicitario (C-68/92).
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Sommario
Asimmetria interna del d.P.R. 633/72 rispetto alla clausola di blocco (di standstill) prevista dall'art. 176 della Direttiva IVA